Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2019 “Sembra ieri…” di Mattia Mascagni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Ricordare è un verbo pesante, un atto di responsabilità verso sé stessi. Dimenticare, l’esatto opposto, un cappio da cui è impossibile liberarsi. Mia madre lo diceva sempre: “ricorda tutto, perché un giorno dovrai raccontarlo ai tuoi figli”.

Anche se avessi voluto scordare, sarebbe stato impossibile farlo.

All’epoca avevo otto anni. Già. Se per un bambino è più semplice fuggire dalle brutture del mondo, accedendo con facilità alla distrazione del gioco, per gli adulti non lo è affatto.

Questa sottile differenza che marca il territorio dell’età, l’avrei varcata presto, andando ben oltre. La nostra era una comunità tranquilla composta di diverse famiglie, tutte di estrazione contadina. La natura era il nostro pane; eravamo uno sparuto agglomerato dopo che gli uomini avevano deciso di unirsi ai coraggiosi partigiani, in lotta contro l’esercito tedesco. Ci avevano lasciati per combattere, la libertà era più importante. Non era mi chiaro il motivo di dovere imbracciare armi per sopprimere altri come noi, uomini che a loro volta avevano famiglie e figli…

Era l’autunno del 1944: la guerra sarebbe finita di lì a poco. Questa sensazione ho potuto solo constatarla per via dei fatti accaduti, mai provata in prima persona. Forse, è stato così per coloro che hanno vissuto nei grandi centri urbani. Per quelli come me, abituati ad abitare in zone impervie, il lume dello scontro brutale ardeva ancora e difficilmente riuscivo ad immaginarlo svampare, con uno sbuffo di fumo dolorante. La distanza dalla città e l’assenza di informazioni ci avevano tagliati fuori da tutto. Era come un brutto sogno, uno di quelli che ti fanno sudare per l’agitazione e gridare per la paura; ma, per fortuna, era possibile allontanarlo, una volta aperti gli occhi.

Mio nonno, troppo vecchio per scappare dalle bombe ma ancora abbastanza arzillo per sperare in un mondo migliore, era il solo uomo adulto rimasto. Immaginava un mondo di pace, un mondo che non avrebbe visto. Ciò non lo preoccupava. Lo faceva per me. Era lui, infatti, a raccontarmi storie con l’unico scopo di tenere alla larga dalla mia testa il timore di ciò che avrei incontrato, una volta cresciuto. Le sue parole erano permeate di magia, la sua voce ruvida in grado incantarmi, portarmi altrove, lontano, regalandomi favole che non sapevo nemmeno potessero esistere, talmente erano belle. Mio nonno sapeva fingere: non capivo perché lo facesse. Era stato lui ad insegnarmi che chi finge, in realtà, mente. E lo ricordo come fosse ora quando nel cuore della notte venivamo svegliati di soprassalto dai fischi e i boati delle bombe che cadevano dal cielo come una pioggia di morte. Ricordo ancora il suo viso colmo di lacrime mentre se ne stava assorto alla finestra, cercando di scorgere qualcosa nel plumbeo cielo notturno. Però, accorgendosi della mia presenza, mi guardava e sorrideva – Mi sono sbagliato, – diceva – è solo il temporale. – Non c’era traccia di pioggia. Non ne avvertivo il rumore, l’odore, e al mattino, una volta uscito, i miei piedi incontravano la terra nuda; fredda, leggermente umida ma non zuppa d’acqua.

Eravamo poveri. Per carità, avevamo le scarpe ma le usavamo soltanto quando faceva particolarmente freddo, durante i mesi più rigidi dell’inverno. Ne avevamo un paio a testa quindi non potevamo rovinarle. Nel caso si fossero rotte avremmo dovuto fare senza – come quelli di Faenza – diceva mio nonno. Con l’avanzare degli anni faceva sempre più fatica ma non resisteva al richiamo del bosco. A volte ansimava e tossiva come un motore ingolfato, e quando camminava, sembrava di sentire il cigolio delle giunture delle sue ossa. Ciò che mi tranquillizzava era il suo stato di grazia. Le sue frasi assomigliavano più a quelle di un santo, qualcuno capace di intuire qualcosa che difficilmente altri riescono a intravedere. Che fosse un angelo in terra? Più volte me lo sono chiesto: per me, sì.

