Premio Racconti nella Rete 2019 “La bibliotecaria” di Alessandro Cirillo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Era la prima volta che la vedevo in biblioteca. Era una nuova bibliotecaria, perché d’allora cominciò a venire spesso.
Ci scambiammo qualche occhiata. Vestivo bene e lei era curiosa, voleva guardarmi meglio. Non tutti portano abiti che gli risaltano addosso.
Ci guardavamo ogni volta, con intenzione. Ci scherzai quasi per caso un giorno. Finì lì.
Giorni dopo parlammo a causa di un libro, per il quale avevamo riso. Era stato difficile reperirlo, e divertente: non mi era affatto necessario ma tutto il personale della biblioteca si era impegnato per concedermi la lettura in sede come se fosse assolutamente importante che il libro arrivasse a me.
Ci baciammo. Lei mi condusse al primo piano in un corridoio con stanze antiche che non venivano mai aperte. Spostò dei pannelli di legno di una panchina a muro e divennero una porta scorrevole che si apriva in un corridoio buio.
Mi prese per mano e mi condusse nell’oscurità. Accese la fiamma di un accendino per fare luce, mi baciò e mi trasse ancora a sé. Mi spinse via ridendo. Si alzò la gonna, non aveva le mutande.
Trasse fuori un coltellino e cercò di colpirmi, le bloccai i polsi e lei si strofinò sul mio bacino, stringeva i denti determinata a uccidermi, quasi un sorriso sotto i baffi.
La feci girare e le cadde il coltellino. La bloccavo, le sue braccia non mi sfuggivano. Le fui addosso contro il muro e le alzai la gonna. Mi sbottonai la cerniera e la scopai facendole il favore di venirle sulla pancia calda. Non osava gridare. Aveva perso.
Dopo quel giorno, la guardavo con aria di vittoria, lei uno sguardo assassino.
La incrociai per la biblioteca.
«Mamma me l’aveva detto di non fidarmi degli sconosciuti, gli avrei potuto fare del male» le dissi.
«Le mamme lo dicono sempre, ma se lo sconosciuto ha scelto il suo bambino prima o poi…» con il pollice tracciò una linea lungo il collo.
Sapevo che voleva uccidermi. Da allora non parlammo più. Mi guardavo le spalle. Ero curioso di sapere come ci avrebbe provato.
Passavano i giorni e ci lanciavamo sguardi rapidi ancora, con intenzione. Macchinavamo entrambi.
Lei mi piaceva. Sarei voluto venirle sulla pancia un’altra volta. La volevo bloccare sotto il mio corpo.
Pensai a come attirarla. Scelsi un altro libro difficile da procurarmi e chiesi specificatamente a lei aiuto. Non riuscivamo a nascondere i sorrisi maligni. «Senz’altro» mi disse.
Compilai freneticamente delle scartoffie e lei le depositò.
«Prego.» La feci andare avanti come fosse stato un gesto da gentiluomo.
Avevo controllato: la stanza in cui il libro giaceva nella sua vetrina era vuota.
Non c’era molta gente nella biblioteca. Se l’attaccavo al muro probabilmente non mi avrebbe visto nessuno.
Entrammo.
Lei al centro della stanza si girò verso di me. «Allora?» Mi sfidava.
Chiusi la porta alle mie spalle. Aspettavo che uscisse qualche arma. L’avrei bloccata e scopata di nuovo, esattamente come la prima volta.
«Mi vuoi scopare, vero?» Alzò la gonna ancora.
Non aveva armi, né mutande.
«Mi vuoi uccidere, vero?»
Fece spallucce e danzò per la stanza facendo svolazzare il vestito. Svelava le cosce lisce come bagliori a intermittenza.
Tira fuori il coltello, pensavo. Forza. Che aspetti.
«Questo è il tuo libro.» Lo prese dallo scaffale e me lo diede. Fece per andarsene ma la strinsi a me. Non ce la facevo più.
«Ah. Ah. Le regole…» mi rimproverò sorridendo. «Mi metto a urlare.»
