Via dell’Ascensione è una breve strada che collega l’omonima piazzetta con la trafficata e importante Riviera di Chiaia.
Prima della guerra a Via dell’Ascensione si trovava un palazzotto di tre piani dove nacquero Titina, Peppino ed Eduardo De Filippo. Le bombe alleate ne fecero crollare un’intera ala e il tetto. Alla fine degli anni ’40 l’ingegnere M***, titolare di un’impresa di costruzioni, riuscì ad avere una concessione edilizia per demolire il vecchio fabbricato e costruire, acquisendo un’area confinante, un palazzo a tre corpi di fabbrica, quello al centro più basso a due piani mentre quelli laterali di quattro piani più il piano ammezzato.
Il lato di ponente si affacciava (e si affaccia tuttora) sui verdeggianti giardini di Villa Pignatelli. Ricordo ancora l’anziana principessa Rosina Pignatelli che, a metà anni ’50, usciva nel primo pomeriggio delle giornate di sole per una breve passeggiata al braccio del suo ultimo maggiordomo. Morì, credo, proprio nel 1955 dopo aver donato la Villa allo Stato italiano perché fosse trasformata in un museo destinato a perpetuare il nome del marito, il principe Diego Aragona Pìgnatelli Cortes spiazzando, così, gli avidi nipoti, intenzionati ad abbattere e lottizzare la magione del casato. A Nord il parco confinava con un vetusto palazzo risalente alla fine del ‘700, residenza dell’estinta famiglia dei marchesi Del Carretto.
Rispetto alla colata di cemento che cominciava a coprire con osceni fabbricati le colline del Vomero e dei Colli Aminei, il progetto del Parco Ascensione (così era chiamato comunemente il complesso edilizio) era più dignitoso. Non solo fu realizzato un esteso parcheggio sotterraneo con box per ogni condomino, come nei moderni edifici europei, ma fu anche assicurato un ampio spazio verde davanti allo stabile conservando i preesistenti alberi d’alto fusto, alcuni quasi secolari ossia un imponente ippocastano, una maestosa magnolia e un paio di ombrose querce dalla grande chioma.
Un ricordo un po’ spiacevole è legato all’ippocastano a causa dei fastidiosi bruchi verdognoli annidati in tarda primavera sulle foglie dell’albero. Accadeva che, cadendo dal ramo, te ne trovavi uno depositato sul colletto della camicia o, di colpo, sulla mano. Le ragazze del parco Ascensione lanciavano inorridite un gridolino quando un vermiciattolo si depositava sui capelli della loro testolina. Capitava di schiacciarne qualcuno sul terreno battuto dei vialetti; allora si correva a lavare la suola con l’acqua della fontanella accanto alla guardiola.
In quella strada, costellata all’inizio di tre-quattro “bassi” dimoravano stipate in poco spazio senza luce, le tipiche famiglie del popolino napoletano chiassose e affollate di bambini. Il pomeriggio, avevo otto-nove anni, scendevo per andare a piazzetta Ascensione e, passando davanti a quei locali bui e fumosi, guardavo i loro “scugnizzi” con un mal represso senso di colpa, consapevole di essere un ragazzino più fortunato di loro. Poi mi allungavo nel vicolo per comprare liquirizie e pezzetti di cioccolato esposti sulla bancarella collocata davanti un terraneo.
