Premio Racconti nella Rete 2019 “Una mitica zuppa “imperfetta”” di Yuma
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Mio nonno era un personaggio davvero buffo, singolare. Nato sotto il segno dei pesci, era molto sensibile, ma aveva però una pignoleria e un’ipocondria proprie delle vergini e una testardaggine tipica degli arieti. Pur non essendo molto espansivo, aveva una profondità d’animo che in ben pochi si può riconoscere e soprattutto era di un’onestà disarmante.
Aveva combattuto nella seconda guerra mondiale, ma non ne andava fiero. Dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto era stato catturato dagli americani, aveva passato gran parte della prigionia a sbucciar patate per l’esercito statunitense e per anni si era cibato appunto delle bucce e degli scarti della cucina. Raccontava sempre di essere stato trattato però piuttosto civilmente e lì si era legato in modo fraterno a Orlando, il fedele amico che sarebbe rimasto tale per tutta la sua vita. In quel campo aveva imparato a comprendere l’inglese e a parlarlo anche se, per la sua timidezza, difficilmente a casa si esprimeva con qualche frase, se non per aiutarmi nei compiti della scuola.
Tornato a casa, dopo sei lunghi anni di prigionia, trovò la sua ragazza fidanzata con un altro e così, dopo un po’ di tempo si innamorò di mia nonna, di dieci anni più giovane di lui. Il loro amore è stato un grande esempio per me, anche se non si può dire che il loro fosse un rapporto pacifico e sereno. Discutevano spesso e anche animatamente, ma poi tutto si risolveva in modo veloce: il giorno dopo il bisticcio, era come se nulla fosse successo. Entrambi grandi lavoratori, si erano creati una dignitosa famiglia e due attività partendo dal nulla; apprezzavano i piccoli successi professionali che si erano tradotti nella capacità di sostenere la propria famiglia, costruendosi una casa e avendo la possibilità di fare un po’ di vacanza in estate e andare a mangiare una pizza la domenica sera con gli amici di gioventù.
Mio nonno, amante della cucina toscana, ogni tanto chiedeva che la nonna, nel tempo che le rimaneva dopo il lavoro, gli cucinasse alcuni piatti tipici: il baccalà con i ceci, il coniglio fritto, il cinghiale in umido con la polenta, la famosa farinata e prima di assaggiare i piatti li condiva sempre con un’abbondante spolverata di sala e pepe nero e un bel filo d’olio d’oliva, accompagnando il tutto con un buon bicchiere di vino rosso della nostra vigna. Le discussioni nascevano proprio a tavola ed io, unica nipote dell’unica figlia, assistevo quasi quotidianamente a questo surreale teatrino.
La nonna: “Non mettere il sale, che ti fa male alla pressione!” E lui: “Ne ho messo solo un pizzico, perché non l’hai salato abbastanza, altrimenti sa di poco!”. “Ma cosa dici? Ne ho messo anche troppo! E pure il pepe, anche quello ti fa male e poi ti copre tutto il sapore! E l’olio? Lo avevo già messo io…Ah! Non apprezzi mai come cucino!”. “Non ho detto questo, ma se a me piace più saporito, avrò il diritto di mangiare come piace a me? E poi sei sicura di aver lavato la verdura con attenzione? La devi sciacquare e risciacquare più volte…tu sapessi cosa ci può rimanere…ah se tu avessi visto cosa ci tiravano in quei pentoloni. Soprattutto quando farai la zuppa, mi raccomando i cavoli: devi guardarli e riguardarli sotto e sopra e lavarli con estrema cura…”; “Non sei mai contento e poi non ti fidi di me? Allora la prossima volta, la zuppa, te la farai da solo!” “Ah, e che ci vuole! Certo che la farò da solo e anche meglio della tua, vedrai!”. Succedevano spesso questi battibecchi, mentre io li guardavo e li ascoltavo divertita, perché sapevo che erano litigi da poco, divertenti, come lo erano loro, che si stuzzicavano, amandosi.
