Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Vento” di Sandra Salvini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Era stato il vento?

Il rumore era stato secco e l’eco risuonava ancora.

Poteva il vento riuscire a fare cosi tanto? Interrogativi. Atti indotti naturalmente oppure studiati con meditazione?

Iniziare con domande e dare a queste il “vento” come risposta rientrava forse nella dinamica dei suoi gesti, che spesso mal celavano le vere intenzioni. Non era più in quella fase della vita in cui si possono dare risposte approssimative né tanto meno nascondere aperte verità. Era questo il momento di affrontare tutto quanto.

Giorgio era lì quel giorno, forse c’era anche un amico, non ricorda bene ma non ha importanza oramai.

Giorgio, il suo compagno, il marito mancato, mancato perché non se l’era sentita di sposarlo e non era neppure riuscita per lungo tempo a darsi una risposta sincera, a guardarsi fino in fondo.

Sentiva che qualcosa le impediva di consacrare e legare in quella forma quel rapporto. Giorgio era entrato così nella grande casa affiancandosi alla sua vita e non aveva interferito, inizialmente, con quell’altrove dove lei sempre più si rifugiava.

Era di pomeriggio. Se ne stava seduta dando le spalle alla vetrata che dava sul giardino. Era presa nei suoi pensieri, afferrata a quella porta interiore che quando si socchiudeva le lasciava intravedere l’altra parte di sé.

Non seguiva la discussione, l’ennesima, dove ciascuno voleva prevaricare sull’altro; in realtà, il nodo vero intorno a cui ruotavano sempre le amare constatazioni non era stato ancora affrontato. Entrambi soggiacevano a quella situazione inaridita, di logora reciproca accusa, annientandosi a vicenda, reprimendo volontà e desideri. Almeno così era per lei.

La grande casa è vuota adesso, svuotata del suo passato. Chissà perché oggi ha deciso di tornare lì, in quel giardino del Villino Tilde… ricevuto in eredità da una lontana zia.

Cosa l’ha portata a varcare quel cancello, ripercorrere passi. Forse semplicemente quel vento che stamani ha fatto sbattere la finestra della sua nuova casa, dischiudendo qualcosa dentro di lei, facendosi strada nella mente e nel corpo.

Adesso si trova nel giardino, lasciato abbandonato. A terra frammenti di cristallo, rimasti lì quel giorno dopo quel colpo, fra fili d’erba e ricordi…

Vede l’immagine di se stessa riflessa e frastagliata ma lo sguardo è diverso, distaccato, il volto mostra un lieve sorriso, non più amareggiato, che le increspa il labbro superiore come una sottile virgola che segna il volto non più giovane.

Mi riconosco.

Mi chiamo Amelia e non è neppure il nome di mia nonna, me lo sono ritrovato addosso recitato nel suo suono come un amen; niente a che vedere con la religione, oserei dire più con la rassegnazione.

Non era tanto il nome ad essere sbagliato. La mia rassegnazione non veniva da lì. Il nome era sufficientemente singolare, né troppo antico né frutto di mode del momento.

La mia rassegnazione, che si era stratificata quasi a diventare un fossile, nasceva da altro.

Questo Altro aveva anch’esso un nome: Diversità.

Ero solita dire che mi sentivo come un campanile: solitaria, con l’alternanza del suono delle campane e di lunghi silenzi, lunghe attese.

Quando è che si comincia ad essere consapevoli della propria diversità?

La mia diversità si era presentata presto, molto probabilmente in quell’istante del mio concepimento e chissà che anche allora il vento non abbia avuto la sua parte. Sì, penso che abbia creato spazio, si sia insinuato in ogni piccolo frammento di quella che poi sarei stata io, come a depositare in me la chiave risolutiva.

Il vento che si agitava in me aveva all’inizio dato forma alla mia vivacità, che si espandeva in una inaspettata – agli occhi esterni – creatività, come se non ci si aspettasse gran cosa da me.

Gli occhi esterni, quelli dei familiari o di coloro che erano entrati anche casualmente in contatto con me, non sempre riuscivano a comprendere quelle note creative, quei gesti insoliti e dirompenti e il loro sguardo incredulo, anche se talvolta divertito, aveva pian piano depositato in me una sensazione di non appartenenza, di scomoda estraneità al mondo esterno. Questo aveva posto le fondamenta di quel campanile che si ergeva così audace se visto da fuori ma che conteneva all’interno una tortuosa scala a chiocciola, di stretti gradini, che mi avvolgeva quasi a contenere quella forza che non trovava spesso il giusto spazio e la sua libera espressione.

Il mondo esterno, ignaro di quella scala che si snodava dentro di me, cercava di indirizzarmi su strade normalizzanti e dirottarmi su percorsi più sicuri e soprattutto controllabili.

Si può forse controllare l’arcobaleno? Lo si può forse afferrare? Lo si può rendere stabile? No, lo si guarda, lo si ammira ma non si può che lasciarlo lì a splendere, sì ma da solo.

Così, immersa in quei colori avevo vissuto gli anni dell’infanzia che si erano gettati con determinazione in quelli dell’adolescenza, ancora inconsapevole della natura delle radici che sostenevano quel corpo che stava dando forma al conflitto, a quel sentirsi altrove, incapace di coglierne la vera natura.

L’Altrove che c’era in me aveva dovuto lasciare spazio a quello che ci si aspettava che io fossi e facessi. Era stato quasi tacitato nel tentativo di poterlo addomesticare, renderlo malleabile e rispondente alle aspettative altrui.

