Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti per Corti 2019 “Negli occhi di Amedeo Umberto Ricciardi” di Patrizia Fistesmaire

Categoria: Premio Racconti per Corti 2019

“Umberto perché mi fai questo?”

Sono circa le diciassette, tra poco tramonterà il sole. Qualche nuvola brucia d’arancio, si sente che la primavera è alle porte.

“Mi chiamo Amedeo Umberto, quante volte gliel’ho ripetuto! Ma gode a contraddirmi. È sempre la solita”.

La povera donna asciuga con il grembiule le macchie di sangue che le imbrattano il volto.

Qualche ruga risucchia le guance che sulla fronte paiono cicatrici.

È pure brutta, tutta sua madre. Nei capelli puzza di brodo. Il fetore le si é appiccicato addosso da quando ha partorito la figliola”.

“Non mi parlare in questo modo o stanotte non dormi”.

L’uomo inveisce. Agita il pugno a mezz’aria. Si nota bene l’ascella sudata che ha bagnato il tessuto. Flanella cardata, di colore ottagno. Una giacca di classe.

Cucina sempre a sproposito.

Cucina e rompe i coglioni, come una cagna.

Del resto, mi spezzo la schiena ogni giorno per la famiglia, e quella ha pure l’ardire di lamentarsi perché non gli do abbastanza denari.

“Ti do quello che ti meriti, e non pensare di tirare su questa figliola con i tuoi vizi. Lo so, cosa credi, che mi ruberesti le carte se non mi organizzassi. Fosse per te spenderesti ogni euro che porto a casa. Accontentati di questi e non ti voglio sentire fino al mese prossimo! Almeno te lo guadagnassi a letto, qualche spicciolo”.

È perfino ironico.

Quasi quasi mi vien da ridere. Ma il sorriso abortisce in un ghigno. Non abbia a perdere quel pò di potere che mi conferiscono la verga e il portafoglio! Con le donne tanto, ci vogliono solo queste due cose.

Mi volto all’improvviso. Come un rapace. So che lei se lo aspetta, ma ogni volta trema. Mi dà gusto incrociare i suoi occhi liquidi da capretta impaurita.

Ormai è abituata.

Gli giro uno schiaffo, di quelli a mano larga.

Se lo merita.

Di quelli ne basta uno, per toglierle i grilli dalla testa ed educare la figliola.

Almeno sui soldi la finisce subito, ma per il resto bisogna percuoterla di più.

Si lamenta per la figliola: “Umberto per favore, le mancano i libri, non ha le scarpe per fare ginnastica, Umbi non è giusto, ti prego, deve essere come gli altri, deve andare in gita con la scuola” e altre minchiate. 

Se penso che quella bimbetta è pure mia mi viene da strapparmi i capelli a uno a uno. Non c’è niente di mio, ma non voglio nemmeno pensare ad un’altra evenienza. Quand’era giovane era pure troia mia moglie.

Questa figliola è sempre tra i piedi, attaccata alla gonna di sua madre come una zecca.

Tutte le sere è la solita zolfa.

Dalla porta di ingresso pare una scena costruita. Due persone, un uomo e una donna, immobili per il tempo necessario all’inquadratura.

Lui la fissa. Dritto e duro. Lei invece lo guarda di sbieco.

La figliola si nasconde dietro la madre.

Poi le grida. E di nuovo silenzio. Qualche botta produce un tonfo. Un rumore sordo. Non si capisce bene se a cadere è un oggetto o un cristiano.

Purtroppo è la povera donna che le prende di santa ragione. Come al solito, tutte le sere.

Se c’è il brodo lui vuole la pastasciutta, se c’è la carne lui vuole le uova affrittellate, senza troppo sale per non affaticare i reni, come dice il medico. 

Invece lei fa sempre come le pare. Tutto sommato, lo prende per il culo.

“Brutta stronza, lo fai apposta allora?”

Ecco, comincia così.

La chiave gira due volte a sinistra.

“La cagna si è richiusa dentro!”

Sbraita nel cervello che quasi gli scoppia.

