Premio Racconti nella Rete 2019 “La strada del destino” di Antonino Criaco
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019
Erano quattro le case ancora in piedi, ognuna appesa all’altra per sorreggersi in una sorta di mutuo soccorso. Allineate lungo la strada polverosa non mostravano di voler cedere al tempo ed arrendersi all’oblio. Tristi e pietosi erano i ruderi delle vecchie abitazioni che non avevano retto all’abbandono dei loro abitanti. Sulla parete dell’ultima casa agibile faceva bella mostra l’insegna dell’ufficio postale, che si stendeva come una bandiera. Quella contrada non aveva nome, ma quel cartello della posta era diventato il simbolo dell’antica esistenza di una realtà umana molto attiva. Poi, però, la strada che conduceva al paese, lontano alcuni chilometri, venne deviata per abbreviare il percorso e da lì non passava più nessuno.
Girù vi era nato e vi era tanto affezionato che non se ne era mai allontanato, neanche per andare in paese. Per lui il mondo si riduceva a fare il percorso dall’ultima pietra della casa diroccata, sino all’ultima casa ancora in piedi, in fondo a tutte le costruzioni: la sua.
Girù era il soprannome con cui il padre usava chiamarlo, un abbreviativo di Girolamo. In quella piccola comunità, se lo avessero chiamato per intero, Girolamo! Sarebbe stato uno spreco di voce. Di voci in quel borgo non ce n’erano da molto tempo e, nel silenzio, una voce prolungata era come un brutale fendente che avrebbe lacerato l’aria. Quel nome tronco rispecchiava il taglio di anime che quel luogo aveva subito.
Non erano passati molti anni da quando l’ufficio postale non era più attivo. Ovviamente serviva solamente i pochi abitanti e qualche occasionale avventore. Poi, per i tagli aziendali e per la deviazione stradale, venne soppresso. Il bar, che era anche tabacchino, dopo pochi mesi dovette chiudere e la famiglia che lo gestiva si trasferì altrove. Anche la botteguccia di alimentari fece la stessa fine. Questi erano piccoli esercizi commerciali che vivevano in funzione dei viandanti, i quali, percorrendo altre strade, erano oramai scomparsi. Il padre di Girù aveva vissuto sempre lì, anche dopo la morte della moglie. Era l’addetto alle acque del ruscello che irrigava i campi più a valle. Era responsabile della regolazione delle chiuse e, quindi, era costretto a rimanere. Ma, mentre il padre era profondamente scontento di finire i suoi anni in quel deserto, Girù, al contrario, era felice di viverci.
Fino a quando il genitore restò in vita, qualche famiglia si ostinava a restare, tra cui il mandriano con la moglie e i due figli che accudivano la stalla ed anche un’anziana donna che, dopo la morte del marito, non sapeva dove andare. Girù faceva parte di questa piccola e povera comunità, era come se fosse membro di una famiglia che li comprendeva tutti.
Il padre, resosi conto che la sua morte era prossima, chiamò il figlio e gli disse: “Girù, caro figlio! Devi lasciare questa casa! Fra qualche anno non resterà più alcuno a vivere qua. In paese troverai alloggio, lavoro, compagnia e, forse, una moglie. Perciò, ti esorto ad andare via”.
Girù pur con la morte nel cuore gli rispose:
“Non potrei mai abbandonare le mie rondini, delle quali proteggo il nido fino al loro ritorno in primavera. Oramai mi conoscono e, se non mi vedessero, penserebbero che le ho abbandonate. E poi c’è il merlo, che canta per me ogni mattina sul davanzale della mia finestra. Se me ne andassi non saprebbe più per chi cantare. Mi mancherebbe non potere più ascoltare il mormorio delle acque del torrente, il cui scroscio è come se mi parlasse. Mi informa quando è sofferente per la poca acqua, temendo di morire. Accorro alle sue rive e lo esorto a resistere.
Vedrai! Gli dico. La pioggia arriverà presto! E lui sembra rianimarsi e, con un immane sforzo, riesce a far aumentare il gocciolio, in attesa della pioggia che lo rianimerà.
Ma lui si lamenta pure della piena, perché non riesce a contenere tutte le acque e quelle che fuggono via dagli argini sono strappi dolorosi che lo fanno soffrire, perché ogni goccia d’acqua che l’abbandona è come un figlio generato da lui che mai più rivedrà.