Non ero l’unico bambino. Aldo era più piccolo di me di un anno. Suo padre, insieme al mio, era partito come alleato dei partigiani. Suo padre, come il mio, non fece mai ritorno.

Mio nonno ci teneva per mano, sempre attento a dove poggiavamo i piedi. Quel pomeriggio aveva ancora il sapore dell’estate. Il bosco ci aveva accolto. Era bello camminare fra le prime foglie secche, calpestarle era come ascoltare il crepitio del fuoco, e sotto, il manto di erba soffice solleticava la pelle. Ci fermammo in un punto preciso, dietro alcuni cespugli. Davanti a noi un piccolo spiazzo a forma di mandorla con al centro il tronco di un vecchio albero spaccato, in buona parte, per la caduta di un fulmine. Il legno era nero e lo spazio abbastanza grande da poterci passare attraverso. Non avevo mai sentito così tanto silenzio. Era come se il bosco respirasse piano. Un gatto era sbucato dalla vegetazione. Era ancora un cucciolo. Strattonai leggermente il braccio di mio nonno, lo supplicai di prenderlo per non lasciarlo lì, tutto solo, ma la mia goffaggine provocò lo sfregamento delle foglie, allarmando il felino che, con un balzo, attraversò la cavità dell’albero abbrustolito. L’animale che ne uscì dall’altra parte era diverso: il colore era il medesimo e la punta bianca sulla coda era al suo posto. Era lo stesso gatto, ma cresciuto. Non era più cucciolo, ma un gatto adulto. Io e Aldo restammo a bocca aperta. Mio nonno sorrideva. Allora è tutto vero, pensai, le favole che mio nonno racconta sono vere. Noi bambini, uomini con un futuro incerto, eravamo stati testimoni di qualcosa che non può essere creduto se non visto in prima persona.

Eravamo di ritorno sul sentiero quando nel fare il passo successivo a quello appena mosso, mi sentii strattonare indietro. Mio nonno ci lasciò in mezzo all’erba alta. Non si era mai comportato così, anche se presto avrei appreso la ragione del mutamento che avevo avvertito in lui. Con l’ultimo slancio che gli era rimasto nei muscoli, ormai troppo stanchi e consumati dagli anni, si era gettato su un uomo, ribaltandolo a terra. Le donne erano tutte in preda alla paura, una accanto all’altra. Il silenzio, poi uno sparo. Io e Aldo ci avvicinammo pensando che tutto fosse finito, invece, lo sconosciuto si era rialzato mentre mio nonno giaceva a terra. Nel petto c’era un foro, il sangue aveva macchiato l’erba. Il soldato tedesco non si era accorto di noi; i miei occhi, increduli, cercavano quelli di mio nonno. Era ancora vivo. Nell’ultimo alito di vita rimasto, tenuto a stento fra i denti stretti, ebbe il coraggio di sussurrare – è tutto per finta – poi mi sorrise mentre i suoi occhi color nocciola, umidi di dolore e lacrime, perdevano l’anima. Al grido di mia madre il soldato rispose con una raffica di colpi, uccidendo così le donne riunite come pecore destinate al macello. Aldo prese un sasso e lo sferrò con tanta forza da colpire il soldato alle tempie. Fu allora che incontrai i suoi occhi: non c’era gentilezza in quello sguardo freddo come la morte. Il suo viso era così pallido e lattiginoso che il sangue che lo ricopriva, aveva dipinto nella realtà il mostro che si nascondeva dietro la maschera. Aveva puntato l’arma contro di noi e premuto il grilletto. Per nostra fortuna, i proiettili erano finiti e da quel che potevo vedere, non aveva altre munizioni. Fu Matilda a gettarsi su di lui, colpendolo alle spalle, ripetutamente, con i pugni chiusi. Lei si era salvata dalla mattanza, era rimasta nascosta dietro la stalla. Venne scaraventata a terra da uno schiaffo talmente forte che, dallo schiocco, credevo le si fosse rotto il collo. Invece no, era ancora viva, la vedevo respirare. Pur essendo un bambino, Aldo non ci pensò due volte, corse verso di lei e si gettò sopra il suo grembo per farle da scudo con il proprio corpo. Dovevo fare qualcosa: e la feci. Con tutto il fiato che avevo in corpo gradai – ti uccido! -, una frase che a mala pena potevo concepire nella mia piccola e inesperta testolina ma dopo ciò che avevo visto, nulla aveva più senso. Con uno sforzo dovevo trovare uno stratagemma che mi permettesse di fare ciò che avevo espresso quindi, per farlo, dovevo aggrapparmi alla magia, anche se mi era difficile. Dovevo credere perché se non lo avessi fatto, sarebbe stato come vedere morire il sorriso di mio nonno una seconda volta. Avanzava verso di me aumentando il passo, sentivo il peso dei suoi stivali sporchi di terriccio e vite spezzate rincorrermi. Era veloce; lo ero anch’io. Il tempo era cambiato. Il sole era come se si fosse spento e il cielo coperto di nubi, assomigliava più ad uno di quegli incubi che avevo imparato a tenere a bada. Man mano che correvo la pioggia aumentava. Era come se il bosco volesse aiutarmi a seminarlo, nascondendo il suono dei miei passi: non volevo. Non volevo che mi perdesse di vista perché, se fosse accaduto, sarebbe tornato indietro e solo Dio sa quali tormenti avrebbe inflitto a Matilda e al mio amico.