Mio nonno leggeva sempre il giornale al mattino, anzi più di uno. Aveva una biblioteca molto nutrita con libri di importanti autori: da Marx a Pavese, da Pirandello a Shakespeare, da Levi a Calvino, da Moravia alla Fallaci, a Enzo Biagi e molti altri. Era lui l’intellettuale della casa. Aveva militato con i compagni, insieme ai quali aveva creduto nei valori della resistenza contro il fascismo, ma dal partito era rimato a lungo andare deluso. Era un artigiano, un abile disegnatore e inventore, aveva fatto per alcuni anni la scuola d’arte, si intendeva di politica ed era un grande sognatore. Mia nonna mi parlava spesso delle sue belle lettere d’amore e mi diceva che lei non avrebbe mai saputo scrivere come lui; io gli assomigliavo, scrivevo e disegnavo bene, avrei dovuto continuare a studiare, visto che ne avevo la possibilità, cosa che a loro era stata invece negata a causa della miseria delle loro famiglie d’origine. Erano vissuti in condizioni dignitose da genitori che lavoravano e avevano avuto di che mangiare (non altro), ma andare in città a studiare oltre lo stretto necessario, quello no, non avevano potuto. Erano comunque riusciti a crearsi un futuro, perché avevano fatto tanti sacrifici.
Lui era spesso taciturno, ma gli piaceva parlare con me, perché io ero una bambina curiosa e lui aveva tanto da raccontare, tante cose che gli premevano sul cuore, ricordi che gli erano rimasti dentro, di quella guerra che gli aveva reso amaro il sangue; io ero piccola e, non volendo urtare la mia sensibilità, mi parlava di tanti episodi, senza però scendere mai nei particolari. Aveva visto cose che sicuramente gli avevano tolto la speranza e la fiducia nell’uomo, soprattutto in certi uomini. Era sopravvissuto, il destino aveva voluto così e doveva vivere, ma dopo quella parentesi, nulla era stato più uguale a prima. A me dispiaceva talvolta vederlo così assorto, pensieroso, talaltra triste e commosso. Io sapevo che non era pessimista per sua natura, ma erano stati quegli anni di crudeltà a farlo diventare così.
All’indomani di quel diverbio, mia nonna era rimasta talmente indispettita per certe sue parole, che intraprese una sorta di sciopero dei fornelli, eliminando dal menu tutti i piatti preferiti dal marito e facendo solo lo stretto necessario: pasta all’olio, tacchino in padella e insalata. Anche troppo, visto che non veniva apprezzata per la sua cucina, pur sapendo bene, lei stessa, di non mettere tanta passione nell’arte culinaria. Comunque, dopo una decina di giorni di tacita sopportazione, lui non ne poté più di insalata, tacchino e pasta in bianco e accettò la sfida lanciatagli dalla moglie; prese la decisione di cucinare da solo uno dei suoi piatti preferiti: la zuppa alla frantoiana.
Così, la mattina presto, prima che l’ortolano aprisse, era già lì ad aspettare che si alzasse la saracinesca per comprare le verdure più fresche per cucinare la zuppa perfetta. Fece una bella scorta di carote, zucchine, porri, patate, cipolle, aglio, fagioli scritti tipici della zona (quelli rossi tutti variopinti) e soprattutto di cavoli, gli indispensabili cavoli neri. La cucina quel giorno sembrava un teatro durante la prima prova di uno spettacolo: tutto era messo a soqquadro. Nessuno poteva entrare perché il nonno aveva messo nell’acquaio in ammollo tutte le verdure e, inforcate due paia di occhiali neri dalle lenti quadrate, un paio sulla testa e un paio agli occhi, pignolo com’era, le passava in rassegna una per una, sul piede di guerra, alla caccia dell’ultimo minuscolo insetto sulle foglie delle cipolle di tropea, sui porri, ma soprattutto su quelle dei cavoli, dei cavoli neri. Nessuno doveva interferire in quell’opera prima. Il genio era al lavoro e non doveva essere disturbato. I fagioli ribollivano nella pentola schizzando dappertutto e sporcando le mattonelle rigorosamente bianche a cui tanto teneva la nonna e che ogni giorno puliva rendendole brillanti come nuove; l’odore di soffritto si era sparso per tutta la casa, fino a raggiungere le camere e addirittura la soffitta, nonostante avessimo chiuso tutte le porte.
