Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Daddy blues” di Luca Bonacina

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Al corso di avvicinamento al parto ero stato concentrato, avevo fatto parecchie domande ma nessuno mi aveva preparato a tutto questo.

Nella nursery, fuori dalla sala operatoria, mi era sembrato di stare in una bolla: i rumori ovattati, la neonatologa e i primi esami audiometrici, e mia figlia, persa come me nell’azzurro della vaschetta d’acqua. La mia postura tradiva imbarazzo: il peso del corpo spostato di continuo da una gamba all’altra e le braccia conserte, a difendermi da qualcosa di inaspettato e sconosciuto. Poi ho messo a fuoco il braccialetto di riconoscimento con la data di nascita e il nome, Emma.

– Papà, sveglia! Vai a prendere qualcosa da mettere alla bimba!

Quelle parole mi sono entrate nella testa e mi hanno scosso. Ho aperto la zip del borsone e ho tolto il pigiama rosso. – Ma questo è un asciugamano. Un po’ imbranato il tuo papà, eh, piccolina? Ho sorriso, la bocca asciutta mi ha impedito di trovare parole e tempo per rispondere all’infermiera castana. O mora?

La piccola ha continuato a strillare, da pochi minuti l’hanno levata dal suo mondo, quel grembo dove ha vissuto per otto mesi e mezzo. L’infermiera mi ha aiutato a infilarle il pigiamino e me l’ha messa in braccio.

– Ha freddo, scaldala, tienila stretta al petto. E andiamo dalla mamma – mi ha detto. Ho ubbidito senza fiatare, inebetito.

Sono entrato nella camera di Elena e ho visto i suoi occhi, non sono mai stati così belli. Mi ha chiesto di aiutarla a tenere la piccola, era impaziente. – Appena è nata, l’ostetrica me l’ha portata via – ha detto, un inciampo nella voce.

Era sofferente per la ferita, le ho sistemato un cuscino dietro la schiena per aiutarla a mettersi dritta e ho avvicinato la bambina che stava piangendo; lei le ha parlato con dolcezza e l’ha accarezzata per calmarla. Ho baciato piano le labbra di mia moglie ma la risposta è stata distratta: la sua attenzione era tutta per lo scricciolo. Ha voluto a tutti i costi avvicinare la bimba al seno, Emma ha succhiato dal capezzolo e piano piano le si è addormentata fra le braccia.

Il mio sguardo è finito sul comodino, sul quadretto che Andrea e Francesca ci hanno regalato prima di partire per le loro vacanze da soli, un collage di fotografie che ritraggono me ed Elena nell’oceano di Miami, sulle piste da sci di Bormio e in sella alle biciclette, a Creta; in tutte la spensieratezza sui nostri volti. L’angolo in basso a destra era vuoto: “ci metterete i vostri sorrisi insieme a Emma”, io ho pensato alla prima candelina sulla torta di compleanno, con la pletora rumorosa di nonni e cugini a fianco, come successe un paio d’anni fa con mio nipote.

Ieri sera mia moglie era nervosa, sono rimasto in ospedale a farle compagnia. Quando si è addormentata, mi sono appisolato con la testa appoggiata sul suo letto, al risveglio ero agitato, lei dormiva un sonno profondo, le ho accarezzato il viso e me ne sono andato. A casa la cucina era vuota e fredda, triste nel buio della sera, ho preferito infilarmi nel letto senza cenare.

Mi sono girato e rigirato per tutta la notte, lottando coi pensieri, e stamattina mi sono alzato presto, qualcosa di strano nello stomaco, una sensazione conosciuta poche volte nella vita.

Sono venuto di corsa in Ostetricia, hanno anticipato l’intervento di mezz’ora, e ho fatto appena in tempo a salutare Elena, prima di vederla sparire nell’ascensore con gli infermieri. Poi ho atteso nel vai e vieni tra uno stipite e l’altro, all’ingresso della sala operatoria, da solo. Ho voluto così, ho preferito non avere persone accanto quando i pensieri della notte sono tornati, come mi aspettavo, e mi hanno parlato di responsabilità e di sacrifici ad attendermi di lì a poco, non appena quella porta bianca si fosse riaperta.

