Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Cuore di mamma” di Liliana Mianulli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Lo sguardo, fisso e vuoto sulle altre figure, si trasformava, a tratti, in una visione appannata e confusa. In uno di quegli istanti di assenza, con la mente che aveva attraversato centinaia di discorsi solitari, qualcuno le si era piazzato davanti e le stava dicendo qualcosa.

«Non ho capito» disse rimettendo a fuoco.

«Giovanna» incalzò l’altra, porgendole la mano sorridendo. E aggiunse «le nostre bambine sono in classe insieme.»

«Ecchisssenefrega!» tuonò, voltandosi dall’altra parte e accendendo un’altra sigaretta.

Davanti a quella replica e alla mano rimasta in aria senza risposta, con un’occhiataccia sdegnata, tornò accanto alle altre. Le guardò, le madri normali, mentre vigilavano sui bambini, soddisfatte e composte. Scosse la testa nervosamente e tornò a scorrere freneticamente le dita sul display del cellulare.

«Signora, non dovrebbe fumare qui! Ci sono i bambini!» le disse un signore anziano contrariato.

«Ecchissenefregaaaa!» replicò inviperita.

L’uomo, borbottando, portò via il nipotino, inveendo contro di lei ancora per un po’.

«Mamma..»

«Che vuoi?»

«Io .. io .. mi spingi?» chiese la bambina supplichevole.

Non rispose. Continuò a scorrere sul display, su cui si avvicendavano modelle, blogger, politiche, manager, donne indaffarate, donne sorridenti. Donne che avevano tutta l’aria di esser serene e appagate. Che fossero in città in mezzo al traffico o che si fossero trasferite in campagna lontane dal mondo, avevano tutte la stessa fottutissima espressione serafica e compiaciuta.

Non come lei: incontentabile e insoddisfatta persino dell’aria che respirava.

Le invidiava dannazione! Senza sapere bene chi e per cosa ma si, le invidiava.

E tanto bastava per stare da schifo. Ogni giorno. Ogni sacrosanto giorno.

Provava solo insofferenza a tutto, un rancore feroce e la maledetta sensazione di aver perso qualche grande occasione.

Era rimasta incinta neanche ventenne e l’avevano, più o meno, costretta a diventare madre. Non sentiva il bisogno di diventarlo, né avvertiva in sé quel famoso istinto materno.

Continuavano tutti a riempirle la testa con quello che avrebbe dovuto sentire,

avrebbe dovuto fare,

avrebbe dovuto desiderare.

Ma non era quello che sentiva,

né quello che faceva,

né quello che desiderava.

“Non potresti portarla al parco come fanno tutte le madri normali?” aveva detto quella mattina con il solito tono accusatorio.

E ce l’aveva portata. L’aveva vestita, le aveva raccolto i capelli castani in una coda fin troppo stretta dall’elastico rosa a forma di caramella, le aveva messo le scarpe e infilato istericamente il cinturino nella fibbietta dorata. La piccola si era lamentata per il dolore e in risposta aveva ricevuto un sonoro ceffone. Avevano preso il tram ed erano arrivate ai giardinetti. Contenti?

Come tutte le altre madri normali. Peccato che lei avrebbe voluto solo scappare il più lontano possibile da una vita che non sentiva per niente sua. Se solo..

«Mamma..» ripeté la voce di Greta al suo fianco.

«Si può sapere cosa diavolo vuoi?» sbraitò, attirando l’attenzione di tutti i presenti.

«L’altalena..» mormorò la piccola «voglio andare sull’altalena come tutti gli altri bambini» proseguì imbronciata.

Senza dir nulla, la prese violentemente dal giubbino e la trascinò davanti all’altalena.

La prese in braccio, la mise a sedere, prese le sue manine e le poggiò rabbiosamente sulle catene.

«Stringi.» ordinò.

La bimba con i pugni ben serrati, non disse nulla. Si lasciò spettinare la frangetta e asciugare le lacrime dal vento. Le spinte erano violente e, sebbene avesse pausa di arrivare così in alto, non si mosse neanche per un istante, impegnata com’era a tenersi saldamente per non cadere.

Lei, invece, continuava a lanciare quel dannato seggiolino, sperando di liberarsi di tutta quella frustrazione e, con lei, di quel pesante fardello vestito di fiori e farfalle.

Di fianco, invece, Giovanna accompagnava delicatamente verso l’azzurro del cielo, il suo piccolo capolavoro biondo, elogiandone la straordinaria capacità di muovere le gambette dai calzini colorati.

«Uh! Che brava! Brava piccina!» diceva orgogliosa.

Le altre, sedute sulle panchine al centro, osservavano i bambini giocare con le formine e si scambiavano sguardi complici con Giovanna, guardando lei con i volti disgustati, davanti ad una simile vergognosa incapacità materna.

«Basta. Scendi.» bloccò quel gioco snervante di colpo, la prese e la rimise sulla sabbia. «Andiamo.»

Ne aveva abbastanza. Se lui non l’avesse costretta a portarla al parco, se non l’avessero costretta a mettere al mondo quell’essere che la importunava e le rendeva la vita un inferno, tutto sarebbe stato diverso. Ma non era così. Le avevano tolto tutto. Quella ragazzina le aveva tolto tutto.

«Mamma ma..»

«Che vuoi?? Che diamine vuoi ogni secondo?» urlò spazientita strattonandola per un braccio.

Rimase in silenzio la piccola, con le labbra tremanti e gli occhi lucidi, profondi e sofferenti.

