Premio Racconti nella Rete 2019 “Coyote” di Grazia Marchese
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Jack spalanca gli occhi nel buio. Sente delle voci dal piano di sotto: “Non si sa fin dove è arrivato”…”Pare che giù al fiume sia tutto tranquillo”….”Mi preoccupano i granai: sono i primi ad andare in malora….”. Jack allunga il braccio alla ricerca dell’interruttore. Non lo trova, perché quella non è casa sua. Si siede sul letto. A tentoni arriva alla porta della stanza e la apre. Per le scale è buio, ma dalla cucina arriva una luce fioca. Jack individua la finestra della stanza e tira via la tenda con uno strattone. Di fuori il cielo è nero; solo verso il limite del bosco si intravede, sopra le cime degli alberi, una sottile striscia chiara.
Jack ha la gola arsa; il pomo d’adamo gli va su e giù a vuoto.
Vince deve essere un nottambulo di merda, pensa, mentre scende le scale grattandosi le guance irte dei peli della barba del giorno prima. La barba gli da fastidio. Jack non sopporta di stare più di un giorno senza lavarsi da capo a piedi e senza radersi la faccia.
Ha acceso la radio in piena notte, pensa. E già. Che gliene fregava a Vince di lasciarlo dormire? Mica gli era capitato quello che invece era successo a lui. Ma lui qualche ora di sonno se la meritava, cazzo, dopo tutto quello che aveva dovuto sopportare. Vince no. Vince niente. Per questo poteva starsene davanti a quella radio a notte fonda: non gli era successo niente e poteva godersi la sua insonnia.
Jack pensa al giorno prima, quando Vince si era preso il disturbo di andarlo a cercare nel cortile dietro casa, dove lui stava mungendo la capra, per dirgli che se ne dovevano andare subito. Voglio finire di mungere la capra, aveva detto Jack. Non puoi, aveva risposto Vince, ci vuole troppo. E intanto si avvicinava a passi lenti, con quelle gambe arcuate sopra un corpo tozzo da lottatore di sumo. Chi se ne frega, aveva detto Jack; alla capra si infiammano le mammelle se non la finisco di mungere. Prima la pelle e poi le mammelle della capra, aveva ribattuto Vince. Poi lo aveva acchiappato per un braccio e lo aveva fatto alzare. Sta arrivando, aveva detto. E’ a poche miglia da qui e va veloce. Non c’è tempo. Ce ne dobbiamo andare adesso. E tu che ne sai che sta arrivando? L’ho saputo dalla radio.
Si erano infilati nella botola umida, tenendo in mano ciascuno un lume a petrolio. Dentro c’erano riserve di petrolio per almeno per una settimana, scatolette di cibo, bottiglioni di acqua potabile, una panca malmessa e un materasso sul pavimento. Dietro una tenda ricavata da un sacco di iuta c’era un secchione con un coperchio bucato, da usare per i bisogni.
Erano stati li dentro per ore, ascoltando l’urlo del tornado ingigantirsi minuto per minuto, fino a diventare un terribile rombo, come una sega di dimensioni cosmiche. Jack si era coperto le orecchie con le mani e aveva chiuso gli occhi, aspettandosi di morire. Invece il silenzio era calato all’improvviso.
Ma poi un coyote aveva ululato a lungo sulle colline.
Erano usciti all’aperto, rattrappiti e guardinghi come scarafaggi notturni, e Jack aveva visto l’orrore: i resti della sua casa sparsi per miglia. Vince si era voltato dalla parte opposta e aveva guardato con la faccia immobile casa sua, in piedi, intatta, senza nemmeno un graffio di quel diavolo di vento.
Ora Jack vuole dirgli di piantarla subito con quella radio. Entra in cucina, ma non c’è nessuno. Vince sarà al cesso. Batte forte le nocche alla porta del bagno. Nessuna risposta. Abbassa la maniglia con violenza e spalanca la porta. Vince non c’è.
