Premio Racconti nella Rete 2010 “L’attesa” di Maria Luigia Longo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Smontato dal vecchio autobus arancione che ogni sera bofonchiando lo lascia di fronte all’enorme caseggiato dove risiede ormai da un anno, attraversa di corsa l’ampio viale che taglia in due il quartiere studentesco e, lasciandosi alle spalle gli alberi dalle chiome un po’ flesse, infila trafelato il cancello d’ingresso. Il quartiere si popola più tardi di studenti in perenne bivacco davanti ai pub. È già buio pesto e, come ogni venerdì sera, rientra dal lavoro intorno alle nove. Il cortile interno dell’antico palazzo milanese è deserto: solo motorini e biciclette parcheggiate ai bordi dell’aiuola centrale. L’uscio d’alluminio ramato della guardiola è già chiuso e passando vi lancia un’occhiata automatica e distratta. Molte delle finestre che si affacciano sul cortile sono illuminate e alcune, aperte, liberano l’ormai consueto profumo di cous cous; stranamente anche la finestra del suo appartamento è accesa.
Chi c’è nel suo alloggio?
Inserisce la chiave nella toppa e, aprendola, accompagna la porta col piede. La luce è davvero accesa. Il resto della casa invece è al buio, vuoto come ogni sera. Armando, un londinese di origini nigeriane che occupa l’altra singola, è sempre fuori e non si incrociano mai: rientra quando lui già dorme e dorme quando lui esce al mattino presto.
Segue in corridoio il cono di luce e, in soggiorno, trova la tavola imbandita: il piatto fondo e la minestra scaldata, il bicchiere da vino e il fiasco pieno, il pane tagliato a fette e mandarini già sbucciati. Non sa chi, ma è la prima sera da quando vive lì che qualcuno attende il suo rientro.
Si siede e mangia.
Stasera non ha impegni e quando non ha impegni passa la serata a scrivere: è un poeta. È a Milano per avvicinarsi al mondo delle case editrici. I suoi impegni sono legati sempre a presentazioni di libri, premiazioni e festival letterari. Prova uno strano piacere quando prima di un evento letterario entra nella saletta di una libreria e si lascia cadere nella sedia, sprofonda appagato, in attesa di una scoperta.
Ha un quaderno con la copertina di pelle marrone dove appunta continuamente le sue impressioni che poi trasferisce sul pc quando sono rielaborate. Sta lavorando ad una raccolta di cinquanta poesie intitolata Autunno.
Scrive alla luce soffusa di un lume da tavolo.
Sono diversi mesi che rielabora gli stessi versi, un labor limae certosino e quasi impercettibile ma profondissimo, come ama dire a quanti gli chiedono cosa faccia nella vita. Talora arriva a rileggere in una sera più di cento volte uno stesso verso, perdendosi in un vagolare meditativo un po’ bizzarro. A volte passa la notte a ripetere a mezza voce versi di poeti francesi, la musicalità gli ridà equilibrio. Il ritmo gli ridona la giusta proporzione delle cose.
Seduto al divanetto con i piedi su una sedia e il quadernetto in grembo, si smarrisce a seguire le linee del pavimento quadrettato di fine anni sessanta. Sorseggia sempre vino rosso, quello che gli manda suo nonno di tanto in tanto.
Questa sera però non ha molta voglia di scrivere, non riesce a sovrastare i versi; stasera è accaduto qualcosa: la sua solitudine è stata interrotta da un evento: la tavola apparecchiata. Guarda a lungo i resti della cena che sembrano parlargli; avverte una fiumana di sottofondo strisciante e si addormenta lì sul divano. Un piatto sporco, un bicchiere semivuoto, briciole di pane a fargli compagnia e a cullarlo, stanotte.