“Frigna sempre che ha paura dei ladri”. Questo mi già mi fa incazzare.

Poi l’odore che mi aggredisce sull’uscio prima ancora di poggiare un piede sul tappeto.

La maggior parte delle volte fa schifo. E io tento di non incazzarmi. Ci provo proprio, sul serio.

Ma niente, come una nuvola dei cartoni animati il tanfo mi insegue fino alla scarpiera e poi si intrufola anche nel cesso, senza lasciarmi pisciare in pace.

Vorrei non incazzarmi, ma non mi è permesso.

Lei, lo fa apposta.

La sento mugolare girata di spalle, con quel culo grosso come una cinquecento.

Ma quanto è brutta, povera donna.

Una volta aveva le chiappe come le negre. Me lo faceva rizzare con nulla.

Non riesco più a ricordare quando me lo prendeva in bocca, piegata sul sedile di pelle della mia meravigliosa Porsche 718 Boxter, passata ormai a miglior vita. Mi voleva sedurre, poi è finita la disponibilità. Ora sono sveltine che durano giusto il tempo di due ceffoni perché sennò quella piange senza motivo. Così almeno uno ce l’ha.

Si vede che è stanco. Ha le spalle curve e la braccia appese al collo ciondolano. Indossa  ogni giorno un completo diverso, deve curare l’immagine oltre all’umore. Fa l’investment advisor, cioè il consulente. Lavora solo come un cane, in un branco di lupi che deve aggredire. Non ricorda più quanti anni sono che gira società e banker in giro per l’Italia.

Lei è voluta rimanere a vivere a Lucca, nell’appartamento dei suoi. 

Ha fatto i capricci come al solito. Fosse stato per lui sarebbero andati in affitto dove capitava.

Il centro storico è una tortura, ci sono schiamazzi e turisti straccioni.

Ogni volta che sale le scale giura che sarà l’ultima.

L’idea di doverla riempire di pugni lo disturba più che mai. Il malumore è così forte che al rientro gli prudono le mani.

Ma lei sempre, ma proprio sempre, lo provoca fino allo sfinimento.

Cosa le costerebbe lasciarlo in pace?

Anche sua madre lo riempiva di botte e pure suo padre le suonava a tutti di santa ragione. In fin dei conti se le meritavano. Da piccolo si divertiva con qualche furtarello, per la scuola non era tagliato. Con qualche soldino in più si poteva comprare le sigarette e anche un filone di pane caldo, da riportare a casa. 

Sua madre invece ciucciava anche il collo delle bottiglie, il cibo scarseggiava ma l’alcol non mancava mai.

Alla fine però ce l’ha fatta ugualmente a ritagliarsi un posto d’onore nella società: fiuto, amicizie giuste e qualche servizio intelligente.

“Anche stasera si mangia la merda?”

Esordisce così e lei inizia a muoversi di qua e di là, senza concludere niente. Impugna il mestolo di legno come fosse una vanga, lo gira svelta nel pentolone, poi si sposta, veloce, apre il rubinetto e lo richiude, l’acqua probabilmente la rassicura. Versa dell’olio di semi, spezie. Quelle che trova vicino ai fornelli. Chissà se davvero pensa a quello che fa oppure è solo il terrore a spingerla.

“Papà ma che dici?”

Se mi si rigira la figliola é la fine. 

È evidente che l’ha colto di sorpresa. Sembra che pensi. Questa non se l’aspettava.

Di solito non pensa. Lui è uno d’azione.

“Non ti permettere di rispondere a tuo padre, dopo tutto quello che faccio per voi!”.

Riprende in mano la situazione. Ma la ruga sotto le labbra si paralizza come da una puntura di botulino.

Se avesse la coca a portata di mano avrebbe già risolto. Invece gli é rimasta nel comodino su di sopra.

“Se non la lasci in pace dovrai vedertela con me. Non ne possiamo più!”