La fissai qualche attimo e la lasciai scivolare via.
Siamo sul tetto. Non so nemmeno come ha fatto a portarmici. Vento freddo d’autunno e cielo grigio. Tira aria di pioggia.
Sono quasi impazzito in questi giorni. Sfogliavo per finta le pagine dei manuali e l’osservavo così a lungo da beccarmi gli sguardi beffardi degli altri ragazzi. Camminavo avanti e indietro, un caffè dopo l’altro, la scusa di andare alle macchinette o al bagno. Mi lavavo la faccia e mi guardavo allo specchio sperando che mi attaccasse alle spalle.
Niente.
Lei cammina lungo la balaustra. «Se mi prendi sono tua» mi dice. La percorre in punta di piedi, l’uno davanti all’altro.
Salgo anch’io. Ti prendo dalle spalle, penso, e poi… ti avrò.
Le sto dietro, lei si gira a guardarmi.
Si stende lungo la balaustra. Un ginocchio alzato, sembra una studentessa di un college americano. Ha il suo coltellino nero e lo agita nell’aria, provocante.
Le saltai addosso e la disarmai. Fu fin troppo facile, come fu fin troppo facile spingermi appena di lato per farmi volare giù.
In fondo lo volevo.
E lei non c’è più. Lei non c’è mentre passo per i corridoi sulla sedia a rotelle. Guardo dove sedeva e mi viene da piangere, o da sorridere. La gente sa che sono “quello che si è buttato” e mi evita. Poco fa avrei detto che me lo merito.
Lo sapevo in fondo.
Volevo morire. Volevo darmi la morte, lo sapevo in fondo, mi odiavo. Lei era perfetta per questo.
Il solo pensiero di lei, nuda, immobile mi dava l’adrenalina, mi permetteva di evitare di pensarci, pensare di uccidermi ogni qual volta me ne veniva voglia. Ma lo sapevo in fondo, quanto ancora avrei potuto evitare di uccidermi scopando un fantasma?
Di tutto questo me ne rendo conto mentre cado, non per ragionamenti o deduzioni, ma un’unica vera scintilla che mi esplode in testa come quando l’atomo esplose nel Big Bang e divenne l’universo.
Mentre rantolo a terra mi viene da ridere e scommetto che da fuori, tra le contrazioni doloranti del viso e le risa, ho un’espressione mostruosa, folle. Il pensiero mi fa ridere di più e mi fa male tutto. Potrei morire dalle risate. Morire per davvero dalle risate, penso e rido ancora.
Quando sono uscito dall’ospedale stavo peggio di un pezzo di merda sotto la suola di una scarpa da trekking.
A volte mi vorrei ammazzare ma non è facile su una sedia a rotelle. Tutti ti prestano attenzione e ovviamente, non ti puoi alzare. Qualche volta lo ritengo un vantaggio, la vita non è sempre così male, anche da una sedia a rotelle. Mia madre si occupa dolcemente di me. A volte le faccio saltare in aria le sue zuppe di merda e la mando a fare in culo. A volte le chiedo scusa e le dico che la verità è che vorrei solo morire, per un attimo ripenso alla bibliotecaria, e poi piango.
Mi sento liberato da quei pianti penosi, contengono i sali della conciliazione.
La immagino ancora saltellare in biblioteca, per i corridoi. Ma come dicevo lei non c’è più. Sono frammenti di lei che vagano ancora quando mi viene il mio desiderio speciale.
Io e mamma abbiamo trovato un compromesso: mi paga una puttana una volta a settimana, me la porta a casa. Lo facciamo in camera mia. Chissà che pensa la gente quando vede mia madre guidare teneramente per la città con una puttana russa in macchina.
A volte chiedo alle puttane di strangolarmi mentre siamo a letto. Si sentono a disagio e spero smetterò un giorno di mescolare questi due aspetti.
Per ora trovo i piccoli compromessi una strada stabile, non voglio far finta che per me non sia così, che non voglio morire, che non evito questo desiderio con il pensiero del sesso. Ora lo so che è solo un pensiero, seppur molto potente.