Mollò la presa e iniziò a camminare lungo il vialetto, sotto lo sguardo impaurito degli altri bambini, delle madri normali inorridite e della sua bambina che, con tutto il suo turbamento, cercava di starle dietro.

Dopo alcuni metri, fu costretta a fermarsi per lasciar passare un carretto e così Greta riuscì a raggiungerla. La mano paffuta le tirò di nuovo l’orlo della giacca.

«Cos’altro vuoi? Cos’altro accidenti vuoi?» strillò.

«Perché non mi vuoi bene, mamma? Sono monella?»

Con tutta la sua semplicità disarmante, Greta voleva una risposta.

Aveva le labbra serrate e gli occhi ben aperti, pronti alla verità. Le guance rosee si contraevano ritmicamente come se, con grande fatica ma con un ineccepibile risultato, stesse impedendo alle emozioni di venir fuori.

In soli 10 metri quella bambina era cresciuta: aveva già imparato a reprimere, a implorare, a sentirsi colpevole per non essere amata.

Come il peggiore degli adulti.

Come il più normale degli adulti.

Per la prima volta, da quando era venuta al mondo, riuscì a provare per la sua bambina, un sincero affetto. Il corpo arido e ossuto fu pervaso dalle lacrime: quelle amare di chi prende coscienza di quanto il suo egoismo possa far del male. Si accasciò sul viale, con le gambe che non riuscivano più a reggere nulla di quella vita e di quel momento, e si lasciò andare ad un pianto disperato.

Greta, senza dir nulla, le si avvicinò con la serietà e la saggezza dei suoi pochi centimetri, le diede un bacio sul capo chino e scosso dai singhiozzi e, con le braccia morbide e profumate di vaniglia, le cinse forte il collo.

***

Si chiamava Maria. Era mia madre. E quella fu l’ultima volta che la vidi.

Per quanto possa sembrare assurdo, sono felice che sia andata via e che non mi abbia mai più cercata.

La sua fuga, qualche ora dopo, fu il più grande gesto d’amore che potesse fare per me, convinta che se fosse rimasta al mio fianco, probabilmente, avrebbe finito per fare una pazzia o per fare della pazzia, la nostra normalità.

Magari anche noi avremmo riempito qualche trafiletto di cronaca per aver fatto un salto nel vuoto, come hanno fatto già in tanti. Troppi.

Forse mi avrebbe picchiata fino ad ammazzarmi oppure, come molte altre “madri normali”, avrebbe semplicemente torturato ogni giorno il mio desiderio di essere amata e accettata, condannandomi per sempre all’inquietudine e all’insofferenza.

Ripenso spesso a quella mattina: tutte le volte in cui mi chiedo se le cose che sento, le strade che scelgo, le frasi in cui credo siano mie o di altri, di quelli che dicono cosa è normale e doveroso ma solo per rendere infelice te, così come lo sono stati loro.

E così decido di fare quello che credo sia solo più giusto per me.

Ora so, grazie a te mamma, che il silenzio lo puoi riempire: con la musica, con chi resta e con la volontà di fare di meglio di quanto hai visto.

Il vuoto, invece, quello di una mancata serenità, non lo puoi più colmare e, lentamente si, ma ti uccide comunque.

Spero tu abbia trovato, lontano da me, il sorriso cui ero di ostacolo.

Io, invece, sorrido accarezzando il mio pancione: Luca nascerà a settembre.

Ovunque tu sia, mamma, grazie.

Amore, in fondo, è anche tutto quello che ci lascia vivere e che ci rende liberi di essere felici.

Loading

7 commenti »

  1. Quanta amarezza. Non può lasciare indifferenti questa storia.La prima parte ti prende per mano e ti porta nell’abisso di una donna irrisolta, nel dolore di una bambina priva di affetti con descrizioni efficacissime. La seconda si apre alla speranza, la forza della vita vince sempre. Ma l’inferno di quella mamma mi è entrato nelle ossa…

  2. Monica hai scelto davvero la parola giusta: inferno.
    L’inferno di chi non riceve e l’inferno di chi scopre che non può dare.
    Ma la chiave è, per me, solo una: dal dolore si può ripartire. 🙂
    Grazie per aver commentato!

  3. Avrei tante cose da dire circa il tuo racconto ma, sinceramente, con ancora il turbine di emozioni che mi ha suscitato la tua storia, mi viene da dire solo una cosa: mi auguro da lettore, che tu sia nella rosa dei vincitori.
    Grazie,

  4. Grazie Raffaele! Grazie davvero!

  5. Cara Liliana, il tuo racconto mi fa pensare al primo con cui ho partecipato a Racconti nella rete, che si intitola “Consapevole scelta”, se ti farà piacere leggerlo, capirai perché. Non posso quindi che empatizzare con questa tua scelta di narrare di una madre cinica che, al contrario della “mia”, non ha potuto scegliere. Mi piace che Greta per contrappasso abbia deciso di colmare d’amore il proprio bambino e che in un certo senso provi gratitudine per sua madre, per essersi chiamata fuori in tempo. Non sempre non amore genera non amore, per fortuna ci sono persone resilienti, che traggono il meglio dalle esperienze negative. La bellezza del tuo racconto purtroppo coincide con l’inferno (per riprendere la definizione di Monica) di troppe numerose realtà.

  6. Grazie Silvia! Cercherò il tuo racconto e lo leggerò molto volentieri!

  7. Indubbiamente tu.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.