La giornata è trascorsa tra pacche sulle spalle, congratulazioni per la mamma e sorrisetti alla piccola, qualche stupida battuta degli amici e la mia invidia per le loro birre al Sunflower in onore della neonata, e poi le risposte di circostanza alle troppe frasi fatte dei parenti sbucati fuori da chissà dove, come capita alle feste comandate. Con tutti ho usato un tono indeciso e svogliato: la gioia, difficile da contenere nei giorni precedenti, avuta tra le braccia mia figlia, si è rincantucciata in un angolo. Passata anche la tensione per il parto, è subentrato altro: avrei voluto saltare e ballare dalla felicità e invece è capitato di dovermi far ripetere più volte le parole che alcuni mi rivolgevano.

A metà pomeriggio, mentre mamma e bimba riposavano, sono uscito dalla camera e mi sono fermato di fronte alla vetrata del corridoio, lo sguardo sulle nuvole cariche d’acqua.

Si è avvicinato mio padre, non me ne sono accorto subito. Mi sono voltato, lui mi ha osservato e ha capito anche stavolta. Poi, ad aggiungere peso al peso, mi ha passato una mano sulla spalla, in silenzio, non ha mai usato molte parole.

– Sono felice, ma ho dormito poco – ho risposto timido alla sua domanda muta. Mi ha stretto la mano e mi ha salutato, dicendo che sarebbe tornato l’indomani a trovarci. L’ho osservato allontanarsi con la sua camminata claudicante, avrei voluto che si fermasse ancora un po’.

Terminate le visite, la bimba dormiva tranquilla accanto alla mamma; dopo la poppata aveva sul viso un sorriso soddisfatto.

– Hai visto che bella? – mi ha detto Elena.

Senza rispondere, ho ripreso in braccio la piccola, la volevo tenere stretta ma ho subito sentito addosso una debolezza insolita. Ho distolto lo sguardo da Emma e ho pensato ai cambi di pannolino e alle notti insonni che ci avrebbero atteso, ho inquadrato una foto tra quelle del collage, la mia immagine in vetta a una delle nostre montagne grigie, incombenti sopra di noi, e ho comunque faticato a deglutire.

Mi sono seduto sul letto, accanto a Elena. Lei mi ha accarezzato i capelli.

– Sei un po’ strano – ha detto.

– Solo stanco e affamato – ho risposto, quasi sotto voce.

Di lì a poco le avrebbero portato la cena.

– Perché non torni a casa subito? Così avrai tempo di montare il fasciatoio – ha detto. Avrei voluto rispondere che non ne avevo voglia, che avrei preferito raggiungere gli amici al Sunflower, invece ho raccolto il sacchetto coi vestiti sporchi e ho infilato nello zaino il quadretto delle foto. Un bacio a Elena e me ne sono andato.

Esco dall’ospedale. Stamattina, quando ci sono entrato, era diverso anche il cielo, il sole spuntava tra le nuvole. Adesso invece tutto si è chiuso, scende una pioggia decisa, a tratti violenta.

Penso a mia figlia e a mia moglie, alla famiglia che oggi siamo. Prima di salire in auto, ripeto a voce alta quella parola, famiglia. Una donna mi guarda curiosa.

Salgo, spengo la radio e il telefonino, non ho voglia di chiacchierare. Resto in silenzio, occhi fissi sul volante, a pensare che una birra al Sunflower potrebbe anche starci.

L’orologio sul cruscotto dice che sono trascorsi cinque minuti. Non mi va di tornare subito a casa. Lo stomaco brontola. Vorrei raggiungere gli amici al pub ma sarebbe una pazzia, mi lascerei ubriacare, come già successo, e non posso farlo. Tra qualche giorno moglie e figlia saranno a casa e il fasciatoio dovrà essere pronto.

Mi fermo al kebab del centro, quello con le pareti esterne in vetro che danno sulla strada, vicino alla chiesa di San Martino, era stato un collega a parlarmene bene.

Sono l’unico cliente, la ragazza prende l’ordine e incassa, mi passa la birra e sparisce in cucina, sento la sua voce rispondere a quella di un uomo. Resto solo nel locale. Mi siedo dando la schiena al bancone, mi guardo attorno.

