Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “La musica del silenzio” di Elisabetta Innocenti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

   Mei si sveglia nel suo letto di vimini.

   Dalla finestra entra una brezza tiepida e leggera. Il profumo di fiori si sparge in tutta la stanza, dove le altre bambine, per fortuna, ancora dormono. Sempre assonnata, si sposta dal letto sulla sedia, con la sola forza delle piccole braccia – gli occhi a mandorla ancora chiusi come strette fessure in una tunica di seta nel volto ovale, i capelli neri e lisci arruffati sulle spalle.

   Mei ama il silenzio. Gira le rotelle in direzione della finestra, sperando che non cigolino troppo. Non ha ancora voglia di sentire gli schiamazzi e i gridolini acuti delle compagne. Tutte le volte, si deve tappare le orecchie e gridare a sua volta per farsi sentire.  

   E’ lì praticamente da quando è nata, dal giorno in cui i suoi genitori l’hanno dovuta abbandonare. Ogni giorno si chiede perché. Saranno stati poveri e avranno avuto tanti altri figli a cui badare.

   Menomale che quando arriva Lin, la nuova direttrice, cala il massimo silenzio; così, può tornare ai suoi pensieri in libertà: lei che corre a perdifiato in un prato, lei che coglie i fiori da mettere in un vaso di porcellana sul tavolo di cucina, sua madre che la ringrazia, suo padre che l’accarezza con mani ruvide. Si immagina i loro volti sconosciuti, lo sguardo dolce, il naso piccolo e leggermente schiacciato come il suo.

   Tante volte ha chiesto a Lin chi sono i suoi genitori, ma lei cambia sempre discorso; cerca di distrarla, raccontandole di quando era piccola e correva lungo il fiume col suo aquilone.

   Le piacerebbe così tanto costruirne uno e osservarlo mentre si agita nel vento, fino a toccare le nuvole.

   La direttrice si veste sempre di nero; forse perché, essendo piuttosto giovane, vuole essere rispettata. In effetti, è temuta da tutte, dalle bambine e, soprattutto, dalle inservienti, anche le più anziane; mentre Mei no, lei non ha paura. Riesce a conquistarla ogni volta con un semplice sorriso. Le basta essere tranquilla e ubbidiente come le è stato insegnato. Lin, nonostante lo sguardo severo, la ricambia con altrettanta calma e serenità.

   Mei si solleva appena sulla sedia con la sola forza delle braccia.

   Vuole vedere il sole sorgere e illuminare i fiori di loto che spuntano qua e là sul laghetto sottostante in un mosaico di colori; vuole respirare a pieni polmoni l’aria fresca, là, sulla collina di Hangzou. Da lassù si vede il grande Lago dell’Ovest che si estende assonnato nella valle a perdita d’occhio. Fra gli alberi, si intravede la Pagoda delle Sei Armonie. Quando il vento è particolarmente forte, Mei, ogni tanto, riesce a sentire il suono dei suoi numerosi campanelli, ma la vera magia è quando tutto tace, giù nella valle. Senza che lei se ne renda conto, il silenzio è un canto nascosto ma potente, come un richiamo che la raggiunge fin lì, fino al vecchio edificio della Casa Comune. Ogni volta che riesce ad avvertirlo, ha la sensazione che qualcosa presto cambierà nella sua vita.  

   Oggi è il giorno dei colloqui per le adozioni. Mei sa di avere meno possibilità degli altri, ma ogni volta spera di essere accolta in una vera famiglia.

   La penultima volta, hanno preso Bao, la sua migliore amica. Nove anni, proprio come lei. Tutte e due sono nate sotto il segno del Drago. Si ricorda ancora il suo sguardo, timoroso ma pieno di speranza, mentre la salutava. Mei ha pianto per una notte intera ma, il giorno dopo, Lin l’ha calmata dicendole che, un giorno, l’amica sarebbe sicuramente tornata a trovarla e, poi, avrebbe potuto scriverle delle lettere lunghissime. Da poco avevano pure comprato un computer e lei avrebbe potuto imparare a scrivere con la tastiera. Ha seguito il suo consiglio e, un bel giorno ha ricevuto un disegno di Bao: lei, sorridente e ben vestita, fra un uomo e una donna – in lontananza un bosco di baobab altissimi.

