Premio Racconti nella Rete 2019 “Made in Italy” di Liliana Mianulli
Categoria: In ConcorsoChe ci fosse una qualche strategia ben precisa dietro quel suo comportamento era certo ma, al momento, decisamente oscura.
Se ne stava lì, sul parquet di legno consumato, con le sue ginocchia mingherline a setacciare il suo guardaroba. Gli occhi azzurri puntati sui cassetti di quel vecchio comò di noce e le mani incerte, intente, con una forza davvero esagerata, a tirar fuori, pezzo dopo pezzo, decine e decine di stoffe colorate. Le tirava, le strattonava per far perdere loro la stiratura, le osservava e poi le scaraventava alle sue spalle, sorvolando ora il lato destro, ora quello sinistro.
A guardarlo dall’esterno, aveva tutta l’aria di essere un uomo alla ricerca di una mise da indossare. Era, invece, solo un uomo alla ricerca della sua maschera definitiva.
Terminata la vivisezione anche del secondo cassetto, lo richiuse, inclinandolo e scuotendolo un po’ per farlo aderire ai binari malconci.
Con un tonfo notevole, finalmente, il cassetto riprese la retta via e passò al successivo. Restò quasi in adorazione: si offrì al suo sguardo, un broccato di velluto verde, impreziosito dalla scintillante maestosità dell’oro. Era una giacca meravigliosa, con una linea strutturata e imponente che richiamava i gentiluomini di un tempo lontanissimo, lunga fino a metà gamba, con maniche e collo importanti a sottolineare un’eleganza sfacciata e insolente. Che capo splendido! Lo aveva disegnato e realizzato con le sue mani tantissimi anni prima. Un lavoro impeccabile.
La prese con delicatezza fra le mani e la liberò dalla rigidità delle forme: non meritava di restare rinchiusa. Si alzò e la posò sul letto come si farebbe con una sposa prima di baciarla, poi oltrepassò il cumulo di abiti sparsi sul pavimento e si diresse verso il bagno. Due balzi e fu nudo e scheletrico sotto il getto d’acqua, questa volta, stranamente calda. Si lasciò inebriare dal profumo di talco per un po’, prima di sciogliere i capelli e insaponarli.
Che sensazione impareggiabile quella dell’acqua che scivolava lungo il viso! Dava l’impressione di portar via con sé anche i brutti pensieri.
Li raccolse tutti, ma proprio tutti, i brutti pensieri, e poi li guardò sparire nel tubo di scarico. Solo allora, sorrise e li salutò con la mano.
Richiuse l’acqua e restò, infreddolito, a guardare per un po’ la metodicità delle gocce sopravvissute: scivolavano con dolcezza sulla pelle e si schiantavano brutalmente sul piatto doccia. Poi, prese un telo e vi ci si avvolse dentro.
Guardò le mani avvizzite che tenevano stretto l’asciugamano mentre gocce ribelli scendevano, dopo uno scivolo improvvisato dalle ciocche dei suoi capelli, e andavano a tuffarsi proprio sulle dita bianchicce. Un tempo erano state capaci di creare capi memorabili, vere e proprie opere d’arte e ora, a mala pena, riuscivano a tener su uno squallidissimo asciugamano. A quel pensiero, con gesto rabbioso, strofinò forte il tessuto sulla pelle. I cattivi pensieri erano ritornati.
«Non li ho lavati via del tutto» pensò amaramente.
Si diresse a passi rapidi nella camera da letto e indossò la biancheria e i jeans. Poi si avvicinò all’armadio e iniziò a strattonare le grucce alla ricerca di una camicia appropriata per l’occasione. Ne isolava una alla volta: la guardava, la sfiorava e poi la spingeva nervosamente accanto alle altre che aveva escluso. Poi, d’un tratto, gli si illuminarono gli occhi. Trovata! Una camicia con un colletto alla coreana di un pregiatissimo lino color avorio. Era lei. Prese dal comodino il phon e iniziò ad asciugare i capelli che ora, sciolti, arrivavano a metà schiena. Rimase per un bel po’ imbambolato a guardarsi intorno, inebriato dal calore che l’aggeggio sprigionava. Quel compagno rumoroso riempiva così tanto la stanza che, quando lo spense, il silenzio che ne aveva preso il posto quasi gli sembrò maleducato.
Si avvicinò al letto e aprì il sacco di tela grezza: infilò a fatica il phon e richiuse con cura. Poi si guardò in giro e, ancora a piedi nudi, si diresse verso la scarpiera. Scelse un paio di mocassini italiani, disegnati per lui da un maestro artigiano diversi anni prima: stravaganti e unici come tutto quello che aveva creato e indossato quasi per tutta la vita. Annodò nuovamente la chioma in un codino e vestì l’involucro che conteneva quell’anima disperata. Prese un foulard di seta, comprato in India in occasione della presentazione di una delle sue collezioni, e se lo avvolse intorno al collo. Poi, con calma, tornò verso il letto e prese fra le braccia una coperta di lana fatta di tanti piccoli quadrati dai colori vivaci: della sua famiglia, ormai, non aveva altro.
