Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “La stanza” di Azzurra Mangani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

«È bellissima questa stanza.»

Tu non c’eri, ma sono queste le parole esatte. Gabriele è entrato, ha socchiuso la porta di legno e ha detto proprio così. Si è guardato intorno, curioso, ha oltrepassato la vecchia sedia rossa da lavoro che ho usato più volte – senza che tu mi vedessi – e per poco non ha inciampato in tutti i fogli arruffati sparsi sui due tappeti. Ma più che altro, devo ammettere, ha continuato a guardare in alto, oltre la luce fredda del neon, sul lato opposto della finestra.

Ci sono quattro pareti qui, né una di più né una di meno. Quando l’ho ammirata per la prima volta, prima che cominciassi l’opera, era quasi un magazzino abbandonato che ospitava solo una vecchia Singer per cucire. C’erano un tavolo, uno specchio molto pesante, e un grande armadio bianco.

Per prima cosa ho chiamato il falegname. Non sapevo di conoscerne uno: l’ho trovato per caso, nella rubrica. Gli ho detto che quell’armadio doveva sparire. Lui è venuto, l’ha smontato pezzo per pezzo, cerniera dopo cerniera, anta dopo anta. Da ultimo l’ha ricomposto, esattamente nella sua forma originaria, nel ripostiglio che gli avevo indicato. 

Poi ho cominciato a cercare informazioni sull’isolamento acustico: prima di allora non conoscevo che la parola, e quello che si sente dire – dagli amici – sulle confezioni delle uova del supermercato.  Ho studiato la propagazione delle onde sonore, i materiali, gli accorgimenti per la pavimentazione, tutti i prezzi e i colori che sono riuscito a trovare navigando su internet. Ho frugato nei negozi di bricolage, ma non avevo abbastanza soldi. Solo all’avvicinarsi dell’estate ho scoperto una fabbrica di materie plastiche vicina a casa: sono andato avanti e indietro, i pomeriggi dopo il lavoro, riempiendo di poliuretano espanso la bauliera e i sedili della mia macchina, fin quasi a scoppiare. Alle 19.00, ogni giorno per una settimana, ho percorso quelle strade, annusando l’odore della plastica lavorata, sentendo il suono delle pellicole che si strappano per mostrare, che si usano per coprire, e delle lame che tagliano di precisione. Un venerdì, l’ultima volta, ho portato un foglietto con le misure e ho scelto il rivestimento per il soffitto: ho preso le piramidi – quelle che ti piacevano perché somigliavano alle borchie della tua cintura – e le ho fatte dividere in pannelli quadrati.

Era giugno, c’erano gli esami all’università. Eppure l’unica cosa su cui riuscivo a concentrarmi era che non mancava molto. Che dovevo far presto.

Sulle scale ho appoggiato gli strumenti di cui avrei avuto un disperato bisogno: i tubetti e la pistola del silicone, le forbici, i guanti. La finestra non esisteva più: ci avevo già inchiodato sopra un rettangolo di compensato; il tavolo, lo specchio, nemmeno quelli esistevano più.

Tu non puoi saperlo, perché non c’eri. Non è stato semplice trovare un silicone con una presa robusta; all’inizio mi hanno consigliato una tremenda pasta color ocra, densa, con cui mi sono impiastricciato persino i capelli. Il silicone è diverso, ma farlo schizzar fuori dalla punta è stato faticoso, specialmente a metà giugno. Ho lavorato al chiuso, in silenzio, per non farmi sentire dai vicini; non ho potuto neppure accendere lo stereo. Ho sudato dentro ogni gesto, ma soprattutto arrampicandomi sulla scala.

Una notte mi sono guardato intorno, traguardando le pareti completamente grigie e soffici, e ho visto che ero arrivato alla fine. Avevo coperto ogni centimetro bianco, ciascuna fessura, anche il più piccolo spiraglio; mi erano rimaste solo le prese elettriche, che avrei dovuto usare. Mi sono seduto al centro del pavimento freddo, soddisfatto di me. Ti ho immaginato quando avresti visto la stanza. E ho sorriso, come se tu in quel preciso istante mi stessi davvero abbracciando e baciando e baciando e abbracciando, e non fossi effimera nella mia immaginazione.

Ho comprato il mixer, i microfoni e le casse; di quando suonavo mi erano rimasti una chitarra e un basso, e li ho deposti in quella stanza, come ennesimo dono per te. I fili si sono accumulati sul tappeto, con strane circonferenze sghembe. Ho collegato ogni singolo strumento, spento e inerme ma pronto per le tue mani.