   Bao ha un particolare dono per il disegno; non come lei che riesce a malapena a disegnare una piccola pianta del tè o un gatto con gli occhi storti.

   Mei adora due cose: la musica e il silenzio. Entrambi racchiudono la stessa magia.

   La direttrice le ha insegnato le basi del Qin, uno strumento antico di almeno duemila anni, posto in orizzontale come una cetra. La bambina adora pizzicare delicatamente le corde con le dita della mano destra, mentre lascia scivolare gentilmente la sinistra. Gli accordi si alternano a pause di suono in un glissando melodioso.

“Brava, Nelumbo[1]!”le dice ogni volta Lin, cercando di nascondere la sua emozione.

   Oggi, Mei è piuttosto malinconica: le manca l’amica Bao, pensa ai suoi veri genitori.

   Perché, poi, gli altri possono camminare, mentre a lei tocca stare sempre seduta su quella sedia? Va bene, ha le rotelle, ma non sono come le gambe forti e robuste che hanno le altre! Con quelle sì che potrebbe correre sui prati ed essere veramente libera.

   Adesso, però, non c’è tempo per i cattivi pensieri! E’ l’ora dei colloqui.

   Si sposta lentamente verso la finestra. Sorride abbassando lo sguardo, come le hanno insegnato fin da piccola. Le sue compagne, invece, saltellano tutte intorno. Vogliono farsi notare dalle coppie estranee che entrano, una dopo l’altra, nella grande stanza.

   La maggior parte delle volte, in inverno, le mogli occidentali indossano la pelliccia oppure, durante la mezza stagione, una giacca e una gonna stretta fin sotto il ginocchio; le spose cinesi, usano vestiti tradizionali di seta o di raso; gli uomini, di qualsiasi origine e provenienza, portano preferibilmente abiti scuri o grigi, qualche volta, con la cravatta o un papillon – una specie di farfalla di stoffa.

   Mei si affaccia alla finestra. Non sente più gli schiamazzi delle compagne. Ammira soltanto il Feng Huang – la Montagna Gialla – in tutto il suo splendore, poco prima che tramonti il sole.

 

*

 

Io sono nata nella Terra di Mezzo, meglio nota come Cina, nei dintorni di Changshu, in un vasto territorio costeggiato dal Mar Giallo ad est e attraversato dal fiume Azzurro a sud, al confine con Shangai.

Sono la più piccola dei Chen, dopo i miei fratelli: Long e Jie.

La nostra era una famiglia modesta, ma dignitosa. Mio padre lavorava per ore in campi sconfinati che non gli appartenevano; ogni sera, ritornava esausto e bruciato dal sole. Se solo qualche volta provavo a rivolgergli la parola, mi azzittiva con lo sguardo.

Mia madre – esempio perfetto di sottomissione e rispetto – si occupava in prevalenza dei lavori domestici, aiutata da mia nonna che procedeva a fatica fra le mura domestiche a causa dei “piedi di loto”, fasciati accuratamente sin dalla tenera età.

I miei doveri erano andare a scuola e cucinare. Sin da piccola, conoscevo gli alimenti ying – femminili – umidi e teneri, e gli alimenti yang – maschili – fritti e speziati; così, un giorno, sarei diventata una donna da prendere in sposa. Il matrimonio doveva essere per sempre; meglio se con uno sposo benestante e scelto dai genitori.

Da bambina, io non pensavo al futuro; semplicemente adoravo la libertà e osservare la natura in tutta tranquillità ma, con una famiglia così all’antica, non era così facile neppure allontanarsi da casa. L’unico modo era fermarsi all’andata e al ritorno da scuola.