Mi ero fermato apposta, alle mie spalle il vecchio tronco annerito se ne restava immobile, complice silente di ciò che avrei fatto. Un tonfo nella terra trasformata in un grande pozza di fango lo aveva preceduto. Nemmeno la pioggia aveva lavato le colpe che si portava appresso e nel gelo dei suoi occhi c’era il desiderio perfido di farmela pagare. Avevo osato sfidarlo e lui era esattamente dove volevo che fosse. Prese la rincorsa, caricando con quanta rabbia gli gonfiava le vene del collo mentre il ghigno dipinto sul suo volto, ecco, quello è qualcosa che difficilmente può essere dimenticato. Le sue mani stritolavano il mio collo, mi aveva sputato in faccia. Credevo di perdere i sensi quando all’improvviso sentii che le forze ritornavano; le mie gambe erano più lunghe, le mie braccia più possenti. Stavamo lottando e mi resi conto che per lui c’era il rovescio della medaglia; viso scarno, braccia ossute, capelli bianchi. Riuscii a tramortirlo e una volta uscito, mi voltai a guardarlo. Ora quel mostro non faceva più paura, la sua cattiveria era diventata polvere dispersa dal vento, esattamente come era successo al suo scheletro. Da quella battaglia ne ero uscito vincitore. Ero diventato un uomo. Più o meno, potevo avere cinquant’anni. In seguito scappai, nessuno mi vide più.

Ricordo tutto con esattezza. Ripenso a coloro che ho amato ogni santo giorno e sorrido di malinconia. Spendere il resto della mia esistenza in solitudine, dandomi completamente al volontariato, è stata la scelta più giusta che io potessi fare; nessuno potrebbe credere a ciò ho visto e vissuto per colpa della guerra; quella maledetta ha seminato nelle persone sofferenza, paura e morte, ferite tanto profonde che nemmeno tutto il tempo del mondo potrebbe sanare. Nemmeno il vecchio albero sarebbe in grado di compiere un tale miracolo. Del posto in cui sono nato, oggi, restano soltanto case diroccate e rovi. La natura si è mangiata tutto e ha fatto bene, credo. Fra quelle pietre c’è stato dolore ma anche amore e penso che la magia di quel posto, in qualche modo, pur assurdo si intende, sia ancora là, ad attendere qualcuno in grado di affascinarsi davanti alle meraviglie del creato. Ora sono vecchio, molto. Nel bar della casa di riposo in cui ho deciso di finire i miei anni, io e i miei amici, fra una partita a carte e un tè, facciamo il gioco del “sembra ieri”, in cui ognuno si perde nei meandri della propria gioventù. Io non l’ho avuta: ho perso quarantadue anni per salvare la vita di due persone e il resto l’ho speso facendo del bene.