Tu volevi una batteria nera. Io l’ho trovata. Me l’hanno mandata in un anonimo scatolone quadrato, da costruire. L’ho montata per conto mio e siamo stati intimi, per qualche ora, come l’artista e la sua opera migliore. Non sapevo niente, all’inizio: né i nomi, né i meccanismi, né la giusta tensione. Lei si è fatta imparare da me, lentamente. Alla fine l’ho osservata, nera, lucida, zitta. Mi sono accorto di assomigliarle: d’animo, lucido di sudore, muto nella contemplazione. Per la prima volta ho ammirato quella stanza completa, piena, gravida delle nostre attese. Ho avuto la certezza di essere felice.

Questa stanza è il risultato di una nostra conversazione vecchia di due anni, seduti nella carrozza di un treno da Torino. Eravamo partiti, poi stavamo tornando. Tu mi avevi detto che l’avresti voluta; io, mentalmente, avevo annotato un altro tuo desiderio da realizzare. Ci avevo pensato un po’ su. Infine ti avevo guardato, completamente incantato da te, e te l’avevo promessa. Anzi no, forse non promessa e non giurata in questi termini esatti – chissà se lo ricordi – ma in una maniera, per me, altrettanto vincolante.

Due giorni fa Gabriele è entrato e ha fatto qualche passo, incuriosito.

«È bellissima questa stanza.»

Io l’ho guardato storto e gli ho detto di non toccare niente; dopo qualche minuto l’ho tirato fuori, strattonandolo, e ho chiuso la porta a chiave. Tutto ciò che si trova al suo interno, è nostro. È quanto hai sognato e quanto hai abbandonato, il giorno in cui mi hai detto che è finita. Me l’hai detto sulla porta, non dentro la tua stanza.

Questa stanza ha un significato. Mi ricorda di un passato, di quando riuscivo a pronunciare «noi» senza amarezza; per questo ho deciso di tenerla sempre chiusa a chiave. Eppure, in un certo senso, non esiste. È come te e me, priva di coordinate nello spazio, orfana di tutte le latitudini.

Loading

12 commenti »

  1. E’ un racconto che mi ha trasmesso un’emozione tra l’amaro e il triste. Niente di più normale e di continuo, la fine di un rapporto, ma quando uno dei due non riesce a dimenticare e ne canta il male che si sente, trasmette appunto quell’emozione.
    Ben scritto.
    Ciao.
    Sandra carresi

  2. Stanze vuote come vasi comunicanti, dal polisterolo espanso alla tachiacardia dell’addio. Ben scritto, pochi fronzoli: la narrazione ti si incolla alle iridi e non smetti fino a quando non capisci che il vuoto, non è la fine del racconto, ma il suo paradgma. Antonio Iorio

  3. ciao azzurra,il racconto mi piace,la sensazione del tempo sospeso nella stanza e gli oggetti a cui è stata trasferita l’assenza,tutto prende un’aura di sacralità.Ho solo un’osservazione, se mi permetti, da farti,nel finale la spiegazione del momento in cui è stato espresso il desiderio di volere una stanza così:”…era il risultato di una conversazione vecchia di due anni…”, io la vedo superflua e mi sembra che svegliandomi mi tolga un pò di magia nel ritmo del raccontare. Proverei soltanto per te stessa a scrivere un finale in cui si spiega di meno,tanto si comprende bene dopo,che sia più in linea con il registro usato in tutto il racconto. In fondo è raccontato in prima persona,perciò la voce narrante conosce bene il motivo di ciò che fà,perchè spiegarlo al lettore e privarlo della magia di calarsi del tutto nell’emozione del personaggio?
    Un abbraccio,se vuoi leggermi apprezzerò il tuo commento.
    Francesca giulia

  4. Senza tempo, senza spazio, indistinti i personaggi, vuoto, amaro: molto intenso, molto bello. Complimenti!

  5. ciao Azzurra, sono un po’ d’accordo con francesca giulia marone, il racconto è molto ben scritto. ho cominciato a leggerlo ed ho continuato fino alla fine. non è poca cosa. ma poi lo privi del tutto del diritto della suspence, che è per me un diritto di ogni racconto breve. può funzionare anche così, lo scrittore c’è, ma non gioca.
    un bacio
    se vuoi puoi leggermi e commentarmi, mi farebbe piacere.