Padre! Qui ho tanti amici, non sono solo”.
Il padre chiuse per sempre gli occhi con l’ultima esclamazione che gli sfuggì
dalla bocca: “povero figlio mio!”
Il padre fu profetico, perché non passò molto tempo che pure il mandriano se ne andò insieme a tutta la famiglia e, questa volta, Girù pianse e non nascose quelle stesse lacrime che aveva già versato alla partenza del tabaccaio e del bottegaio. Una consolazione gli restava, però. L’anziana signora era rimasta, ma era così vecchia che non sarebbe mancato molto tempo prima che morisse. Il dottore del paese era venuto una volta a visitarla e le aveva ordinato delle punture che lui si era offerto di iniettarle ogni giorno, secondo la prescrizione del medico. Curarla era come se si ostinasse a tenerla in vita. Lei, quando le infilava l’ago nel sedere, gli diceva:
“guarda Girù come è secca e rattrappita
la mia pelle! Vai a vivere in paese! Lì troverai una bella ragazza con la pelle
liscia e soda. Qui la morte è giunta già molti anni fa e si è portata via tutto,
uomini e cose. Fuggi prima che porti via anche te!”
Lui testardo replicò: “qui rimango, a respirare l’aria che hanno respirato i
miei genitori e tutti i vecchi amici che sono partiti. Sento ancora il loro odore e sono ancora
visibili le tracce delle opere che hanno lasciato qui. Ogni giorno faccio il giro delle loro case
per tenerle in buono stato, perché un giorno, quelli che sono partiti,
ritorneranno: tutti ritornano al luogo natio.”
Girù non parlava alla vecchia, ma a se stesso.
La vecchia signora gli disse: “quando sarò morta seppelliscimi accanto a mio marito, tieni in buona cura il piccolo cimitero, mi raccomando! La morte, caro figliolo, ti porta via l’anima, non il corpo. La bara, ormai da anni, l’ho fatta costruire dal falegname del vicino paese, la troverai in soffitta.
La vecchia signora morì e Girù trovò la cassa. La trascinò sino al piccolo cimitero, dove c’erano le altre tombe, tutte con i loro fiori freschi che lui raccoglieva nei campi per depositarli vicino alle lapidi. E lì la seppellì.
Le altre volte nelle quali c’era stata un’inumazione, qualcuno aveva avvertito il prete e, perciò, la funzione rispettava i criteri di una santa sepoltura.
Girù si ricordava quali preghiere recitare e la morta ebbe il suo rito funebre anche se semplificato.
Non era poi completamente vero che dal paese non giungesse mai alcuno. Tutti sapevano che in quella contrada continuava ad abitare una persona che tutti conoscevano: ci provarono il prete, il sindaco e qualche abitante di buon cuore a convincere l’eremita a stabilirsi in paese, dove si sarebbe trovato per lui una buona sistemazione. Esortazioni andate a vuoto, che costrinsero sia il prete, che qualche abitante, a recarsi periodicamente alla contrada per rifornire di vivande il suo abitante. Ciò rafforzò la volontà di Girù a rimanere lì. Per la verità, anche il medico, quando trovava un po’ di tempo libero, andava a trovarlo, non dimenticando di portargli anche lui delle vivande. Non gli portava medicine, perché sapeva che Girù possedeva un fisico sano e robusto, che difficilmente sarebbe stato attaccato da qualche malattia.
Un giorno arrivarono nella contrada degli operai, con l’ordine di smontare l’insegna postale per portarsela via. Girù prese una sedia e si legò con un cappio all’insegna, minacciando di uccidersi impiccato se avessero tentato di smontarla. Ai poveri operai non restò altro che prendere atto della situazione ed andare via. Per Girù fu come aver vinto la guerra contro soldati nemici, perché quell’insegna era, non soltanto il simbolo della contrada, anche la sua bandiera. La cosa ebbe clamore in paese, tant’è che una delegazione di abitanti volle rendere onore a quel gesto, simbolo di una difesa patriottica. Da quel giorno, a quella misera contrada, fu dato un nome con un’ insegna grande, posta all’inizio della stessa, con la scritta: BENVENUTI A GIRU’.
Si fece festa e Girù fu nominato, a gran
voce, sindaco e protettore del nuovo paese.