Di giorno lavora part-time in una libreria e sabato e domenica serve ai tavoli di una pizzeria. Vive a Milano da straniero, come uno studente all’estero nel tentativo di imparare un’altra lingua e forse di crescere. Ed è proprio nell’imperativo di crescere che da qualche mese accetta le lusinghe della portinaia, una cinquantenne sposata con figli molto più grande di lui, meglio nota come la puttinaia.
Gli incontri con la puttinaia avvengono una volta alla settimana, dopo che lei finisce di stirargli le camicie. Sono brevi, irruenti e non lasciano strascichi sentimentali.
Il sabato sera, di ritorno dal lavoro, si ferma con le ragazze di Viale **** e si accompagna ad una di loro, ventenne cubana da pochi mesi a Milano col sogno di fare ovviamente la modella. Bella e profumata. Pulita. Di Stella amava le paroline dolci che sapeva sussurrargli all’orecchio. Ora però non le ricorda più e non ricorda neanche il suo volto, anche perché adesso non è più da solo.
Verso mezzanotte è quasi sempre interrotto nella sua scrittura dai passi veloci di Lisa, la ragazza del piano di sopra che ritorna a casa. Corre alla porta e si pianta davanti allo spioncino per vederla passare, dilatata confusamente. Non l’ha mai vista di giorno, ne ha soltanto sentito la voce per caso un giorno canticchiare nelle scale salendo. È una macchia a colori che passa per un nanosecondo davanti al cristallo oculare. Lisa è soprattutto uno sbuffo di profumo dolce che passa sotto la porta e col suo guizzo lesto inonda la casa.
Insieme ai passi che si susseguono rapidi, avverte un altro rumore di fondo, forse lo strascico della mano stanca sulla ringhiera di legno o il mormorio dei neon sulle scale. L’attende ogni sera e, ogni sera, lei arriva. Forse non sa che dietro quella porta c’è un occhio che aspetta sveglio tutte le sere, occupandosi di lei: il giorno non finisce se prima Lisa non è rientrata.
A volte non è da sola.
Abita nell’appartamento direttamente sopra al suo da prima che lui arrivasse. Ne sente il tamburellare dei tacchi all’alba, lo sente addosso, come un ticchettio sulla pelle. Ha un passo energico e ritmato. Picchietta sul pavimento, non striscia i piedi, forse saltella, forse è felice. E spesso canticchia. Lui ascolta ogni rumore, ogni suono che proviene da Lisa. E ogni suono corrisponde ad un sobbalzo del cuore.
Certe sere, di rado però, Lisa rientra in compagnia di qualcuno: una screziatura scura che la segue su per le scale, vicino vicino, forse si tengono per mano. Ma a lui non importa, tanto più che adesso Lisa ha deciso di prendersi cura di lui. Chi, se non lei, avrebbe potuto preparargli la cena e riscaldargli la casa?
Da quella sera, tutte le volte che rientrò dal lavoro, trovò la luce accesa e la tavola imbandita.
Aprendo la porta si tuffava, ogni volta con la stessa meraviglia, nel cono di luce che dal soggiorno illuminava di sbieco alcuni angoli della casa. La luce e l’odore di cibo erano per lui l’abbraccio di Lisa. E dopo cena contemplava i resti del pasto sul tavolo e non c’era più spazio per la scrittura, la poesia adesso era Lisa. Pensava solo a lei. La declinava in sé mormorando qualcosa che certamente lei avrebbe compreso, un balbettio dell’anima, un gorgoglio dei sensi, energico e segreto.
Lisa era il suo rumore quotidiano, il rumore stesso della sua vita, della casa, quello che catturava la sua attenzione più dello scricchiolio dei mobili e delle pareti, molto più del borbottio del vecchio frigo.
All’inizio odiava quell’appartamento: piccolo, vecchio e con gli scarafaggi che numerosi e lesti circolavano sul pavimento quadrettato, confondendosi con i cunei neri delle mattonelle. Prima di arrivare in quella casa non ne aveva mai visto uno. Riuscivano ad assumere qualsiasi forma e così da oltrepassare porte, stipiti di armadi e pareti, attraverso le loro crepe. Una volta ne trovò uno addirittura in un libro. I primi mesi fu una lotta continua contro di loro, poi lasciò perdere: erano troppi, troppo grandi e troppo veloci. Dapprima finse di non vederli, poi ci si abituò. Ora amava il suo appartamento: era la sua tana.
