Premio Racconti nella Rete 2019 “Adesso chiudi gli occhi” di Crescenzo Zito
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019La donna è sola, seduta a terra con le ginocchia al petto e la testa piegata verso il suo stesso grembo, ha un controllo innaturale del proprio respiro, come se praticasse un esercizio di rilassamento. È addossata all’angolo più buio del muro in quella che era stata una casa luminosa e piena di divertenti disordini dovuti ai due figli. Solo sei giorni prima in quella frazione c’era gioia e serenità e quella abitazione era integra e non ridotta, come ora, a soli tre mura senza soffitto, come quelle del villaggio e le altre sparse a caso nella campagna.
Lei non si fida più del silenzio assoluto perché ha la certezza dell’esperienza: sa che la quiete anticipa sempre un qualcosa di nefasto.
Per rasserenarsi alza il viso alla ricerca di un suono amico. Acuisce l’udito per spezzare quell’oscurità, a lei basterebbe ascoltare anche solo il balzo familiare del gatto per fissarlo negli occhi prima che questi scappi via perché colto sul fatto.
Sente fisicamente che tra pochi minuti tutta la percezione che ha del mondo cambierà e vorrebbe non essere sola. Invece tutto intorno è fermo anche se in lontananza, fievolmente, le arriva il fruscio delle chiome degli alberi sopravvissuti. Corruccia la fronte nel percepire il vento stridere attraverso le brecce della casa e stringe i denti nell’ascoltare i tuoni, forti come boati; le folgori, invece, le fanno tremare le palpebre perché sempre annunciano ingiuste condanne. Piange silenziosa come se avesse paura che qualcuno potesse sgridarla per quelle lacrime, ma chi potrebbe mai sentirla?
Come da bambina curava, credendo di guarirle, le bambole preziose della nonna, per quattro giorni ha accudito e vegliato i corpi dei suoi cari. Risente la fatica e il dolore provato, due giorni prima, nel seppellire il marito, i suoi bambini e il gatto alla meno peggio nel giardino di casa, appena fuori dalle mura dell’angolo dove è rannicchiata. Il suo pudore di giovane vittima non le fa gestire il fremito del terribile ricordo ed ella trema.
Improvvisamente si scuote e appoggia le mani al muro con tanta forza che sembra volerlo graffiare, invece cerca un appoggio alla sua debolezza e, una dopo l’altra, alza le gambe con fatica. Si tira su. Più che camminare si trascina, ma dopo pochi passi si ferma esausta. Nel suo lento avanzare la luce della luna schiarisce quell’ombra scura dandole la giusta consistenza, rendendola reale nel suo tempo infausto dall’ora ingiusta.
La donna ha il viso emaciato e alcuni lividi rendono violacea la sua carnagione chiara, i capelli sono scomposti anche se corti. Indossa un abito strappato in più punti, il cotone con i fiori colorati, anche se sporchi, contrastano col nero del bruciato e il grigio della polvere.
Per l’enorme sofferenza porta le braccia all’addome e le mani al pube per portare sollievo nel punto più doloroso. Sono giorni che non mangia come dovrebbe, si è alimentata con ciò che ha trovato nelle rovine di quello che fu un borgo meraviglioso circondato da una fertile campagna che, come spaventata, ha smesso di produrre i suoi frutti.
Il fiume, che per ignote ragioni le ha salvato la vita, ancora scorre con la sua acqua non più cristallina. E’ priva di scarpe e i piedi sono gonfi, come le caviglie. E’ troppo stanca per muoversi ulteriormente e, dopo aver preso una coperta da ciò che rimane di un armadio, si siede nuovamente a terra, accanto ad una bacinella calda che è poggiata su braci che la notte sta raffreddando in fretta. Sistema la coperta davanti a sé e allarga le cosce.
Il cielo all’improvviso sembra scuotersi quando un’esplosione di parole confuse si allontanano dalla sua bocca: consonanti e vocali escono a casaccio, senza un senso reale, eppure trasmettono tutta l’angoscia della solitudine della donna, con dettagli che qualsiasi enciclopedia, per quanto ciclopica, ignorerebbe. Le labbra sputano nell’aria, come saliva colorata, rigurgiti di sillabe che si mescolano al fiato corto.
Un urlo in solitudine non è altro che un alfabeto osceno. Eppure sul volto della donna traspare un sorriso tra i sospiri e i respiri sempre più ravvicinati.
- Adesso chiudi gli occhi e non temere le bombe, le tue palpebre ostacoleranno i bagliori delle deflagrazioni e questa notte rumorosa passerà in fretta tra le mie braccia silenziose. Dormi bimbo mio e, se domani la guerra non finirà, non lascerò che ti portino via. Ci nasconderemo nella melma putrida e, se le mie ferite non guariranno, sarò sempre con te in quell’aldilà quieto e buio, dove non ci sarà mai odio e sopraffazione.
Un pianto improvviso sovrasta ogni considerazione e dolore.
E’ il vagito felice di un neonato.
Straziante, eppure con un barlume di speranza, dato dalla nuova vita. La fine si ricollega all’inizio, dopo la parentesi di dolore data dalla descrizione della tragedia che sta colpendo la donna. Fa male perché fa pensare ad alcune realtà che a noi appaiono lontane, ma che invece sono, esistono. Il finale evoca il pensiero che la vita continua, nonostante tutto. Complimenti Crescenzo.