Sono passati molti anni da allora e, se qualcuno volesse visitare quella
contrada, troverebbe ancora ben conservate quelle case con quella scritta tuttora
leggibile. Non dovrebbe mancare di visitare la tomba del sindaco sulla cui lapide
è scritto: ” Qui giace Girù, l’uomo che scoprì che si può amare un luogo e
difenderlo fino alla morte.”
Ma la vita di Girù non si spense rapidamente, visse per molti anni, tronfio di essere il sindaco di quel paese abitato soltanto da lui. Ma lui era convinto che le case abbandonate conservavano l’anima dei vecchi abitanti e che, prima o dopo, tutti sarebbero stati costretti a tornare per riprendersi l’anima, perché gli emigranti possono andare via con il corpo, ma la loro anima rimane sempre lì dove sono nati. Girù era convinto che, mantenendo in buono stato le case, avrebbe permesso alle anime di poter vivere in modo confortevole.
Nel tempo in cui visse poco cambiò per lui, di sicuro c’erano anime a fargli compagnia, ma di persone in carne ed ossa non se ne vedevano, se non per quelle rare volte che qualcuno del paese gli portava dei viveri.
I merli, si sa, non sono uccelli fedeli ed un giorno sparì quello che cantava dalla sua finestra ogni mattina. Girù, abituato a svegliarsi ogni mattina ascoltando quel canto, ci rimase molto male. Si chiese se anche il merlo avesse un’anima per cui un giorno sarebbe dovuto tornare a riprendersela. Lo avrebbe chiesto al prete, durante le rare visite che gli faceva.
Quando calava la notte gli sembrava che il suo paese fosse avvolto da un manto pieno di stelle che lui cercava di contare, ma erano così tante, che non riusciva mai a completare la conta. Allora rinviava il conteggio alla notte successiva, ma sembrava che le stelle si volessero prendere gioco di lui, perché molte di quelle della sera precedente si erano nascoste comparendone altre nuove. Ma lui era deciso a portare a termine il suo intento e non si sarebbe arreso fino a quando non avesse completato la conta.
Teneva sempre mezzo occhio puntato verso il paese e seguiva le luci che a volte sembravano muoversi in tante direzioni. Sapeva che erano vetture in movimento, ma se qualcuna si muoveva verso est sperava fosse diretta al suo paese.
Quando la contrada era viva, anche di notte arrivavano dal paese persone che si intrattenevano al bar a discutere di calcio e di politica. Ma ora che quel posto si era svuotato, gli rimaneva soltanto l’illusione, perché le vetture si fermavano prima di prendere la strada che conduceva fin lì.
Dopo la scomparsa del merlo, Girù attendeva con ansia la primavera, per salutare le rondini che avrebbero ripreso possesso dei loro nidi, che lui si era sempre preoccupato di conservare in buono stato. Le rondini, ritrovando il nido intatto, gli avrebbero fatto una ronda festosa attorno, lanciando striduli di felicità.
Quale sindaco del paese aveva fatto il suo dovere, conservando intatte le loro case e quelle manifestazioni festosi di ringraziamento, che credeva fossero rivolti a lui, lo premiavano totalmente.
Pensava: “se tornano le rondini a riprendere possesso delle loro case, perché non dovrebbero farlo anche gli uomini?”
Quando voleva oziare, raggiungeva la collina in alto e scrutava l’orizzonte lungo la vecchia strada, per vedere giungere qualche macchina che portasse a casa i vecchi abitanti.
Passarono gli anni e Girù non poté registrare altre visite, se non quelle dei suoi vivandieri. Nessuna notizia, nessun arrivo.
Girù non era veramente solo; la sua gatta, che lui chiamava Milia, avendo trovato alloggio ed un ottimo vitto, mise fine al suo girovagare, ritenendo opportuno fermarsi in quel borgo. I gatti sono l’esempio più eclatante di opportunismo e Milia ne era una interprete perfetta. Girù provvedeva al suo sostentamento con una grossa razione di latte ogni mattina. Latte che lui sottraeva dalle sue provviste, restando a volte digiuno. Milia, pur refrattaria a legami consolidati, si arrese a quella vita comoda, concedendo al suo benefattore di accarezzarle qualche volta il ventre. Una volta, un po’ infastidita per ragioni che le donne, come al solito, non sanno spiegare, graffiò il suo vivandiere, il quale, per punirla, la mattina successiva non le fece trovare il latte. Milia capì e, dopo un po’, si mise a miagolare ai piedi di Girù strofinandogli la testa sulle caviglie come a chiedere scusa. L’uomo non si fece commuovere e per quella mattina la gatta rimase senza latte. Come era facilmente immaginabile, essendo Girù di cuore buono, la mattina dopo, Milia ritrovò il suo latte.