Avrebbe voluto che un giorno lei avesse suonato alla porta con il desiderio di entrare. L’avrebbe accolta dimenticandosi di tutto il resto. Della scrittura, anche. E dell’ossessivo crepitio dei suoi pensieri. Certamente quel giorno sarebbe stato felice.
Pensò di parlarle.
Rimuginò per qualche giorno sul modo e poi decise di scriverle un biglietto che avrebbe fatto passare sotto la porta durante uno dei suoi rientri notturni. Di sicuro ne sarebbe stata contenta. Scrivere a Lisa fu la cosa più semplice del mondo: le parole scaturirono subito precise, perfette, quelle, quelle che anche il suo (di lui) cuore avrebbe voluto sentirsi dire.
La prima lettera indirizzata a Lisa strisciò sotto la porta nello stesso attimo in cui la luce delle scale si accese e il rumore dei passi si fece più vivo. Lui appostato davanti allo spioncino vide la macchia colorata passare come sempre veloce, sparire per un attimo, poi arrestare i passi e arretrare, chinarsi e…raccogliere il foglietto? Sì, raccoglierlo. La macchia divenne meno confusa, acquistò sembianze più nitide e parve a sua volta guardare nello spioncino. Lisa si fermò a guardarlo. Ora lo guardava. Lo vide? Esitò per un attimo e poi riprese forma confusa e, veloce come sempre, risalì verso il suo alloggio.
Le scrisse in punta di penna, delicato, per non essere invadente. Con una grafia piccola piccola. Descrisse se stesso attraverso il racconto delle sue attese. Così Lisa avrebbe compreso meglio quello che certamente già sapeva di lui. E lei avrebbe risposto? E se sì, come? Passò una settimana in cui la risposta di Lisa si fece attendere invano e lui decise di lasciare il lavoro in pizzeria per non rischiare di non esserci quando sarebbe arrivata. Intanto le scrisse una seconda ed una terza lettera, che lei raccolse dal pianerottolo. Stessi movimenti, stesso gioco di sguardi, stesso incanto di lui. A lui in fondo non importava ricevere una risposta, a lui bastava solo che lei raccogliesse quei fogli di carta quadrettata e li portasse a casa con sé.
E Lisa lo fece, li raccolse tutte le volte.
Prima o poi avrebbe suonato alla porta.
E allora avrebbe dovuto trovarlo seduto sul divano ad attenderla.
Ecco perché decise di lasciare anche il lavoro in libreria: se Lisa non l’avesse trovato ad aspettarla certamente ne avrebbe sofferto.
Avrebbe dovuto invitarla nel più dolce dei modi, perché Lisa era la più dolce delle donne.
Una sera, infatti, decise di accoglierla con una sorpresa: una rosa sul pianerottolo. Un bocciolo di rosa rossa. E quella sera lasciò la porta aperta. Il cono di luce di sbieco inondava le scale. Lisa raccolse la rosa e finalmente entrò, lasciandosi sbadata la porta aperta dietro le spalle. Restò così per tutta la notte.
Qualche giorno più tardi la portinaia raccontava in segreto alle sue amiche di come quel ragazzo del terzo piano fosse stato vittima di una profonda passione per lei e di come questa lo avesse consumato fino a portarlo alla morte.
Non si spiegava però perché i bigliettini, che lei raccolse dal pianerottolo, fossero indirizzati ad una certa Lisa.
La polizia per settimane cercò invano la ragazza e concluse che in realtà non aveva mai abitato in quell’edificio.
Di Lisa rimane traccia solo nel quaderno di pelle marrone.
E di lui solo il corpo senza vita, adagiato sul divano.