Premio Racconti nella Rete 2019 “La Liù” di Raffaella La Villa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Il banco di fianco al mio era vuoto anche quel giorno. Moreno non era venuto. Era assente ormai da dieci giorni e nessuno sapeva perché. Avevo provato a chiedere notizie alla maestra Serena, ma lei distoglieva lo sguardo e cambiava discorso.
“È malato?”
Nessuna risposta, anche se, senza accorgersene, accennava di no con la testa.
“È partito?”
Stesso silenzio.
Avevo provato a parlarne coi miei compagni.
Lucia, Lella e Nico non sapevano niente, Mara si era messa a ridere e aveva detto:
“Moreno ti piace, Moreno ti piace!”.
Avevo lasciato perdere.
Dopo dieci giorni, nessuno ci pensava più, a lui.
Solo io. Quell’assenza era sempre lo sfondo dei miei pensieri, mi pungeva nel profondo come una spina sottopelle e mi impediva di godermi il sole di maggio nel cortile.
Dove cavolo era sparito? Era svanito nel nulla dall’oggi al domani, senza dirmi niente. Avevo provato a passare in bicicletta sotto la sua casa di ringhiera dai muri scrostati, ma sembrava che non ci abitasse più nessuno. Mi ero anche arrampicata sul cancello tiepido, per vedere meglio. Mancavano i panni stesi e il triciclo della sua sorellina sul balcone. Le finestre erano chiuse e nessuno si affacciava, se lo chiamavo gridando.
Era davvero un mistero. I miei compagni non ci pensavano più, perché la vita, a dieci anni, scorre in fretta tra lotte, giochi e scherzi.
Per me, però, era diverso.
Di anni ne avevo quasi undici e Moreno non potevo dimenticarlo come un acquazzone di primavera che si asciuga in un attimo. Non dopo quello che era successo.
Ci pensavo mentre Alessandra, la mia migliore amica, quasi sorella, cantava canzoni seduta di fianco a me, nel buio che odorava di disinfettante, nel retro del furgone che ci riaccompagnava a casa da scuola. Il furgone era di mio nonno che vendeva estintori. Aveva solo due posti a sedere, uno per il guidatore, uno per il passeggero, ma quando eravamo due da riaccompagnare, lui ci faceva salire dietro, nell’oscurità più assoluta, tra le pareti foderate di materiale isolante in rilievo. Era una strana sensazione stare lì, ad accarezzare con la punta delle dita quello strano rivestimento. Sembrava di toccare dei coralli nascosti nelle profondità di una grotta sottomarina. Ad ogni frenata brusca sbattevamo contro le pareti e ridevamo come matte.
Di solito.
Quel giorno non avevo voglia di scherzare.
“Ma tu lo sai che fine ha fatto Moreno?” – ho chiesto ad Alessandra, anche se non poteva saperlo, lei faceva quarta e lo conosceva appena.
“Ma come? Non lo sai?”
Il buio non riusciva a nascondere il sorriso cattivo nella voce.
“La bidella ha raccontato a mia madre che suo padre è scappato un anno fa e sua madre, beh, è stata appena arrestata, non so se per furto o contrabbando di sigarette, questo non l’ho capito”.
Alessandra aveva raccontato tutto di un fiato, contenta di essere stata lei, per una volta, quella che la sapeva più lunga.
“E Moreno? Dov’è?”
“Mmm … dicono dalla nonna, in Sicilia, forse, ma mia madre dice che la bidella le ha detto che lì non ci può stare, forse ci pensa l’assistente sociale, non so …”.
Alessandra si era rimessa a cantare con la sua vocina acuta, come se niente fosse, come se il mondo non fosse appena stato raso al suolo. Per fortuna, nel buio le mie lacrime non si vedevano.
Arrivati sotto casa, il nonno ha aperto il portello e l’aria fresca è entrata come un soffio profumato nel furgone. Alessandra è saltata giù e se n’è andata saltellando verso il suo portone. Io ho aspettato a scendere, non volevo farmi vedere con gli occhi rossi. Mio nonno mi ha preso per un braccio e mi ha tirato gentilmente fuori.