Gatta e benefattore si parlavano e, mentre Girù si rivolgeva a lei con linguaggio umano che la gatta sembrava capire, ella gli rispondeva sempre con dei miagolii che sapevano di ruffianesimo, tutto in funzione della razione di latte la mattina.
Una notte Girù sentì miagolare a lungo la gatta, ma quel miagolio era strano, non l’aveva mai sentita miagolare in quel modo, sembrava avesse due voci. Preoccupato si alzò dal letto e, seguendo il miagolio, la rintracciò su un muretto della strada mentre strofinava il collo con quello di un grosso gatto nero, che miagolava a sua volta. Stette a distanza a guardarli ed a capire come quel grosso gatto fosse riuscito a penetrare in paese senza il suo permesso ed a sedurre la sua gatta. Il suo primo istinto fu quello di tentare di scacciare l’intruso. Pensò, però, che il paese avrebbe potuto accogliere un altro abitante. Ma se avesse voluto risiedere in paese avrebbe dovuto procurarsi il cibo da solo. Povero Girù! Non poteva sapere che, di lì a poco, tutta la vita del paese sarebbe stata stravolta da una novità alla quale non era preparato. C’era tra i due gatti una specie di complicità, perché dividevano senza attriti il latte, affondando insieme la testa nella ciotola. Tanta affettuosità avrebbe dovuto metterlo sull’avviso. Una sera, nella quale il miagolio si fece così intenso da spaventarlo, si alzò dal letto per andare a controllare e, ciò che vide, dapprima lo spaventò, ma poi lo rese felice. Erano quattro i gattini nuovi arrivati, che miagolavano per fame. Ancora una volta, il buon cuore di Girù ebbe il sopravvento. Preparò una ciotola nella quale svuotò un’intera bottiglia di latte che poi diede ai gatti. Il gatto nero che era nei paraggi, a quel punto si fece vedere e tentò di avvicinarsi alla ciotola. Ma il benefattore lo minacciò e il gatto nero sparì, per ricomparire più tardi per l‘ultima leccata alla ciotola.
Tra il gatto nero ed il sindaco non c’era un buon rapporto. Il gatto rare volte si era avvicinato abbastanza all’uomo per racimolare una carezza. Girù, che doveva provvedere al sostentamento dei gattini, rimproverava a viva voce il padre, che proprio non ne voleva sapere di racimolare cibo per i figli. Tra l’altro, l’animale era ingrassato enormemente e ciò spiegava il fatto che nei dintorni, non si vedevano più topi di campagna. Girù scommise con se stesso che, appena la caccia ai topi si fosse esaurita, il gatto nero sarebbe sparito. Così accadde e solo a Girù rimase il compito di provvedere al sostentamento dei gattini e della madre.
Quella comunità di gatti un problema
cominciava a crearlo. Era vero che avevano accresciuto la popolazione del
paese, ma era altrettanto vero che, di lucertole, topi, serpentelli ed
uccellini non se ne trovava più traccia. Girù, che aveva un udito fine ed
allenato a tutti i rumori, non avvertendo più la presenza dei piccoli animali,
da buon sindaco della cittadina, pensò di dover prendere dei provvedimenti.
Lui, oramai, si era affezionato ai gatti e scacciarli non era nelle sue
intenzioni: condannarli alla gabbia come meritavano non ne aveva il coraggio.
Emise un’ordinanza che affisse all’inizio del paese: “E’ vietato ai gatti
assalire altri animali, pena severe sanzioni.”
Come aveva sempre supposto, i gatti non amano imposizioni e fanno sempre quello
che vogliono e così si ritrovò con il grave dilemma di dover fare rispettare la
legge a tutti i costi. Chiamò Milia in disparte e le disse che, se i suoi gattini
non si fossero messi in riga, avrebbe dovuto prendere severi provvedimenti. Le
sue esortazioni caddero nel vuoto, perché vide una povera lucertola dimenarsi,
mentre uno dei gattini la teneva tra i denti. Un provvedimento doveva
prenderlo, ormai aveva imparato a conoscere i gatti. Una mattina non riempì più
di latte la ciotola e così continuò a fare nei giorni seguenti. I gatti, si sa,
sono degli opportunisti e poiché non sempre la caccia agli animaletti era
fruttuosa, un giorno Girù vide Milia alla testa dei suoi cuccioli avviarsi per
la strada, abbandonando il borgo. Non li rivide più.