Allora decide di uscire e guardare di nuovo in faccia quel cimitero di assi sparse sulla polvere che una volta era casa sua. Ed eccolo lì Vince, nella radura di fronte alla casa, con la sua camicia a quadri e la testona rugginosa affondata nelle spalle, come se fosse finito sotto una pressa da piccolo. E’ lì, alle cinque del mattino, che scarica bracciate di ciocchi dal rimorchio del trattore e le piazza vicino a un moncone di tronco di quercia per spaccarle con l’ascia.
La dovevi per forza accendere quella radio? gli dice.
Ti ha svegliato?
Certo che mi ha svegliato!
Jack resta lì in piedi e si gratta i peli sul petto. Vince solleva un ciocco e lo poggia sul moncone di quercia.
“Il tornado è stato di una violenza eccezionale. Ha preso di mira la zona dei boschi e gli abitati lì intorno”….”Un perimetro limitato…”…..”C’è un gran casino: le vie d’accesso sono ingombre di alberi divelti. I ranger non riescono a passare.”….”Useranno gli elicotteri dell’esercito appena ci si vedrà abbastanza…”.
Hai sentito? Dice Vince. E’ per questo che l’ho accesa.
E per cosa? Per sentirgli dire quello che sappiamo meglio di lei? Dice Jack tra i denti.
Ho provato a contattare i radioamatori che conosco per dirgli quello che è successo qui, dirgli di casa tua, aggiunge Vince abbassando un po’ la voce.
A che serve? Casa mia ormai è andata! dice Jack.
Vince lo guarda tornare dentro, afferrare una padella dalla dispensa, alzare le braccia e lasciarla cadere sulla radio: ecco le valvole in cima alla radio che vanno in frantumi sfrigolando. Una miriade di schegge di vetro schizza sul piano della cucina e sul pavimento. Vince si avvicina e si ferma sulla soglia.
Mi è caduta di mano la padella dice Jack, guardandolo dritto in faccia. Mi dispiace.
Vince guarda la ricetrasmittente come se gli avessero ferito a morte un animale domestico. Vorrebbe prende a pugni Jack, ma si trattiene. Meglio lasciar perdere, dato che dovrà tenerselo fra i piedi per molto tempo prima che il governo si decida a ricostruirgli casa sua. Lo sapeva da sempre che Jack era strano. I primi tempi dopo che era arrivato aveva sentito le voci che erano circolate in paese sul suo conto. Dicevano che Jack era un violento, che da ragazzo era finito in carcere per aggressione e che, una volta scontata la pena, i suoi lo avevano portato nella capitale per farlo curare. Ma la gente esagera sempre con le chiacchiere. Da quando lo conosceva lui, Jack non aveva mai dato fastidio a nessuno. Se ne stava per i fatti suoi e gli piaceva passare il tempo a curare le capre. Non avrebbe potuto lasciarlo lì, a morire con la sua capra.
Più tardi sono seduti uno di fronte all’altro a fare colazione. Vince è sempre silenzioso. Ogni tanto alza lo sguardo su Jack come per iniziare un discorso, ma poi lo abbassa e continua a mangiare. Jack divora con gusto le uova strapazzate. Si versa un bicchiere di vino e lo beve d’un fiato. Poi ne versa un bicchiere anche a Vince e prende a fissarlo, mentre agita di continuo il piede della gamba accavallata sotto il tavolo.
Hai una bella casetta, lo sai Vince? Non me lo credevo. Ho abitato a cento metri da casa tua per una ventina d’anni e non mi hai mai fatto entrare.
Non c’è stata l’occasione, dice Vince osservandolo.
Eh si. Proprio una bella casetta. Tutti questi bei mobiletti che ti sei costruito, il tavolo, la sedia a dondolo. Proprio bello, solo una cosa non mi piace.
Vince raddrizza la schiena e fissa l’espressione di Jack.
Sono quelle pelli di coyote che usi come tappeti. Che cazzo ti hanno fatto di male i coyote, eh Vince? Me lo sai dire? Intanto abbassa il coltello che tiene stretto in mano e taglia un pezzo di pancetta che ha nel piatto.