I piedi si incollano al pavimento in grès. L’aveva scelto la cagna, quando ancora glielo prendeva in mano. Lo convinceva in quel modo lì. Costava venti euro al metro quadro e lui glielo aveva pure comprato. Diceva che si puliva meglio e che in terra non sembrava mai sporco.

La bimbetta ha in mano una mazza da baseball. L’aveva nascosta dietro il divano, lui non se n’era nemmeno accorto. Ha la felpa del pigiama e sotto un paio di pantaloni della tuta. È scalza.

Alza la mazza e la sventola.

“Cosa cazzo fai?”

Giusto il tempo di spalancare le fauci. A volte si sente un leone che inghiotte le prede. Ma stavolta gli rimane incriccata la mandibola come se non si potesse chiudere.

La bimbetta approfitta della scena. Prende la mazza e gliela sbatte in mezzo alle gambe.

Tutte quelle serie di Netflix le hanno insegnato a combattere.

Lui si ripiega e sputa. Sporca il tappeto di bambù, che oltretutto gli buca pure le ginocchia.

La bimbetta fulminea come una guerriera gliela tira anche in testa e batte, batte, fino a che il pover uomo stramazza al suolo.

La camicia bianca in piquet si inzuppa di rosso.

Non c’è tempo nemmeno per un saluto.

La povera donna e sua figlia si abbracciano.

L’inquadratura si sfuoca come se il vapore del brodo offuscasse la telecamera.

Forse sono le lacrime, chissà.

Si intravedono così tante lacrime che l’acqua lava via il sangue che cola.

La bimbetta piange più forte e singhiozza sui capelli della mamma, che è in ginocchio come la Madonna. Nell’aria c’è sofferenza, dolore, ma anche un profumo nuovo.

Cambia l’inquadratura.

Al di là del vetro della finestra si intravede il campanile di Piazza S.Michele. Dietro l’angelo l’anello che brilla. 

È l’unica posizione da cui la luce entra dritta in casa.

Come un fascio avvolge la scena.

Le donne sono raggomitolate e sopra le loro teste si sprigiona un arco dorato.

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5 commenti »

  1. Quella crudezza che in 25 donne e Marinadelmar era velata qui è esposta senza filtri, con una scrittura efficacissima fatta di materia,odori e umori: il cucinato che entra dappertutto, il brodo, il sudore, il sangue. Frasi secche che esprimono pensieri gretti, materiali e violenti. E una scena finale che è pietà e perdono per le due donne. Mi ha colpito, veramente.

  2. Altro argomento drammatico, espresso in modo crudo e molto efficace. La violenza emerge da ogni parola, ogni gesto e il finale, in quanto donna, mi porta a solidarizzare con madre e figlia. Davvero toccante.

  3. Una storia cruda, un violenza consumata tra le mura domestiche che diventano lager. Non lascia indifferenti anche per la sua triste attualità.

  4. E’ raro che si tratti il punto di vista del carnefice, almeno mi sembra. Ed è una scelta coraggiosa perché si legge una storia disturbante dalla prima riga fino all’ultima e siccome questo carnefice è molto ben tratteggiato la sua figura vampirizza quella della vittima, che certo fa compassione ma tangenzialmente, perché tutta l’attenzione di chi legge è presa dall’uomo, dalle sue necessità, dalla sua animalità. Anche la liberazione è disturbante perché che sia la bambina a por fine a tutto è triste e angosciante. Del resto, la denuncia di solito non si fa a colpi di sorrisi, a volte una mazza è meglio. Storia dura e forte. Complimenti, gentile Patrizia 🙂

  5. Un racconto forte! Ho finito di leggere di getto e ora ho fatto un lungo sospiro. Di sollievo, e di soddisfazione! Brava per il finale: l’ho sperato fin dalla metà della lettura, poiché lui è troppo stronzo – per rimanere in linea col tuo linguaggio. Purtroppo il racconto non è solo finzione. Lo sappiamo tutti quanti. Speriamo che parlando e scrivendo si possa fare qualcosa per ridurre questi episodi orribili di sottomissione femminile, e che la violenza non generi altra violenza, sia pure legittima. Brava. in bocca al lupo!

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