Così era stato anche con Giorgio.

So di apparire alquanto confusa o malamente misteriosa ma quel rumore così netto e questi cocci a terra che rimandano riflessi incerti mi hanno riportato indietro nel tempo, a quegli anni della mia vita allontanati a forza, quasi a negarli. Tuttavia, è bastato quel rumore, quell’eco ripetuta dentro di me per sentire salire l’onda del richiamo, l’urgenza di tornare a quel giorno, come un urlo improvviso.

Come è stato possibile?  

L’urlo si apre dentro di me, mi squarcia prima ancora di poter fuoriuscire, farsi voce. Prepotente si afferma la necessità di uscire da tutto: dall’apatia, dalla rassegnazione, dal lasciarsi vivere nel farsi carico solo dell’altro. Dove mi ero rifugiata in tutti quegli anni, quando avevo iniziato a dimenticarmi, a respingere quella che ero, a nascondere a tutti, e soprattutto a me stessa chi veramente fossi?

Mi ero messa in pausa troppo a lungo, non era stato chiaro se fossi stata io a mettermi in quella condizione oppure le circostanze avessero fatto in modo che sembrasse così. Quanto avevo addebitato alle circostanze la mia solitudine, tutte le mie delusioni e il mio rammarico?

Giorgio si era affiancato, certamente attratto dalla mia esuberanza di cui piano piano si era nutrito, succhiandomi lentamente senza che io me ne rendessi conto. Lo avevo appoggiato nei suoi progetti, nei suoi sogni credendo che fossero i miei. Alla sua apatia avevo contrapposto la mia energia, tutte le mie risorse. Niente tuttavia lo soddisfaceva, niente rispondeva al suo bisogno.  Mi ero ritrovata sempre più sola, serrata in una quotidianità senza slanci né tantomeno amore ed in questa condizione avevo cercato sostegno in una parte di me inafferrabile quasi a me stessa, dove prendevo le distanze dal presente dipingendo realtà lontane, dove mi tuffavo senza controllo. Purtroppo, questo incessante tuffarmi altrove creava sempre più in me uno iato, una distanza tra quella che dovevo essere nel ruolo che mi ero data e quella che emergeva da dentro, prepotente e sanguinante. Questa distanza si ripercuoteva non solo nella mente ma soprattutto nel corpo.

Dove era il mio corpo e dove era stato tutto quel tempo?  Era stato assente, privo di vibrazioni e di questo mi ero sentita in qualche modo responsabile e quasi in colpa nei confronti di Giorgio, con il quale non ero stata in grado di stabilire una sintonia sensuale, ciò che comunemente chiamiamo ‘intesa’. Le incomprensioni poi, i disagi e i litigi erano diventati così inevitabili ed ingombranti da far sembrare la mancata intesa una naturale conseguenza.

Ed il mio corpo continuava a sanguinare senza che io ne fossi realmente consapevole.

Si affacciavano però in me degli impulsi, dei movimenti che sembravano venire da una profondità inesplorata che ogni volta ricacciavo, come a non voler guardare davvero chi fossi.

Si presentavano come implosioni di un corpo che cercava altro, come se quello a cui poteva accedere non fosse la sua vera sorgente.

Ricordo la prima volta che mi sentii afferrata da una emozione che non conoscevo; era stato uno sguardo a provocarla, uno sguardo chiaro, luminoso, accompagnato da un movimento del collo lento e provocante, che si ergeva su un corpo asciutto, scattante.

Rimasi turbata da quanto avevo provato e più volte ero ritornata col pensiero a quello sguardo, riprovando ogni volta quel fremito.

Cosa sapevo di me? 

Erano pulsioni sotterranee che si facevano spazio in quell’altrove dove lentamente mi ricomponevo, imparando a lasciarmi andare a quelle onde di desiderio che mi stringevano la gola, il ventre, le cosce.

Ero sola e smarrita. Il mio corpo mandava segnali sempre più forti, emozioni che trovavano risposta in uno spazio inatteso….

Imparai ad accettare quelle risposte diverse del mio corpo, suscitate da volti, sguardi, gesti che mi confondevano. Difficile dire quando ho percepito con più fermezza da cosa e da chi fossi realmente attratta. Ancora più difficile prenderne atto ed accettarlo.

Erano sfumature al femminile quelle in cui mi sentivo avvolta, erano sguardi di donna quelli che suscitavano in me languore… la mia diversità.

Dramma e gioia. Mi ero svelata ma al contempo mi trovavo intrappolata in una vita non mia, nelle circostanze di un rapporto con uomo che non poteva neppure essermi umanamente vicino, amico.

Ricordo bene i tratti del volto di Giorgio quel giorno, erano tesi quasi furiosi, come se avesse ancora di più percepito il mio distacco, da lui, dalla casa, dalla nostra vita.

Si alzò di scatto quando alla sua ripetuta domanda io non risposi; scivolò veloce dietro le mie spalle per andare in giardino ed aprire la vetrata. In quel momento il vento si fece più forte e prese spazio fra lui e me facendo sbattere con un colpo unico e netto la vetrata che andò in pezzi. Io non mi voltai, era chiaro in me che il momento era vicino, forse già quello era il momento per non voltarsi più.

Le vicende si sono poi svolte banalmente, come spesso accade a noi umani.

Io ho abbandonato il villino e mi sono stabilita altrove, che ora è solo un punto geografico, non più un conflitto.

Sono Amelia, ho 55 anni ed il mio amore è al femminile e così sia.

Amen.

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