Sono quelli che mi hanno azzannato le capre, risponde Vince. Gli ho dovuto sparare per forza. Guarda Jack negli occhi, cercando di capire cosa gli passa per la mente. Si sforza di non darglielo a vedere.
Anche i coyote devono mangiare, coglione, pensa Jack con gli occhi accesi. Ma tu per vendicare le tue capre li hai presi a fucilate, mentre della mia capra non ti importava niente e mi hai costretto a lasciarla lì senza finire di mungerla, anche se lo sai bene, brutto stronzo, quanto può stare male una capra se le viene un’infezione alle mammelle. Poi piega verso il piatto la fronte aggrottata.
Vince ha colto quel lampo di rabbia nello sguardo di Jack. Si agita sulla sedia. Si sbottona la camicia sul petto. Ma resta in silenzio: pensa che il silenzio sia meglio delle parole per calmarlo.
Finiscono di mangiare e Vince si mette a sparecchiare la tavola. Jack sale di sopra. Vuole rimettersi a dormire. Ma prima vuole vedere la stanza di Vince: entra, gira l’interruttore accanto alla porta e al centro del soffitto si illumina un piccolo lampadario fatto di vetri colorati tenuti assieme da un reticolo di piombo. C’è un letto matrimoniale con una coperta di lana marrone, da un lato un armadio di legno scuro che arriva al soffitto, dall’altro un comodino di un legno diverso dove è appoggiato un vecchio lume a petrolio, di fronte al letto una cassettiera con sopra una cornice e dietro il vetro la foto ingiallita di un uomo e di una donna sui trent’anni che si tengono per mano, ai lati della foto due lumini di cera con lo stoppino bruciacchiato. Sulla parete dietro la cornice è appeso un crocifisso.
Jack sbarra gli occhi e rimane immobile davanti al crocifisso.
Quello stronzo crede a Gesù Cristo, pensa. Accende le candele e prega Dio tutte le sere. E’ per questo che la sua casa si è salvata.
Adesso ha la bocca semiaperta e dalle labbra, a destra, gli pende un rivolo di bava.
Ma anche Jack ci crede. La promessa che ha fatto al prete l’ha mantenuta. Sono passati più di dieci anni e l’ha mantenuta per tutto quel tempo. Ha preso le pillole ogni giorno e ogni notte che Dio ha mandato sulla faccia della terra e da allora non ha più azzannato nessuno. E Dio sa quanto ha dovuto stringere i denti per poterci riuscire. E allora perché Vince è stato premiato e lui no? Lo sapeva, Jack lo sapeva che non avrebbe dovuto credere a quell’imbroglione di un prete.
Jack scende di corsa le scale e si precipita fuori. Vede Vince che accatasta la legna in un angolo del cortile. Hey Vince! chiama, senza fermarsi. Vince lascia cadere la legna che ha in mano e si volta verso di lui. Jack è lanciato come una meteora. Gli rovina addosso e lo sbatte a terra. E’ sopra di lui. Con la mano gli tiene la testa inchiodata sul terreno, ritira le labbra sulle gengive e affonda i denti nel collo di Vince. Il sangue schizza dalle arterie di Vince e forma una pozza per terra.
Poi Jack disserra le mascelle e, lì in ginocchio nella polvere, lancia un lungo grido, a bocca spalancata, con tutto il fiato che ha in gola.
Gli risponde dalle colline l’ululato del coyote.
Il narrato al presente fa si che la tensione cresca parola dopo parola. Tutto è pervaso da un senso di inquietudine si percepisce che qualcosa di sinistro sta per accadere fino a quando quel “qualcosa” succede, è orribile e surreale, ma, stranamente, ha un effetto liberatorio. Complimenti.
Grazie! È una sensazione davvero bella ricevere un tale apprezzamento!
Un racconto davvero originale, carico di tensione e infine, sono d’accordo, liberatorio. perfetto il ritmo che caratterizza l’alternarsi delle battute e le descrizioni. Complimenti Grazia.
Grazia mi ero persa il tuo bel racconto. Tensione e finale sorprendente, complimenti!
Uno dei racconti più belli che abbia mai letto! mi è piaciuto tantissimo, complimenti!