Ogni volta che è il mio turno, sorrido come faceva mio nonno e dico: – Sembra ieri che mi rotolavo nell’erba. Sembra ieri che giocavo felice. Sembra ieri…che avevo otto anni. –

 

 

 

 

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13 commenti »

  1. Salve a tutti, se avrete tempo di leggere il mio racconto, sarei lieto di ricevere un vostro riscontro o anche critiche costruttive. Grazie a chi lo farà.

  2. In questi tempi difficili, in cui Ricordare sta diventando fondamentale, ecco un pezzetto di Storia che ci aiuta a non dimenticare. Grazie.

  3. Mi è piaciuto: la narrazione è interessante, a metà fra cronaca storica e racconto fantastico, e la scrittura ha i registri della calma, dell’azione e della magia, con un po’ di malinconia.

  4. Grazie a lei per il tempo dedicato e l’apprezzamento, un caro saluto.

  5. Impiega tutta una vita per vincere (dentro di sé) il nemico. La gioia di aver salvato due persone e soprattutto di aver conservato il ricordo delle persone care, del nonno che continua a giocare in punto di morte e difenderlo dall’orrore dicendogli che è tutto finto… E dell’infanzia, del silenzio del bosco. Mi piace pensare dietro ci sia una storia vera. Grazie

  6. Ho letto con piacere questo tuo racconto che mi ha riportato alla mia infanzia e a certi racconti di mio padre. A che lui era un ragazzino quando c’era la guerra e me ne ha trasferito tutto l’orrore e la paura e anche il coraggio di chi, pur rimasto a casa, combatteva quotidianamte la sua battaglia contro la fame, la miseria, le bombe. Grazie.

  7. Un bel racconto commuovente ma realistico mi è piaciuto lo stile asciutto .I racconti di vita restano un grande esempio per tutti.

  8. Mi è piaciuto molto questo tuo racconto Mattia e mi è piaciuto ancor di più il messaggio.
    La tua storia dipinge un quadro terribile ma stupendo: la guerra non è riuscita a trasformare quel bambino di 8 anni in un uomo armato contro ogni possibile nemico ma ne ha fatto un messaggero di amore e pace nei confronti del prossimo. Anche noi potremmo dire sembra ieri… Le lotte studentesche, le lotte civili, le grandi speranze di una vita migliore e possibile…

  9. Un tuffo nel tempo e nella storia che oggi sembra solo una favola. Hai reso il passato un presente interminabile e di questo c’è tanto bisogno. Molto fluido e denso di immagini, vivide come le sensazioni che sono state evocate. Bello!

  10. Ricordare è davvero pesante ma dimenticare è troppo pericoloso. Mi piace come l’hai sviluppato. Bravo.

  11. Mi è sembrato di vivere la storia in prima persona. Una storia ben narrata e ben descritta. Il profumo dell’infanzia è trasversale a tutte le generazioni ed è quanto di più prezioso possiamo ritenere nella nostra memoria. Complimenti!

  12. Ringrazio per il tempo dedicato alla lettura del mio racconto e per i preziosi commenti. Grazie a voi tutti.

  13. Le prime cinque parole hanno una forza speciale, com’è giusto che sia un incipit che si rispetti e il seguito mantiene la promessa. Quello che più mi piace in questo racconto è il mescolarsi di un piano realistico e di un piano fantastico, sembra quasi che il tempo abbia deformato i ricordi donando loro un’aura irreale, quasi magica e scavandoli dentro. Questo mix per me è sempre un buon mix, perché lo scrittore racconta quello che gli altri non sanno o non possono vedere. Il suo racconto, gentile Mattia, mi ha fatto pensare ai drammatici personaggi distorti di Bacon, proprio in virtù di questo doppio piano. Complimenti di cuore!

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