Sulla parete a sinistra un’immagine della Moschea Blu di Istanbul mi riporta a una decina di anni fa, a quel viaggio in Turchia. Tolgo dallo zaino il quadretto con le foto e osservo quella con me, Elena, Andrea e Francesca davanti a quel monumento: ricordo la giovane coppia di francesi che ce la fece, ci avevano guardato con occhi sfiniti, i loro tre bambini si rincorrevano qualche metro più in là.

Arrivammo in città stanchi di dogane, treni e bus, e furono giornate piene di risate, quelle, trascorse tra il porto, Santa Sofia e Sultanhamet, dove spendevamo poche lire per comprare un kebab da Youssef, ne ricordo ancora il sapore. Sorrido ripensando a quei momenti, osservo lo spazio vuoto nell’angolo in basso a destra e l’immagine del viso di Emma torna prepotente.

La ragazza mi porta il kebab, rimetto il quadretto nello zaino. Un’occhiata all’orario sul display del cellulare: non mi va di correre a casa a montare il fasciatoio, chissà quando mi capiterà di mangiare di nuovo un boccone da solo.

Assaggio la carne: è buona, ma non come quella di Youssef. Le gocce d’acqua sulla finestra che dà sulla strada scendono lente come lacrime. Seduto sullo sgabello alto, bevo un sorso di birra mentre osservo la pioggia e il traffico della sera.

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26 commenti »

  1. Molto bello e spunto di riflessioni. Si parla molto di depressione post-parto, mentre si pensa che i padri subiscano meno i cambiamenti dati dall’arrivo di un figlio. Sicuramente questo dipende dal senso di responsabilità di ciascuno e di quanto poi veramente, trovandosi davanti al bivio pub-pannolini, l’uomo viri verso i secondi, non dando per scontato che “Tanto pensa a tutto lei”. Nitide le immagini. Mi piace la tua scrittura.

  2. Grazie delle belle parole, Silvia.

  3. Concordo pienamente con Silvia. Hai una scrittura piacevolissima e ho letto davvero con interesse questo racconto che ci offre un insolito punto di vista sulla mater/pater nità.

  4. La nascita dei figli, l’arrivo di una nuova generazione, ci sposta irreversibilmente dalle retrovie sul fronte, dove tutto è diverso. Hai reso perfettamente questa atmosfera, con le incertezze, i rimpianti, l’attesa silenziosa delle battaglie da affrontare. Bravo Luca.

  5. Grazie Monica.
    Marco, ti ringrazio.

  6. Un racconto malinconico, che rifugge dalla semplice descrizione di un evento riuscendo a scandagliare luoghi poco percorsi, intimi. Uno sguardo partecipe che, senza cedere al facile gioco degli stereotipi, ci rende l’immagine di un padre, impreparato dagli uomini e dalla vita, colto nella sua estrema umanità. L’atmosfera che riesci a creare, caro Luca, è di sentita condivisione di quelle paure e di quei dubbi che si affastellano nella mente dell’uomo come le nuvole di quel cielo che si chiude su di lui. E ciò non era affatto scontato. Complimenti davvero.

  7. Stupefacente nella sua onestà. Non si tratta di guerra dei sessi (mi viene in mente il film con Billy Jean King, è una battuta) ma di momenti di ricarica, di bisogno di star soli, nè festeggiatori nè festeggiati. La gioia è tanta, la esprimi proprio con la pacatezza (ricordo mio padre che diceva che lui rideva nell’anima) e con rispetto per te stesso. Non riesco a dire di più, mi hai commosso.

  8. Grazie Girolamo, ti ringrazio per l’attenzione dedicata al racconto, il tuo commento mi ha emozionato.

  9. Marcello, “ridere nell’anima”, mi piace molto. Il racconto ti ha commosso: ne sono felice.

  10. A volte dimentichiamo che anche i padri hanno bisogno di un periodo di riassestamento dopo la nascita di un figlio. Bravo, un racconto onesto ed estremamente realistico.