Non era nelle sue intenzione spopolare il paese e sperava vivamente che un giorno potessero tornare più ravveduti e meno inclini a dare la caccia agli altri animali.
Tra i suoi pensieri c’era un chiodo fisso, come far ritornare al borgo tutti i suoi vecchi abitanti.
Invecchiava, ma non dimenticava di dover portare a termine la missione che si era prefissa. Coltivava da tempo un’idea, ma c’era un solo modo per portarla a compimento: doveva attendere che il tempo facesse il suo corso che lo invecchiasse ancora di più. E quel tempo finalmente arrivò. Si ricordò della vecchiaia del padre, quando abbandonò le cose terrene per salire in cielo. La pelle del genitore si era tutta raggrinzita, le gambe non lo sorreggevano più, la sua respirazione era diventata più faticosa e, pochi giorni dopo, morì. Si era accorto che gli stessi sintomi che avevano portato il padre alla morte avevano aggredito anche lui. La sua pelle aggrinzita era piena di macchie scure e cominciava a pesargli l’ispezione che ogni mattina faceva al borgo percorrendolo lungo tutto il suo tracciato.
Facendo il confronto con la morte del padre, calcolò quando sarebbe potuta sopraggiungere la sua dipartita e quello sarebbe stato il momento per far partire il piano. C’era soltanto un ostacolo, doveva recarsi in paese e passare inosservato, cosa non facile. Gli serviva la complicità del nuovo parroco perché il precedente, con il quale aveva più confidenza, era già deceduto da tempo. Il nuovo, comunque, era andato spesso a trovarlo per assicurarsi che non perdesse la fede, visto che viveva da eremita. Quella che conservasse la Fede era la cosa che più preoccupava il prelato, che aveva meno propensione del suo predecessore a rifornirlo di viveri, anche se qualche bottiglia di latte gliela portava.
Si mise in cammino nella serata, voleva giungere di notte avvolto dal buio per non farsi notare. Ma non a notte inoltrata, per poter sorprendere il prete ancora sveglio.
Si ricordava di essere andato in paese soltanto una volta, da bambino, portato per mano dal padre.
Tutto era avvolto in una confusione di rumori senza armonia. Non si ascoltava il canto degli uccelli, né il dolce mormorio dell’acqua di un torrente, ma strani rumori, voci concitati e tanta gente in giro a camminare che non salutava come se gli altri passanti non esistessero. Ne aveva avuto una impressione così negativa che non c’era voluto più tornare. La sera, però, seduto sull’uscio di casa ad oziare, non trascurava di ammirare le luci sulla collina e seguendo i fari delle vetture, aveva stampata nella mente la mappa dell’intero abitato. Sapeva, perciò, come arrivare alla chiesa.
Non gli sarebbe stato difficile raggiungere la sacrestia senza farsi notare. Nei paesi i viandanti notturni sono ombre che si muovono in silenzio per riguardo ai contadini che vanno a letto presto. Girù camminava radente i muri. Arrivò alla chiesa e suonò il campanello di un portone accanto. Si sentì chiaramente un “chi è” quasi gridato e dei passi striscianti, che si avvicinavano alla porta. Disse il suo nome con una voce appena sussurrata per non farsi sentire dal circondario, ma il prete, abituato alle confessioni dalle vecchiette appena sospirate, percepì immediatamente il suo nome ed aprì con prontezza, rivelando una faccia sorpresa e meravigliata.
“Che ci fai qui a quest’ora Girù! Questa
è l’ora delle confessioni più cattive e più brutali. Hai anche tu commesso
qualche atroce delitto che devi confessare? Non saprei spiegarmi in altro modo
la tua presenza qui, a quest’ora.”
“Vengo a dichiarare ufficialmente la mia morte!”
“Che stupidaggini vai dicendo! Sei vivo e vegeto, spiegati meglio!