Ripensò a nonna Bea che sferruzzava quel patchwork: gli occhiali spessi dalla montatura celeste sulla punta del naso importante, la catenella color argento che le scendeva regalmente attorno al viso a segnarne i contorni bellissimi, nonostante l’età avanzata. Ricordò, soprattutto, il sorriso che sempre gli riservava quando incrociava i suoi occhi di bambino attento e curioso. La strinse forte al petto e la infilò in un’altra borsa.
Bussarono alla porta.
«Tempismo perfetto!» pensò. Andò ad aprire senza proferire parola e guardò i due uomini che, con le loro enormi figure, coprivano l’intero pianerottolo.
«Ho finito» disse. Si guardò ancora una volta attorno.
Lanciò le chiavi sul tavolinetto, si avviò verso l’uscita, scansando i visitatori che erano rimasti all’ingresso, e iniziò a scendere. Passo dopo passo, sentì gli ultimi 40 anni scivolare via, incastrati fra gli scalini, tra quelle mura, in quel palazzo del’800 che lo aveva, nel bene e nel male, accompagnato durante la sua ascesa e il suo disgraziato declino. Un sole caldo, nonostante il freddo pungente di novembre, lo accolse: dopo settimane di clausura, quella luce inaspettata quasi lo accecò.
Si fermò davanti al civico 92 per l’ultima volta. Guardò il citofono fatto solo di numeri che indicavano gli interni e tirò un sospiro: alla fine quel momento era davvero arrivato. Sistemò la tracolla dello zaino e riprese il suo destino.
Neanche dieci passi dopo, un gruppo di ragazzini, guardandolo, iniziò a ridere sguaiatamente.
«Villani!» sbraitò.
Gli occhi, ora grigi di frustrazione e risentimento, fissi sulla via, non persero la loro fierezza e l’uomo proseguì. Era quasi mezzogiorno e la città era, come sempre, affollata da visi infelici e avviliti, ciascuno a suo modo. Centinaia di solitudini sullo stesso marciapiede. Continuò a camminare lungo il viale cercando di non curarsi troppo del dolore lancinante alla pianta dei piedi o del freddo che investiva la carne.
Quello che faceva più male erano le lacrime che, tuttavia, per vergogna o per orgoglio, non cadevano. Restavano lì, tutte lì, bloccate in gola a strozzarlo.
Non riusciva neanche più a pensare. Avrebbe voluto maledire anche solo un giorno qualunque della sua vita ma, con quelle vesciche ai piedi, persino sceglierne uno era impensabile. Camminò per ore sotto il peso dei ricordi. Di quei cenci rinchiusi nello zaino. Del senso di colpa. E del suo fallimento.
Giunse nella piazza centrale che era ormai pomeriggio. Era arrivato.
Nessuno l’avrebbe aiutato con il trasloco né gli avrebbe dato una mano per sentire meno l’angoscia di quella nuova vita. Sempre che così potesse definirsi.
Si guardò intorno spaesato e riconobbe qualcuno dei suoi nuovi vicini: qualcuno aveva l’aria accigliata, qualcuno osservava incuriosito, qualcun altro era talmente immobile da destare sospetti. Cercò un posto in cui riposare le gambe e, alla fine, lo trovò nell’angolo di un negozio di abbigliamento.
Osservò per alcuni minuti le vetrine: erano tre, illuminatissime e ornate di cianfrusaglie che non lasciavano neanche un centimetro libero per l’aria. Che squallore!
Da lì, riusciva a vedere con chiarezza gli orli disperati, riusciva quasi a sentire l’odore acre dei coloranti su quei tessuti sintetici. Gli accostamenti di colori e fantasie erano oltremodo scandalosi eppure il negozio era letteralmente preso d’assalto. Si sedette avvilito sullo scalino, tirando a sé lo zaino e poggiando il corpo sulla sua borsa. Osservò per ore il via vai di persone che entravano a mani vuote e uscivano lottando con i sacchetti: fu l’ultima immagine che riuscì a salvare di quegli attimi.
Si svegliò qualche ora dopo, infastidito da un oggetto freddo e appuntito. Lo stavano toccando con un bastone perché si spostasse: era arrivato il momento di tirar giù la serranda.
Si scostò raccogliendo la sua roba, si poggiò al muro e attese. Quando tutti furono usciti, udì una donna dire all’altra: “Mai visto. Sarà uno nuovo.”
E l’altra: “Si. Un altro buono a nulla!” con uno sguardo disgustato.
Restò immobile nella speranza di rendersi invisibile e, quando rimase solo, tirò fuori dal sacco le coperte e le sistemò sul marmo. Ancora in piedi, con le mani che stringevano la coperta di nonna Bea, si guardò intorno e osservò “gli altri buoni a nulla”. Sembravano più pronti di lui ad affrontare quella notte.