“Muoviti, sorella!” mi gridavano, una volta Long, una volta Jie, quando mi attardavo a ritornare a casa. “Sennò chi lo sente nostro padre!”

Invece di ascoltarli, estraevo il mio aquilone ben piegato nel sacco dei quaderni e delle matite e correvo facendolo volare lungo il fiume. Mi sentivo così felice quando lo guardavo sollevarsi e resistere al vento forte. Mi sentivo così libera quando mi scompigliava i capelli!

Il più delle volte il sole mi accecava; io mi stropicciavo gli occhi e il povero aquilone perdeva quota ma, dopo un po’, si risollevava vibrando lassù in alto, in cima al filo.

Un giorno, allo stagno, guardavo le canne di bambù agitarsi nella brezza del mattino. Il loro movimento produceva un fruscio leggero, a intervalli regolari: silenzio e suono, suono e silenzio.

Mi avvicinai e raccolsi una piccola canna, come una sorta di cannuccia, spezzata dal vento. La osservai con attenzione e cominciai a soffiare nella cavità, prima debolmente, poi con tutta la forza che avevo. Uscì un suono cupo e ovattato, niente di particolare, ma per me fu come una rivelazione. Avevo scoperto che la natura, oltre a offrire grandiose immagini di bellezza, specialmente all’alba e al tramonto, poteva riprodurre suoni che richiamavano la vera essenza della vita. Avevo scoperto l’incanto della musica.

“Mamma, io voglio suonare uno strumento!” dichiarai con tono grave, appena rientrata a casa. La mia espressione sarà stata davvero molto convincente, perché mia madre mi prese subito sul serio, commentando che, sì, mi capiva, perché anche lei da ragazza aveva suonato uno strumento, come sua madre e sua nonna e generazioni di donne prima di loro, ma che adesso era chiuso in una scatola polverosa nella rimessa perché, col matrimonio e i figli, si sa, non c’è più tempo da dedicare alle proprie passioni.

Insistetti talmente tanto che, il giorno dopo, lo strumento a corde, ben ripulito e lucidato, fu posizionato in bella mostra in un angolo della cucina, l’unica stanza che avesse ancora un po’ di spazio disponibile nella nostra umile casa.

Nonostante le proteste di mio padre e dei miei fratelli, la parte femminile della famiglia ebbe la meglio, almeno in quell’occasione. Mi sembrò di capire che mia madre avesse pure minacciato mio padre di una strana forma di sciopero notturno. Allora, non capii bene cosa intendesse, ma accettai di buon grado la sua docilità inconsueta.

Passavo delle ore a esercitarmi, con l’aiuto di mia madre o di mia nonna. Ogni volta che suonavo, rimanevo sorpresa da quelle armoniose melodie, come se una forza superiore mi guidasse.

Ogni tanto, però, fra un’esercitazione musicale e la preparazione di un nuovo piatto, riuscivo ad allontanarmi verso la campagna. Correvo a perdifiato lungo le risaie per raggiungere le mie amiche Hua e Jian. Giocavamo sempre in disparte. Non ci era permesso familiarizzare con i maschi, finché, un giorno, mio malgrado, conobbi Huan Wang.

Era un ragazzino di qualche anno più grande di me, alto e smilzo, che faceva volare, pure lui, il suo aquilone. Era cinese, ma aveva la pelle più chiara e gli occhi di un blu intenso come se qualche suo lontano parente provenisse dai paesi remoti del Nord Europa.

Sfoggiai il mio aquilone con orgoglio. Avevo costretto Jie – l’unico artista della famiglia – a disegnarvi un drago rosso – chiamato Long, proprio come il nome di mio fratello maggiore – segno di coraggio, saggezza e fortuna. Huan, invece, vi aveva disegnato un fiore giallo, simbolo del centro e dell’equilibrio. Seppi, poi, che suo padre lavorava come giardiniere presso una ricca famiglia della zona e aveva educato il figlio ad amare i fiori e la terra.