Anche tu sei tra quei peccatori che hanno commesso i peccati più orridi? Inginocchiati e dimmi tutto sotto confessione!”
Girù non si era mai confessato, ma il prete sapeva che non conosceva il peccato. Per questo non gli aveva mai chiesto di confessarsi.
Non ci fu bisogno del confessionale: il prete fece inginocchiare il penitente mentre lui, dopo avere indossato i paramenti, prese posto su una sedia.
Il prete gli disse: “sappi Girù che si tratta sempre di un inganno, anche se le tue intenzioni sono benevole. Ripeti tutto sotto confessione per ottenere il perdono del Signore che, di certo, non ti assegnerebbe alcuna pena per tutto ciò, ma dobbiamo metterlo al corrente anche delle tue più intime motivazioni.”
Il penitente iniziò a parlare.
“Ho sempre creduto che ogni vecchio abitante del borgo, pur essendo emigrato, abbia lasciato qui la sua anima e, dovendo io morire, non potrei più esserne il custode; devo, perciò, trovare il modo di farli ritornare a riprendersi l’anima, anche se con un inganno.”
Il prete replicò:
“sento che non sei completamente
sincero, credo che qualcos’altro ti tormenti. Libera il tuo pensiero! Il Signore
ti capirà, non devi temere!”
“Ho seppellito mio padre, mia madre, la vecchia signora e tutti hanno avuto il
rito della tumulazione attorniati dai parenti e dagli amici. Eravamo in molti
ad accompagnarli all’ultima dimora. Se
giungesse a me la morte, morirei con un tormento: sarei un cadavere abbandonato,
scoperto dopo molti giorni per il lezzo della putrefazione del mio corpo. E’ triste morire in solitudine. La morte l’ho
sempre vissuta come una cerimonia di consolazione e di testimonianza. Chi
testimonierebbe per me? Il borgo, con il ritorno dei suoi vecchi abitanti,
tornerebbe a nuova vita e sarebbe uno scambio, la mia vita in cambio di quella del
borgo.”
Il prete gli disse:
“tu sei sicuro che torneranno questi
vecchi abitanti? Chi li avvertirà della tua morte? E, poi, perché debbono
presenziare alla tua funzione funebre?”
Girù disse:
“nel borgo ci consideravamo tutti una
famiglia e nessuno abbondonerebbe un familiare nel momento della morte, perché debbono
riavvolgere il filo d’amore che li ha legati a lui. Un filo che ha un nome: il
ricordo. Nessuno perde completamente il contatto con il luogo natio. In paese,
appena si spargerà la notizia della mia morte, il collegamento con i vecchi conoscenti
e i parenti andati via si riallaccerà e tutti sapranno della mia dipartita.”
Il prete profferì poche parole: “credo vivamente che meriti l’assoluzione. Sono
curioso, però, di scoprire se quello che prevedi si avverrà. Tu ti affidi
troppo all’amore, ma ho visto più cuori induriti che cuori disposti a
sacrificarsi per un costoso e faticoso gesto d’amore. Se il tuo desiderio di
vedere ripopolarsi il borgo si avverasse, sarei il primo a riconoscere che
l’amore non è sempre quello che immaginiamo.
Ci sono tante manifestazioni d’amore e non sempre riusciamo a capirle ed indagarle
tutte. Proprio per questo sono tuo complice in una farsa che non inganna, ma
dimostra che si può amare in mille modi, ispirati dal sentimento sincero.”
Quando Girù prese la strada del ritorno, la notte si era fatta più nera e non si vedevano più finestre illuminate. Sentiva che le forze lo stavano abbandonando. Non era un tratto breve quel cammino, ma aveva promesso di morire fra tre giorni e fino ad allora doveva resistere e farsi forza.
Il prete, ormai, completamente assorbito dalla tresca, fece mettere ai piedi dell’altare una cassa da morto vuota ma chiusa, in modo che la gente non andasse al borgo ad indagare. Tramite la perpetua fece diffondere la voce che fu lo stesso Girù ad esprimere la volontà che le esequie si svolgessero dopo quattro giorni, per dare l’opportunità ai parenti lontani ed agli amici di ritornare per l’ultimo saluto. In paese quell’ultimo desiderio commosse tutti gli abitanti che si affannarono ad informare della morte di Girù tutte le persone che erano emigrate. Grande fu il dispiacere di tutti coloro che sentirono il dovere di ritornare per quelle ultime esequie. Tornarono tutti.