  11. Bello ! Fa bene leggere cosa si prova dall’altra parte, un punto di vista diverso dal solito . E la tristezza di quello sguardo sul proprio padre un pò claudicante dice tanto sul cambiamento che si avverte nell’animo con la paternità .

  12. Valeria, Elisa, grazie.

  13. Quasi 40 anni fa ho vissuto all’incirca la stessa serata e può darsi che quell’esperienza influenzi la mia lettura di questo bel racconto, rapido e intenso e spaurito come sono quelle ore per chi diventa padre per la prima volta. Io non sono mai diventato veramente padre, quella sera ha così cambiato il corso della vita che dopo pochi anni me ne sono andato: ha vinto il kebab, ha vinto il fasciatoio non montato. Ho fatto il padre in remoto. E’ andata così, e può darsi che al protagonista di daddy blues non accada, sembra più forte. In qualche commento ho letto “malinconia”, è vero, qui c’è un addio alla vita precedente ben più serio di uno sciocco addio al celibato, appena appena temperato dall’idea di colmare l’angolo del quadretto. Devo dire, gentile Luca, che questo racconto mi ha molto commosso: realistico, sincero, senza le “solite banalità” sul diventare genitori, che è una prova non del tutto e non da tutti superabile. Bravissimo, in bocca a lupo 🙂

  14. Ho scritto e riscritto questo racconto, l’ho letto ad alta voce, poi l’ho inviato, deciso a restare in ascolto.
    Ringrazio dunque, per l’apprezzamento e per l’emozione condivisa.
    E viva il lupo.

  15. I cambiamenti creano sconcerto, tutti vorremmo restare per un po’ nel limbo conosciuto dei giorni a cui siamo allenati – poi succedono fatti importanti, si sente il peso delle responsabilità, e c’è il brivido, a volte è paura vera – Il racconto è pulito e ricco di realtà, va dritto dove deve andare, senza giocare con gli effetti speciali in cui si poteva cadere parlando di un momento così importante – mi piace, proprio perché a me che non sono genitore ha comunicato lo sconcerto, che ho paragonato alla responsabilità che mi è caduta addosso quando ho perso mio padre e mia madre è rimasta sola. Assaporare i momenti di solitudine, sapendo che poi tutto cambia. Bravo, davvero!

  16. Continuo a leggere con vivo interesse le ricadute sulla vita di ogni lettore.Ti ringrazio, Antonella.

  17. Racconto bellissimo, io mi ricordo 10 anni fa quando mi buttarono letteralmente mio figlio in braccio in sala parto e non sapevo come prenderlo. Ho rinunciato a uscire in bici la domenica per 4 anni, forse anche 5.

  18. Grazie per aver letto e commentato anche questo, Cristiano.

  19. Bello e inedito questo punto di vista, troppo spesso trascurato, di un neo papà

  20. Che bello, Luca! Un punto di vista a cui non siamo abituati, diverso da quello del papà felice e basta, e proprio per questo più vero. Di solito la depressione post partum, nell’immaginario collettivo, riguarda le madri. È invece tu ci mostri una realtà altrettanto potente, e lo fai con delicatezza, con sensibilità, con dolcezza. Vien voglia di abbracciarlo stretto, quel papà.

  21. Grazie Elisabetta.
    Antonella, il papà dice che ringrazia dell’abbraccio.

  22. Luca, che dire? Hai fatto una fotografia perfetta di uno stato d’animo che, da mamma, non conosco ma posso benissimo immaginare. Ti lascia un senso di malinconia alla fine che ti fa immedesimare con il protagonista. Non è una cosa facile, ma tu ci sei riuscito perfettamente! Grande!

  23. Grazie Debora.

  24. E’ il secondo racconto che leggo quest’anno sulla sindrome post partum sulla pelle di un uomo. Se li metto insieme al racconto di Marco che qui, come sempre, è tra i primi a commentarti, mi rendo conto che una nuova generazione di uomini si sta affacciando all’orizzonte: sensibili, umorali, per niente spacconi, responsabili e malinconici. Benvenuti nel club! ;-))

  25. Grazie Simona per aver letto e commentato il racconto.

  26. Bravo ! Per certi versi mi ricorda il mio, di racconti. Ma questo è ….più soave e delicato, ecco.

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