A seconda della stagione risuonavano le “grida” dei venditori ambulanti: il favaro, il cozzicaro, i venditori di gelsi e fichi d’india, il castagnaro ecc. D’estate era attesa con ansia la “voce” che, da un carrettino a pedali, lanciava con sonora intonazione il leggendario Gigino, sudato e fiero nella sua candida giacca gallonata: “Gelaaàte…, gelaaaaaaà…”. E allora tutti correvamo a chiamare le mamme perché si affacciassero ai balconi o alle finestre e lanciassero la moneta da venti lire per acquistare un cornetto ripieno di crema al cioccolato e alla vaniglia o il sorbetto al limone e fragola o alla menta. “Mamma, fai presto. Lo senti? Gigino sta arrivando al cancello…”. Provo non poca nostalgia nel rievocare i “richiami” di quei commercianti allo sbaraglio. Domenico Rea affermò che le “voci” dei venditori ambulanti sono forse il capitolo “più bello, il più immaginoso, spontaneo, vivo, il meglio della poesia dialettale e analfabeta”, convinto che “dalle rudimentali voci degli erbivendoli, acquaiuoli, polipai, vendicanestre e persiane, che sono stati i primi autori di una barbara forma di canzone, sia originata la canzone napoletana propriamente detta”. Erano gli anni ’50, una Napoli ancora poco urbanizzata. Voci scomparse, di una Napoli che se n’è andata con il boom economico degli anni ’60.
La mia famiglia, di origine pugliese, si trasferì a Via dell’Ascensione nel 1953, se la memoria non mi tradisce, dal quartiere Pendino. Abitavamo in un edificio in Via Scherillo di proprietà delle Generali. I miei erano giunti da Bari alla fine della guerra avendo assunto mio padre la direzione della filiale napoletana della ditta La Rocca, un’azienda produttrice di alimenti in scatola. Sarei tornato più volte per alcuni anni nel vecchio appartamento, dove continuarono ad abitare mia nonna materna, Giovanna De Palma, e mio zio Bepi. Indimenticabili i tragitti con mia madre in tram dalla Riviera di Chiaia fino al Rettifilo, dove scendevamo all’ultima fermata prima di Piazza Garibaldi in occasione della consueta visita settimanale alla nonna. Quando questa morì nel 1957, terminarono quelli che per me erano quasi dei piccoli viaggi. Ed ecco perché, ancora oggi, mi torna in mente l’ottocentesca immagine della vecchia Stazione Centrale – che sbirciavo da lontano – ben più gradevole della facciata dell’attuale stazione, orribile con le sue moderne pensiline fredde e grigie.
Una fotografia in bianco e nero della metà degli anni ’50 mostra gli adolescenti di allora in costume carnevalesco: Alberto e Olga P***, Mirella H*** (una ragazza biondissima di origini norvegesi), Elio e Giovannella T***, Giorgio B***, mia sorella Anna Maria e mio fratello Giorgio, Giovanna C*** con il suo chiacchierato fratello dalla “dolce vita” e altri. Io ero tra i più piccoli e mi sentivo come un cucciolo tra quelli più grandi. Per distinguermi dall’altro Elio mi chiamavano “Elio piccolo”. Ebbi anche altri soprannomi per i miei tratti alquanto infantili: una delle amiche di mia sorella mi disse “Ma lo sai che sei proprio un bel ragazzino…”. Io, con lo stupore attonito del deficiente, risposi che “No, non lo sapevo”. Non so se dicesse sul serio.
A otto anni capii cos’era “Lamerica”. Abitavamo già da un paio d’anni quando un ufficiale della base Nato e la sua famiglia affittarono l’appartamento del piano di sotto. Uno o due mesi dopo il loro insediamento salì sua moglie e chiese a mia madre, che masticava un po’ d’inglese, se suo figlio piccolo poteva giocare con me. Eravamo coetanei e subito facemmo amicizia. Dicki, così si chiamava, aveva giocattoli fantastici come il trenino elettrico o una macchinina a pedali con le luci. Ci esprimevamo a gesti e con qualche parola anglo-italiana. Ad ogni modo, il ricordo più bello è la goduria indescrivibile che provavo nel divorare le enormi fette di torte multistrato con la glassa al cioccolato e crema alla vaniglia, come quelle che si vedevano nei fumetti di Topolino, preparate dalla mamma del mio amichetto. Altro che “madeleinette” di Proust! Giocavamo, talvolta, sul balcone con la sabbia contenuta in una specie di piccolo recinto in legno talché, quando tornavo a casa, mia madre doveva lavarmi sotto la doccia come una vongola da spurgare. Rientrarono negli Stati Uniti nel 1958 o nel 1959, potrei sbagliarmi però. Non ho mai più rivisto Dicki.