Io ero l’unica ad avere il permesso di affacciarmi di tanto in tanto per chiedere se andasse tutto bene e lui rispondeva a malapena, affaccendato com’era a non far bruciare la cipolla e l’aglio, mentre dal suo borbottare sentivo uscire qualche improperio, perché non sempre la situazione era sotto il suo vigile controllo dato che, a quanto potevo vedere, aveva da pulire e cuocere tanta di quella verdura da farne per un reggimento.
A pranzo non si vide. La nonna aveva preparato per tutti un arrostino con contorno che mangiammo nel tinello. Noi tutti, mia madre, mio padre ed io parlavamo sottovoce e ridevamo di questa storia, così stravagante, ma anche divertente e passammo il pomeriggio ognuno intento alle proprie occupazioni, ma in un’atmosfera di simpatica attesa della gran serata della zuppa del nonno.
Arrivati all’ora di cena, io lo aiutai ad apparecchiare e poi feci cenno agli altri di entrare in cucina. La zuppa era pronta. Ci sedemmo e, dopo alcuni secondi di silenzio, in un clima da far west, seduti con tanto di cucchiaio in mano, in un’atmosfera surriscaldata, piena di suspense, tipica del superamento di una dura prova, ci accingemmo, come membri di un’esperta giuria, all’assaggio di cotanto piatto. Il nonno si vedeva che era un po’ emozionato, ma nello stesso tempo era anche fiero di sé. Era riuscito nella sua impresa, direi per niente facile. La nonna era il crostino più duro. Lei non gliene avrebbe fatta passare nemmeno una. Doveva essere perfetta.
Ci accingemmo all’assaggio. Il gusto era buono, il brodo di fagioli molto denso, saporito, ben amalgamato alle verdure; queste ultime le aveva tagliate a piccoli pezzi, ben proporzionati tra loro ed erano cotti bene, né poco, né troppo; il tutto giusto di sale e anche di pepe, stranamente non aveva eccessivamente abbondato. Era davvero eccellente e la nonna la assaporava lentamente, senza riuscire a trovarci un difetto.
Stava decisamente per superare l’esame, quando accadde l’inaspettato. Con la coda dell’occhio intravidi lui, il nonno, che aveva iniziato a mangiare la sua zuppa, in un momento di evidente difficoltà: una foglia di cavolo gli pendeva dalle labbra ed era alquanto ostica a masticarsi. “Nonno, ma cosa ti sta succedendo? Non riesci a mandarla giù?”. Tutti si voltarono verso di lui: divenne rosso in viso, una goccia di sudorino gli rigò la fronte, la sua espressione assunse un che di sinistro finché una lacrimuccia gli scese da un occhio. Ed io esclamai: “Quella che hai sulle labbra non è una foglia di cavolo nero!”. Fu allora che la bocca gli si aprì e quella cosa misteriosamente verde e raccapricciante gli cadde nel piatto, schizzando col rosso del brodo di fagioli la bianca tovaglia immacolata… Non credevamo ai nostri occhi: non era una foglia di cavolo, era una verde, pelosa, ruvida, vile e sottile spugnetta, quella che si usa per pulire le pentole più difficili e che spesso si lascia distrattamente sul fondo del lavello, una volta fatte le faccende. Tanto si era dato da fare per pulire quelle verdure, proprio perché non si fidava abbastanza di quanto lo facesse la nonna, (sempre per la sua fissa sull’igiene che probabilmente gli derivava dall’esperienza nelle cucine delle prigioni in tempo di guerra), travasandole più e più volte da una vasca all’altra dell’acquaio, che quella minuscola, infida, fedifraga spugnetta verde, dello stesso identico colore del cavolo nero, si era insinuata tra le altre foglie, intrufolandosi come in un sorprendente trucco da illusionista, rimanendo così mescolata, confusa e nascosta in mezzo a tutti quegli ortaggi, per poi finalmente raggiungere in modo furtivo la sommità del piatto del nonno.
Che disdetta! Che delusione! Che scalogna! Nonostante il tanto impegno profuso in quello scrupolosissimo lavoro e gli ottimi risultati raggiunti dal punto di vista del palato, tanto da rischiare di raggiungere un unanime verdetto di eccellente opera culinaria, nessuno poté più continuare a mangiare quella ricca e gustosa zuppa alla frantoiana e il nonno, ahimé, non superò la sfida.