Le lacrime, taciute per così tanto tempo, iniziarono ad inondargli il viso e a bagnare quel che restava della sua dignità di uomo.
Non provò neanche ad asciugarle. Erano tutto quello che gli restava di ciò che era, certo che il corpo, presto, l’avrebbe abbandonato per la fame, il freddo e la sporcizia. Aveva smesso di vivere la mattina in cui erano andati ad impossessarsi del suo laboratorio, il suo ventre creativo. Negli anni i debiti l’avevano sommerso e aveva fatto il possibile per restare a galla, pagare almeno gli stipendi di chi aveva creduto nel suo sogno Made in Italy e avere un po’ di pane da mettere sotto i denti. Era stato tutto inutile. I pochi clienti che ancora richiedevano capi così costosi, non pagavano le commesse. I fornitori facevano pressioni per avere il saldo delle loro merci e, giorno dopo giorno, aveva visto la sua creatura morire sotto il suo sguardo impotente. Quella mattina quando erano andati ad accertarsi che lasciasse il suo appartamento, ormai di proprietà della banca, gli avevano tolto l’ultima goccia di sangue rimasto.
Dal nulla aveva creato tutto e ora, nel nulla, era tornato.
Si rannicchiò sulla sua anima di infelice e lasciò alla mercé del mondo il suo miserabile corpo di vagabondo.
I volontari del 118 trovarono, quattro mesi più tardi, il corpo senza vita del “sarto”, come lo avevano ribattezzato i ‘vicini’ che, in cambio di un thè caldo, ne avevano testimoniato il decesso per stenti.
A tutti gli ignoti che, sdraiati sulle panchine dei loro pensieri o delle loro disgrazie,
ci offrono lo spettacolo di un sogno
che non sarà mai troppo lungo per scaldarne la solitudine.
E a noi che, passando di fianco, proseguiamo con le nostre vite di giudici senza toga.
Senza sapere, senza conoscere.
Senza più essere umani.
Molto bello Liliana. Ci ricorda prepotentemente che dietro ogni volto c’è una vita e una storia,che finiscono quando viene tolto uno dei beni più preziosi: la dignità. In questo caso la dignità di un uomo che ha creduto nel valore della qualità del suo lavoro per una vita, soppiantata dal consumismo. È ben reso il contrasto tra il pregio delle sue stoffe (descrivi così bene I capi che sembra di toccarli) e la banalità di molte vetrine che oggi popolano le nostre vie. Mi è piaciuto molto, per lo stile ed anche per il tema trattato con un originale punto di vista.
Grazie davvero Silvia!
Una realtà spesso taciuta ed espressa molto bene in questo racconto con realismo e sentimento
Grazie Emanuela!
Il mondo va veloce, il mondo va di fretta e l’egoismo e l’indifferenza sono parte del nostro quodiano. Situazioni analoghe a quella che hai descritto purtroppo sono più frequenti di quanto non immaginiamo. Un ottimo spunto di riflessione.
Grazie Monica!
Questo racconto è un atto di amore. Grazie, Liliana.
Grazie a te Oscar per questo bellissimo commento!
Gentile Liliana, ho letto con partecipazione il suo bel racconto, così ricco di umanità e di attualità, c’è una frase che mi particolarmente colpito perché mi sembra rappresenti lo yin e lo yang, il bianco e il nero, il sacro e il profano non solo del racconto ma anche della vita che sempre deve scendere a patti, come il suo sarto, con la realtà ed è questa:
“Avrebbe voluto maledire anche solo un giorno qualunque della sua vita ma, con quelle vesciche ai piedi, persino sceglierne uno era impensabile.” Dal ripensamento esistenziale alla prosaicità delle vesciche, ecco, lì c’è, si potrebbe azzardare, tutto il percorso di molti. La storia della griffe devastata dalla crisi non è solo la storia di una persona, è anche il simbolo di un declino che al momento sembra difficilmente inarrestabile. Può darsi che il nostro sia il primo Paese homeless, vedremo, anche se nella sua storia c’è quella dedica finale che lascia filtrare un po’ di speranza. Senza casa non significa senza umanità. Complimenti gentile Liliana e in bocca al lupo! 🙂
Grazie mille Ugo!
Racconto che fa pensare. Vogliamo dimenticarli. Mi piace molto. ( anche vicino al mio soggetto per corto ????). Brava!
Scusa i punti interrogativi non sono come siano usciti
Racconto che fa pensare. Vogliamo dimenticarli. Mi piace molto. ( anche vicino al mio soggetto per corto) Brava!
Grazie Simona! 🙂
Bellissime descrizioni! Un abbraccio, Ly…
Grazie!! 🙂
Racconto stupendo, intriso di dolcezza e insieme di tristezza e malinconia.
Avrei voluto dire più o meno le stesse cose che hanno scritto Silvia S. e Ugo M. più su… lo hanno già fatto benissimo loro!
Complimenti Liliana!
Ti ringrazio Gianpaolo! 🙂