Fra impegni e giochi, il tempo passava e noi crescevamo senza rendercene conto finché, lentamente, i miei sentimenti verso Huan, e i suoi verso di me, cambiarono. Un giorno notai che i suoi brufoli erano scomparsi, un altro che aveva messo una leggera peluria sul viso. Stava diventando un uomo, fra l’altro molto atletico e attraente. Io ero piccola e piuttosto magra ma – dicevano – avevo la pelle di ambra, le guance morbide come polpa di pesca; le labbra, rosse e carnose, sembravano un fiore di ibisco, il naso era piccolo e ben fatto e il seno stava ancora crescendo. Notavo che i ragazzi che in passato mi passavano a debita distanza, magari facendomi una smorfia o lanciandomi dei sassi, adesso mi guardavano con particolare attenzione.   Io abbassavo gli occhi senza dare loro soddisfazione, come mi era stato insegnato ma, a dire il vero, quando Huan mi sorrideva, mi faceva talmente piacere che arrossivo senza pudore.

Ormai, ci incontravamo quasi tutti i giorni, io e lui da soli, sulla collina di Changshu.

Da lassù, il mondo era ai nostri piedi. Amavamo parlare del più e del meno, di come passavamo le ore nelle rispettive scuole e, soprattutto, dei nostri sogni. Huan, in particolare, raccontava di luoghi lontani che avevano conosciuto i suoi avi e che intendeva visitare lui stesso. Parlavamo del nostro futuro, di quando saremmo andati, insieme, alla scoperta del mondo. Io avrei studiato musica e avrei insegnato ai bambini della scuola elementare; lui avrebbe studiato economia e avrebbe contribuito allo sviluppo della Grande Cina.

Mia madre si era accorta che qualcosa era cambiato in me. Ero diventata distratta e un giorno mi parlò seriamente dicendo di fare attenzione ai ragazzi. Io le confidai il mio sentimento e lei disse che, sì, lo comprendeva, ma io, bella com’ero, potevo meritare un partito migliore e non un semplice figlio della terra. Se mio padre si fosse accorto dei nostri incontri, poi, mi avrebbe immediatamente spedito da suo fratello e dalla moglie a Shangai, e non l’avrei più visto.

Le sue parole furono come foglie d’autunno, portate via dal vento dell’ovest.

Non solo non ascoltai il suo consiglio ma continuai a vedere Huan in modo sempre più assiduo.

Una sera di fine settembre, poco prima del tramonto, ci trovammo di nuovo sulla nostra collina; mi accorsi subito che il suo sguardo era diverso, pieno di amore e desiderio.

Ci sedemmo sul nostro giaciglio, fatto di rami e foglie, seminascosto fra gli alberi di betulle, le cui abbondanti chiome fremevano nel vento. Io sentivo il pulsare della terra, il respiro degli alberi, come se avessero avuto un’anima; poi, una quiete improvvisa, come se tutte le cose intorno a me si fossero fermate, lì, in quel momento.

Huan si avvicinò e mi offrì una rosa. Era color cremisi, lo stesso colore del coraggio e della felicità.

“Questa è per te.” sussurrò disponendola con delicatezza fra i miei capelli scuri, lisci come seta.

Immagino che il rossore delle mie guance si confondesse col colore purpureo del fiore e, ancora di più, del cielo che volgeva al tramonto. Non ce la feci a dire di no.

Quella sera, prima di lasciarci, mi disse che, se mai un giorno ci avessero separati, una volta raggiunta la maggiore età, lui si sarebbe recato ogni primo giorno dell’ anno, a mezzogiorno preciso, alla Testa del Vecchio Drago, presso la piccola città di Shanhaiguan, proprio nel punto dove la Grande Muraglia incontra il mare.

Allora non capii il senso di quelle parole, mentre adesso le conservo nel mio cuore come pietre preziose.