Mi dispiacque molto per lui e, a dire la verità, anche per me e per noi, perché sapevo che quella sera ci saremmo ritrovati a rimediare una frugale cenetta tirando fuori dal frigorifero i tristi avanzi dell’arrostino di tacchino, ma il quadretto era alquanto pittoresco e la pièce, da tragica, si trasformò in comica. Non seppi trattenere il riso e la mia reazione contagiò tutti gli altri, la mia mamma, il mio babbo, la nonna e anche il nonno stesso. Ci mettemmo a ridere, prima in modo più sommesso, sotto i baffi, e poi ci lasciammo andare ad una corale risata a crepapelle, con le lacrime che ci sgorgavano dagli occhi. Dopo quel giorno, non ci furono più obiezioni sul modo di cucinare della nonna e ci ricordammo di quel fatto sempre con grande allegria.
Ogni volta che cucino, a distanza di anni, penso sempre ai miei nonni, i miei angeli, a quella bella armonia che respiravamo allora e mi ritrovo a sorridere da sola, senza un particolare perché. Tanti e tanti altri episodi potrei raccontare, ma basti questo per far capire quanto quella vivace e strampalata famiglia è stata per me un crogiuolo di sentimenti semplici, sinceri, veri e genuini, spugnetta inclusa, che porterò sempre con me per tutta la vita: una ricetta perfetta, per una mitica zuppa “imperfetta”.
Una bella storia che ci parla della necessità e del valore dell’imperfezione, scritta in modo vivace e affettuoso. E soprattutto portatrice di una profondissima verità: mai e poi mai sfidare le nonne! Sono depositarie di conoscenze antiche e misteriose, e ammantate del dono dell’invincibilita’. Ai loro compagni rimane la simpatia che nasce dagli inevitabili e buffi scivoloni a cui sono destinati quando scendono in campo pensando di poter vincere. Complimenti Yuma!
Grazie Marco, il suo commento è puntuale, lucido e generoso! Mi ha fatto molto piacere leggerlo e trovare che altri possano apprezzare un racconto di vita semplice, ma autentico. Di solito scrivo altro… ma ho voluto misurarmi con una storia più “leggera”, che possa lasciare un sorriso nell’animo e negli occhi di chi la legge. Grazie!
Dolcissima e divertente questa storia che mi ha fatto rivivere anche alcuni ricordi personali. I ricordi fanno si che i nostri cari continuino a vivere con noi e sono in grado di farci riassaporare ogni momento vissuto annullando le amarezze. Piaciuta tantissimo.
Ingredienti della zuppa? No, perché anche mia nonna la faceva, ed era buonissima! Leggere il tuo racconto porta un attimo di pace e serenità , basta con metafore e difficili significati, interpretazioni su otto nove dieci differenti livelli.A me piace ficcare il cucchiaio in cose buone, in ricordi saporiti e dolci, e cullare la tristezza con un sorriso. Tra l’altro mio padre e tuo nonno hanno vissuto le stesse esperienze, ma non è questo l’importante: sono ritornata bambina senza sognare.
Se sono riuscita a regalarvi un un sorriso, ne sono felice! Grazie Monica e grazie Laura! Concordo con il fatto che non sempre siamo disponibili a chissà quali metafore e ben venga una lettura che possa consolarci e alleggerirci!
Scritta molto bene. Accattivante. Conquista il lettore e intenerisce. Se proprio devo essere sincera, secondo me sarebbe ancor a più bella senza tutta la parte iniziale sulla vita dei nonni dalla guerra in poi. Il vero racconto comincia con la scaramuccia in cucina. È da quel punto in poi che il lettore si appassiona. Anche lo stile diventa più brioso e molto particolare. Quindi un racconto che davvero merita, ma si può partire da metà senza perdere nulla, anzi: guadagnandoci!
Grazia ho apprezzato molto il tuo commento perchè mi aiuta a migliorare il mio stile. Avere il coraggio di tagliare e lasciare ciò che funziona di più, non è facile, ma è fondamentale per rendere il tutto più asciutto. E pensa che risulta migliore la parte che ritenevo troppo colloquiale e che, potrei dire, si è scritta da sola!