  6. Cara Azzurra
    Dopo aver letto il tuo libro ” Per Elisa” ho ritrovato alcune tue tematiche ” classiche” anche in questo racconto.
    Il tuo continuo “giocare ” tra passato e presente, tra rimpianto e disillusione, tra sogno e desiderio.
    Bellissima l’idea della stanza da assemblare che ha un significato ben più profondo di quanto le parole vogliano raccontare.
    E il lettore attento no si farà sfggire questa nuova metafora che fa rima con ” Vita”.
    Ottimo lavoro.

  7. Leggo solo adesso il tuo racconto e mi accorgo ( ancora una volta ) di quanto sia possibile esprimere concetti profondi ed intimi in poche pagine ben scritte.
    Io che non ho il dono della sintesi e neanche quello dell’introspezione non posso fare a meno di apprezzare ed invidiarti.
    Ciao-ciao

  8. Ciao Azzurra,

    racconto molto asciutto e incisivo. Lascia varie interpretazioni che oscillano tra il reale e il surreale. Il finale è da antologia: “… orfana di tutte le latitudini.” Molto bello!

    Unico personale appunto: per una questione di equilibrio taglierei un po’ la parte centrale: “…Poi ho cominciato a cercare … e le ho fatte dividere in pannelli quadrati.”

    Brava ancora!

    Ciaoooo

    Adriano Muzzi

  9. inizialmente può sembrare quasi banale, ma il finale dolce amaro lo rende un racconto davvero efficace e coinvolgente. Non riuscivo davvero a staccare gli occhi dal testo, e credo che il tuo talento stia proprio nel trasmettere grandi temi con poche parole, e questo è davvero da pochi. 🙂
    continua a scrivere miraccomando!
    complimenti di cuore..:)
    Ary

  10. Ho appena letto il racconto e forse dovrei scrivere le mie impressioni “a freddo”, ma l’urgenza è dettata proprio dalla particolarità delle stesse impressioni.
    Il racconto mi ha colpito non tanto per la forma, nonostante il racconto sia ben scritto e molto scorrevole, ma per le suggestioni. Pochissime parole, ben organizzate grazie ad una notevole capacità di sintesi, ed una narrazione così fluida che fa davvero invidia sono senzaltro cose importanti.
    Ma ciò che differenzia la tecnica dall’arte sono, appunto, le suggestioni.
    E di suggestioni questo racconto ne crea veramente tante!
    Silenziose, così sottili che non ci si fa caso finchè non entrano in conflitto fra di loro e ti lasciano muta a cercare di identificarle, ovviamente senza successo.
    Bello, davvero.

    Alessandra

  11. Il racconto scorre in maniera magistrale, si arriva alla fine senza accorgersene.
    Nonostante non sia un raccondo d’azione nè tanto meno un giallo, si tratta di una storia violenta, almeno per come l’ho letta io in questo momento.. Mi ricordi qualcosa della Woolf (se mi si permette l’illustre paragone)..
    C’è un’intensa malinconia in ogni gesto descritto, anche quando il protagonista dice di essere felice, perché quando scrive non lo è già più..il gusto per la descrizione di ogni particolare anche minimamente importante fa immaginare un po’ che alla fine ci sarà un colpo, ma non ti nego che mi sono commossa anche se me l’aspettavo.
    Io una stanza del genere la custodisco nella mia mente.

    Caterina

  12. ciao Azzurra, ho riletto il tuo racconto e forse ho trovato nuove cose. all’inizio mi sembrava ci fosse troppo scarto, una svolta netta tra la parte iniziale, in cui il passato è descritto con più distanza, anche se in maniera molto partecipata ed amara, come se davvero appartenesse al passato, e il finale in cui il protagonista ammette quanto ancora bruciante sia per lui la realtà di quella stanza. ho pensato allora che l’ago della bilancia, l’avvenimento che determina la svolta di atmosfera nel finale, sia la presenza di una terza persona che accede alla stanza. come è ammesso nel finale. è allora che il protagonista fa i conti davvero con certa impossibilità di chiudere con il passato, almeno per il momento. ma in questo caso avrei aggiunto un tono leggermente più doloroso e contrastato anche nella descrizione iniziale. forse il protagonista credeva di avere il passato alle spalle quando ha fatto entrare Gabriele nella stanza. poi ha scoperto che non era così. e si chiude all’improvviso dicendo “per questo ho deciso di tenerla sempre chiusa a chiave”.
    complimenti Azzurra, e buon lavoro!

    p.s.: grazie del tuo commento al mio racconto. forse un po’ paradossale lo è. però anche la vita lo è, paradossale, a volte, vista da certe angolature.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.