Il tempo passava e noi ci incontrammo ancora qualche volta sulla collina di Changshu. Dopo alcuni mesi mi accorsi che qualcosa stava cambiando in me. La nausea della mattina e le mie insolite rotondità chiarirono qualsiasi dubbio. Pur con vergogna, lo dissi a mia madre, che ne parlò a mio padre. La sera stessa, partimmo per Shangai, dove agli zii fu ordinato di tenermi segregata fino alla nascita del bambino.

 

La levatrice arrivò di notte. I dolori erano talmente forti che credetti di morire.

Il parto era tra i più difficili mai visti: il bambino era podalico, la ragazza non ce l’avrebbe mai fatta… dicevano, credendo che non li sentissi; invece andò tutto bene.

La mia bambina, Mei, aveva sofferto durante il parto, ma il suo volto, rotondo come una mela, era la cosa più bella che i miei occhi avessero mai visto.

Mentre l’allattavo, anche se mi mancavano Huan e la mia famiglia, ero di nuovo felice!

Purtroppo, però, una mattina, appena mi svegliai, allungai la mano sulla culla per accarezzarla e la bimba non c’era più. Al suo posto c’erano i miei genitori che mi guardavano dall’alto in basso.

“Dove l’avete portata?” chiesi con un filo di voce.

“Non piangere, figlia mia…” esclamò mia madre con gli occhi lucidi “… l’ abbiamo fatto per te.”

“Preparati. Torniamo a casa!” esclamò mio padre, con tono deciso.

Fu come se fossi morta in quel momento. Gridai, piansi, continuai a chiedere dove l’avessero portata, ma loro si allontanarono, senza fiatare, verso la porta di uscita. Mio padre strattonava mia madre e le ordinava di tacere premendole l’indice sulla bocca.

Quando ritornai a Changshu, corsi a casa di Huan, bussai più volte alla porta, ma nessuno mi aprì. Una donna anziana si affacciò a una delle finestre del primo piano e, con un filo di voce fra i denti radi, disse che la famiglia per cui lavorava il Sig. Wang si era trasferita a nord portando con sé il giardiniere, con moglie e figlio a carico. Chiesi quale fosse la destinazione, ma non fu in grado di rispondermi. Provai a chiedere ad altri vicini, ma nessuno sapeva niente. La famiglia Wang era scomparsa nel nulla!

Tornai a casa con la morte nel cuore. Salutai a malapena i miei fratelli, che mi guardarono rattristati, salutandomi con un cenno della mano. Ormai non ero più pura. Mio padre a stento mi parlava. Mia madre e la nonna, invece, si rivolgevano a me con insolita dolcezza, ma il mio unico pensiero era solo per Mei, mia figlia. Mi chiedevo dove si trovasse, immaginavo il suo volto, il suo carattere. Immaginavo somigliasse a me bambina.

Rimasi chiusa in casa per mesi. Non riuscivo più neppure a cucinare.

Ormai non suonavo più il Guqin. Ogni volta che sfioravo le corde, era come se mi ferissi le dita; finché un giorno, mentre passeggiavo vicino allo stagno, sentii le canne di bambù muoversi di nuovo nel vento: silenzio, suono, suono, silenzio. In quell’esatto momento, ebbi la chiara visione di quello che dovevo fare.

Ripresi a suonare e cominciai a seguire lezioni di solfeggio. Subito dopo, iniziai a frequentare un corso di educazione dell’infanzia. Adoravo i bambini e, poi, sentivo che solo così mi sarei potuta avvicinare a mia figlia.

Erano passati quasi sette anni, ma io non avrei mai smesso di cercarla e, ne ero sicura, prima o poi, l’avrei trovata. Fosse stato pure dopo venti di anni!

Nonostante le proteste dei miei, mi trasferii definitivamente dagli zii, non certo per ringraziarli, ma perché mi offrivano una stanza, un piatto di riso e una tisana al giorno pagando una minima quota. Trovai un lavoro part time in un negozio di abbigliamento in centro e, intanto, la sera e parte della notte, studiavo. Non ero certo fatta per il caos cittadino, ma riuscii ad adattarmi e a laurearmi.