Il tabaccaio, l’alimentarista, il mandriano si recarono a visitare, non senza emozione, le vecchie case e, vedendole ben conservate e linde, credettero ad un miracolo. Sapendo intimamente, però, che soltanto il loro concittadino poteva avere fatto questo. Quel poco che ti dà il posto dove sei nato è, in fondo, molto di più di ciò che si trova altrove: l’emigrante ha un nemico costante da combattere, il peggiore, l’indifferenza. Se muori, se vivi, in un posto dove non sei nato, nulla eri, nulla rimani.
Il tabaccaio decise che forse non era una cattiva idea riaprire l’esercizio. Pochi sarebbero stati i clienti, ma molte le persone con cui scambiare gesti di affetto e di solidarietà. Il mandriano pensò che il suo formaggio poteva avere mercato anche lì. Il paese di Girù, da quel giorno, fu oggetto di peregrinazioni di migliaia di viandanti, attratti dalla tipicità del luogo, dai prodotti locali e, principalmente, dai racconti relativi al suo unico abitante. Non fu proclamato santo, ma fu stimato, ammirato ed additato come esempio di amore per la terra dove era nato. Tutti coloro che vi si recavano non trascuravano di fargli visita al cimitero, per leggere quella frase che divenne famosa.
”QUI GIACE GIRÙ, L’UOMO CHE SCOPRÌ CHE SI PUÒ AMARE UN LUOGO E DIFENDERLO FINO ALLA MORTE.”
Come è morto Girù?
Si era rifugiato in soffitta e, dovendo morire da lì a poco, non si preoccupò di provvedere a fornirsi di vivande. Attese stoicamente la morte senza preoccuparsi della fame. Il prete, immaginando che si potesse verificare questa situazione, essendo suo complice e conoscendo il suo nascondiglio, andò a trovarlo di nascosto. Gli portò del pane e dell’acqua, dicendogli di lasciare questa terra in tutta serenità. Girù chiese al prete di aiutarlo ad esaudire l’ultimo desiderio, quello di incontrare i suoi concittadini.
Il prete all’inizio riputò non opportuno ma, ormai, a cose fatte, premiare un moribondo non avrebbe creato alcuno scandalo. In fondo, avevano annunciato la sua morte con alcuni giorni di anticipo.
L’ultimo desiderio non si nega ad un moribondo. Il prete chiamò in disparte il tabaccaio, l’alimentarista e il mandriano e disse loro di seguirlo. Anche lui voleva scoprire come costoro avrebbero reagito alla sorpresa di vedere ancora vivo il loro concittadino.
Quando i sentimenti sono forti e sinceri, non si può di colpo modificarli, solo per un aspetto formale. Infatti gli amici, vedendolo a letto sofferente ma vivo, espressero contentezza e felicità e, buttandosi ai piedi del letto, gli presero la mano per baciarla, in segno di rispetto. Il tabaccaio, uomo razionale, si riprese dallo shock e disse: “come faremo a dire alla gente che sei vivo e che li hai raggirati?”
Girù con l’ultima voce rimastagli: “non temere! Domani il mio funerale avrà un regolare svolgimento, perché farò in tempo a morire. Vi ho fatto venire perché ho sempre desiderato morire in compagnia delle persone amate.”
“Grazie!” disse qualcuno dei presenti, mentre gli occhi del moribondo si chiudevano per sempre. Quello era il terzo giorno, come lui aveva previsto.
Una storia poetica con il gusto di una favola senza tempo. Bravo.
Una novella che mira al cuore
Ho letto questo racconto con l’ansia di arrivare al finale, e il finale mi ha fatto pensare a Gesù … ma non credo che volessi riferirti a Gesù, per quanto il nome Girù gli somigli. Effettivamente sembra una favola, soprattutto quando narri la storia dei gatti – e lì Girù mi ha fatto un po’ innervosire poiché i gatti sono tra i miei preferitii. Morale di questa favola, di questo racconto, per quello che è arrivato a me, è la necessità per l’uomo di vivere in comunità e non in solitudine – cosa che condivido in pieno. Oltre naturalmente al messaggio ben chiaro nel tuo racconto che “si può amare un luogo e difenderlo fino alla morte”: le radici prima di tutto! Bravo. Complimenti.