Mi ha appoggiato la mano sulla spalla.
“La Liù è dal veterinario, sai che non sta bene …”
Mi ha guardato con affetto negli occhi, ma io evitavo i suoi, per non spiegare come mi sentivo.
“Sei preoccupata per lei, vero?”
Mi spettinava i capelli con un gesto un po’ burbero.
“Non sta bene davvero, povera Liù!”
La Liù era il nostro barboncino nero. Era il cane più paziente del mondo. Le avevo tirato la coda, l’avevo cavalcata, mi ero appesa al suo pelo, ma lei non mi aveva mai morso, mai, neanche per sbaglio. Eppure, nel sentire che era dal veterinario, malata, non provavo niente, assolutamente niente.
“Dai andiamo a mangiare.”
Il nonno si era avviato con il suo passo sicuro da militare. Aveva fatto la guerra in Russia e non perdeva occasione di parlarne a tutti.
Io pensavo solo a Moreno, al suo profilo dritto sotto il ciuffo chiaro. Non riuscivo ad accettare di non poterlo più rivedere, dopo quello che era successo. A ripensarci sentivo un dolore in fondo allo stomaco, come quando hai giocato tutto il giorno in cortile e, tutto d’un tratto, ti accorgi che hai fame.
Il giorno prima della sua scomparsa eravamo sul prato della scuola e ci siamo sfidati. Io ero l’unica femmina della classe che amava i combattimenti. Avevamo fatto la gara di lotta e calci negli stinchi e l’avevo battuto, anzi, più che battuto, bloccato, con la tecnica dei pugni veloci a ripetizione. Non si aspettava questa strategia di attacco ed era indietreggiato, contro il muro, con la sorpresa negli occhi. I suoi amici avevano ridacchiato e prima che potesse cercare la rivincita era suonata la campanella. Mi ero sentita davvero in estasi. Avevo avuto il sopravvento su di lui, per la prima volta dall’inizio dell’anno. Le caviglie piene di lividi quasi non mi facevano più male.
Chissà perché, poi, ero così felice di aver battuto proprio lui. Non lo sapevo, ma mi era piaciuta la sorpresa nei suoi occhi, scuri che non si vedeva la pupilla.
All’uscita, però, lui mi aveva dato una sberla sul coppino e mi aveva sussurrato:
“Sei solo una femmina smorfiosa! Domani le prendi!”
Mi ero voltata e gli avevo sibilato senza pensare:
“Almeno io non vivo in una baracca e non sono una terrona come te!”
Nei suoi occhi era apparsa di colpo una luce fredda. Avevo capito di averlo mortalmente umiliato, ma gli avevo voltato le spalle lo stesso e mi ero allontanata. Per tutto il pomeriggio non avevo fatto altro che pensarci e svanita la rabbia, mi ero accorta di aver esagerato, di aver superato un limite che, fra amici, anche fra amici che lottano, non si poteva oltrepassare.
Il giorno dopo mi sarei scusata. Era difficile per una come me, ma l’avrei fatto. L’avrei fatto prima per me stessa, per sciogliere il crampo che mi stringeva lo stomaco, poi per lui, perché era la persona che stimavo di più al mondo.
Immaginavo di scusarmi, di sorridergli e di abbracciarlo, sentendo il suo odore di cuoio di quando mi placcava per lottare. Poi l’avrei baciato sulla guancia e l’avrei guardato dritto nei suoi occhi neri. Il giorno dopo, però, lui non c’era e quello dopo, nemmeno. Da dieci giorni non l’avevo più visto e il crampo non riusciva a guarire.
“Cosa c’è? Pensi alla Liù?” – mi ha chiesto il nonno a tavola, visto che non mangiavo niente. La nonna mi sorrideva silenziosa e non mi staccava gli occhi di dosso.