Ogni tanto andavo a trovare i miei. Anche se ce l’avevo con loro per quello che avevano fatto, in fondo, erano pur sempre la mia famiglia.

Purtroppo, la nonna ci lasciò una mattina di novembre, quando io ero in città. Aveva compiuto da poco i novanta anni. Dissero che aveva appena preso il suo solito tè verde con i dolci della Luna di Taiwan quando la trovarono riversa sul tavolo, con un’espressione serena sul volto.

Subito dopo il funerale, mi avvicinai a mia madre e le porsi un fiore di Loto, che avevo colto sulla riva dello stagno. Era bianco – il colore del lutto e, al tempo stesso, della purezza – con delle leggere venature viola al centro – come segno di armonia.

“Ti prego, mamma. Te lo chiedo per l’ultima volta, in nome della nonna! Dove hanno portato Mei?”

Lei si voltò con gli occhi pieni di lacrime e mi sussurrò qualcosa nell’orecchio, facendo attenzione a non essere vista da mio padre.

Le misi il fiore fra i capelli e l’abbracciai.

Finalmente, un giorno, l’ho ritrovata! Non ho avuto ancora il coraggio di parlarle ma, adesso che è già un po’ che sono qui come direttrice, penso che sia giunto il momento di dirle che sono sua madre. Oggi è il giorno dei colloqui per le adozioni e Mei, come al solito contempla la Montagna Gialla in silenzio. La osservo, preoccupata e, al tempo stesso, sollevata. Mei non riesce a camminare, ma è come se avesse le ali! Quando la guardo, è come se vedessi me bambina. Ha lo stesso amore per la natura e la stessa fiducia nella vita che avevo anch’io. Riesco a vedere anche la somiglianza con Huan: gli stessi occhi blu come il mare di notte, le stesse ciglia lunghe, morbide come il velluto.

Lei è il mio fiore di Loto, la mia purezza… non posso aspettare oltre! Mi avvicino e glielo sussurro, nell’orecchio. Lei si volta verso di me, non troppo sorpresa, e mi getta le braccia al collo.

“Madre… lo sapevo!”

Mentre asciugo le sue lacrime, grido con una gioia incontenibile: “Presto conoscerai anche tuo padre. Il viaggio sarà lungo e difficile, ma.. pensa… amore mio… appena arriveremo… non ci sarà bisogno di parole. Ascolteremo la Musica del Silenzio, proprio dove la Grande Muraglia incontra il mare, e faremo volare gli aquiloni, su in alto, fino a toccare le nuvole!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Fiore di loto

Loading

12 commenti »

  1. Bello, toccante, commovente. L’ambientazione orientale è un valore aggiunto. Il racconto non avrebbe avuto la stessa potenza se la storia si fosse svolta in occidente.
    Brava Elisabetta.

  2. Grazie Fabrizio!

  3. Delicata come una parete in carta di riso, come un sottile segno d’inchiostro ma al contempo forte come il suo messaggio. Un racconto che ha “in nuce” un romanzo che mi piacerebbe leggere. Complimenti.

  4. Avevo già pensato a scrivere un romanzo. Adesso forse lo faccio davvero! Grazie Monica

  5. Concordo sulla delicatezza del racconto e sul valore aggiunto dall’ambientazione. Mi è piaciuto molto anche fare un salto indietro nel passato per poi giungere al momento in cui si svelano i legami. Complimenti Elisabetta!

  6. Spero che non il segreto non si sveli troppo presto. Grazie Silvia!

  7. Brava Elisabetta, atmosfera e storia coinvolgenti, delicate, commoventi. Vorrei esserci, lì dove la Grande Muraglia incontra il mare, per vedere gli aquiloni volare…

  8. Sarebbe bello davvero! Grazie Ester!

  9. Anch’io vorrei esserci.Grazie Ester!

  10. Delicato, commovente e piacevole da leggere. Complimenti Elisabetta.

  11. Ti ringrazio Pasqualina.

  12. Piacevole e coinvolgente. L’ambientazione cinese è perfetta. Complimenti.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.