Non ci feci caso all’inizio. Poi quando avevo già 11-12 anni, mi accorsi con sorpresa che Villa Pignatelli era popolata da molti uccelli. Mi abituai ben presto al loro canto di commiato al sole che tramontava, nonché al loro pigolio mattutino prima del sorgere del sole. Quando dalla serranda socchiusa penetravano le prime luci del giorno, si levavano i primi cinguettii di merli e passeri. I sogni finivano all’alba. L’incantesimo si spezzava quando mio padre, prima di uscire per andare al lavoro, entrava nella camera da letto condivisa con mio fratello e ci svegliava alzando rumorosamente la persiana con la solita, spietata frase: “Sveglia ragazzi, a scuola che è già tardi”. Insomma, ogni mattina era uno strazio lasciare la soffice alcova notturna. Alle elementari andavo a scuola accompagnato dalla domestica, perché mia madre non si fidava. Poi, giunto alle medie saltando la quinta, alla Fiorelli ci andavo da solo, ma quasi sempre con un sottile senso di nausea.
Spesso, da grandicelli, parliamo dei primi anni 60, giocavamo a pallone “all’americana”, nella discesa che portava ai garages. Uno di noi a turno in porta mentre due squadrette formate almeno da tre elementi si contendevano il superflex. Una sfacchinata improba che alla fine stroncava le gambe tanto che mia madre doveva massaggiarmi i muscoli doloranti. Si organizzavano anche corse di lunga durata, soprattutto dopo le Olimpiadi di Melbourne del 1956 quando Baraldi vinse la medaglia d’argento nei 1500 metri. La fine della scuola era avvertita da noi del gruppo come il 25 aprile dei ragazzi: il primo pomeriggio di libertà dai compiti era sontuosamente celebrato da interminabili partite di pallone bagnate da gazzose, aranciate e ghiaccioli all’arancio o alla fragola. Alle sette passate di sera, quando il sole filtrava ormai tra i rami più bassi (non c’era ancora l’ora legale in quegli anni), mia madre si affacciava dalla finestra del terzo piano, dove abitavamo, per sollecitare me mio fratello Giorgio a risalire in casa: “Giorgio, Elio, non mi fate sgolare…salite a lavarvi che tra poco arriva babbo e si cena…” .
Un altro gioco di quando avevamo 8-12 anni era, come prova di coraggio, quello di entrare al buio, nei mesi invernali, nella lunga galleria dei garages, costeggiare la grande e rumorosa caldaia del riscaldamento centrale, raggiungere la parete in fondo alla quale era appoggiata un’arrugginita motocicletta MV coperta da ragnatele e fermarsi per qualche secondo nell’ultimo box dove giacevano materiali edili coperti di polvere e illuminati dalla fioca luce di un piccolo lucernario. Il ritorno alla luce di solito avveniva di corsa, a gambe levate, come se ci fosse un fantasma alle calcagna.
Un personaggio chiave di Via Ascensione 5 era il portiere, chiamato borbonicamente don Antonio. Era della provincia di Benevento, come la sua burbera moglie. Nacque in quel periodo Biagio, un bambino grassottello tirato su con sacrificio. Chissà perché quasi tutti i portinai di Napoli venivano dal Sannio o dall’Irpinia. I compiti di don Antonio erano molteplici tenuto conto della dimensione del parco, soprattutto nel contenere l’esuberanza delle giovani generazioni che volevano giocare a pallone o andare in bicicletta per ore e ore. Piombava come un falco quando ci accanivano contro le serrande metalliche dei garages producendo un inverosimile baccano. Le minacce di sequestro del pallone ci convincevano a smetterla.
A parco Ascensione abitava un’importante fettina di buona borghesia napoletana. Me ne resi conto solo molti anni dopo il nostro insediamento, quando raggiunsi l’età della ragione. Ma ne parlerò un’altra volta.