“Ma no, sono sicura che guarisce … oggi posso venire anch’io a prenderla dal veterinario?”
Il nonno ha appoggiato la forchetta e ha detto:
“Se vuoi vieni, ma devi essere coraggiosa.”
Poi ha alzato gli occhi grigi e profondi sui miei. Tra i solchi delle rughe, brillavano di compassione.
Alle tre esatte, mentre lui faceva il riposino e la nonna cuciva, il telefono a muro si è messo a suonare. Ho risposto al secondo squillo. Era Alessandra. Mi aveva telefonato per parlare di vacanze estive, per chiedermi se andavo da lei a giocare e poi, come se niente fosse, ha lasciato cadere:
“Sai il Moreno? Mia mamma dice che ha saputo che forse torna qui al Nord, viene a stare dalla zia che abita a Novara, che ha chiesto l’affidamento. Sembra. Forse torna a scuola da noi…”
Non ho sentito oltre. Ho riattaccato la cornetta e mi sono messa a ballare come una pazza selvaggia sul pavimento a macchioline bianche e nere di marmo. La nonna si è affacciata dalla porta della cucina con uno sguardo interrogativo, poi mi ha sorriso e mi ha lasciato fare.
Alle quattro, dal veterinario, la gioia che provavo era ancora così traboccante che non potevo fare a meno di sorridere.
Il nonno aveva l’aria sconcertata. Si è diretto verso la piccola sala operatoria e si è fermato sulla soglia. Irrigidito, di spalle, si è messo a scuotere lentamente la testa. Poi si è voltato e mi ha chiamato con un gesto solenne. Aveva la bocca stretta e mi ha abbracciato per le spalle.
“La Liù è stata operata, ma era troppo grave.”
Mi ha indicato il tavolo operatorio in fondo alla sala, dove un lenzuolo era disteso a coprire un piccolo corpo. Ha rivolto un cenno al veterinario che ci guardava serio.
“Non poteva più guarire … è stato meglio sopprimerla, sai, per non farla soffrire …”
Il nonno adesso aveva gli occhi lucidi.
“Se vuoi, puoi accarezzarla ancora una volta, adesso non soffre più.”
Con la mano rugosa aveva indicato il lenzuolo rigonfio.
Ho fatto cenno di no.
Avrei voluto sembrare triste, ma non riuscivo a smettere di sorridere, raggiante.
Il nonno, allora, ha corrugato le sopracciglia.
“Dì, ma non ti dispiace che la Liù è morta? Ma non ti importa niente?”
Lo sguardo trasparente si è indurito e si è abbassato di colpo.
Il nonno si è voltato e si è incamminato verso l’uscita. Non ho potuto fare a meno di notare un’incertezza nuova nel suo passo. Sfiorava i muri con la mano mentre camminava e la mano tremava, forte.
Ero dietro di lui di pochi passi, ma all’improvviso, mi è sembrato che fosse lontanissimo.
Nel tuo racconto ci sono le cose viste con gli occhi di una bambina, come di una bambina sono i sentimenti. Chiari, lineari e, proprio per la loro semplicità, anche spietati. Brava non è semplice, da adulti, ripercorrere quelle strade.
“…mi è sembrato che fosse lontanissimo”, gli adulti spesso non possono capire! Bravissima, complimenti.
Hai dosato bene sensibilità e durezza in questa ragazzina alle prese col suo primo sentimento d’amore che sembra immunizzarla da tutto il resto. Ma è anche una ragazzina sincera, che non sa mentire su quello che prova e che non riesce a mostrarsi triste solo perché le circostanze lo richiedono.
Ci vuole una sensibilità speciale, che non appartiene a tutti, per “sentire” come sentono i ragazzi.
La buona notizia è troppo importante per farsi offuscare da quella cattiva, e il sentimento che prevale non può neppure attenuarsi.
Un racconto scritto in modo magistrale.
Grazie a tutti per l’attenta lettura!