Premio Racconti nella Rete 2010 “Salvami, Giacomino” di Maria Luigia Longo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Ad un certo punto, non so come, abbiamo smesso di essere una famiglia.
Non quando Leo è partito per l’esercito, né quando Carmen si è ammalata di leucemia, ma quando mamma e papà hanno smesso di parlare. E in casa non ridevamo più.
È successo tutto all’improvviso. All’improvviso, una domenica, ho capito che non eravamo più una famiglia. Mamma non apriva più la casa alle vicine, non preparava più il caffè a metà mattinata e il cicaleccio che proveniva dalla cucina non mi veniva più a svegliare. E poi non cucinava più quel sugo con i pezzetti di carne che, come le aveva insegnato nonna, doveva cuocere lento lento per tutta la mattina.
Ma quello che era cambiato più di tutti era papà. Era diventato taciturno ed era sempre nervoso. Non metteva più la felpa della Juve e non mi diceva più – Dài, Giacomino, che appena faccio soldi ti porto allo stadio!
Ma non ci eravamo mai andati.
Quando ha smesso di dirmelo ho capito che forse avevo già da molto tempo cessato di crederci. E così anche lui ha finito di dirmelo.
Ma stamattina non so perché mamma ci riprova.
Sento le amiche che entrano in cucina, l’odore del caffè si diffonde per la casa e Madonna a tutto volume mi viene a svegliare.
“Time goes by… so slowly. Time goes by…so slowly. Time goes by…so slowly.
Time goes by… “
E balla attorno al mio letto.
E, se tutto è tornato com’era, papà è già giù che olia la bicicletta per andare insieme al Valentino. M’infilo la tuta velocemente, in fretta e furia bevo il latte e caffè con l’amica di mamma che parla del culo sodo di Madonna, e mi precipito in cortile. Faccio le scale quattro a quattro con l’aiuto della ringhiera e al secondo piano mi scontro anche con le sorelline di Ameth e con la mamma che indossa quell’abito voluminoso e per poco non inciampo nel passeggino dell’ultima figlia. Ma quante sono?
Sono velocissimo come un proiettile e ho il cuore in gola, ma papà in cortile non c’è. Lo cerco per un po’ ma non lo trovo, faccio il giro del palazzo, chiedo agli amici seduti al bar di fronte ma non l’hanno proprio visto stamattina. Giro ancora intorno al palazzo e la sua assenza mi sembra anche un po’ strana.
Alla fine lo trovo seduto sui gradini della carrozzeria a fumare. Mi sembra piccolissimo, molto più basso a vederlo lì seduto con la guancia appoggiata sulla mano chiusa e con il capo un po’ chino.
Mi avvicino e, quando lui alza lo sguardo verso di me, gli sorrido, ma lui non ricambia.
Lo guardo a lungo ma lui non dice niente. Abbassa lo sguardo.
-Papà, quando facciamo di nuovo soldi, mi porti allo stadio a vedere la Juve?, gli dico.
Lui mi guarda ma non risponde, invece rotea un po’ gli occhi verso sinistra come per ricordare qualcosa. Ma non dice niente.
Restiamo così per un po’, ognuno nel suo angolino a rimestare i pensieri.
A cosa pensi, papà?, penso ma non glielo dico.
Cos’hai, papà?, dico fra me, ma non glielo chiedo e non lo guardo neanche. Non lo guardo più. Mi siedo accanto a lui e prendo a guardarmi i piedi. Tiro un po’ la gomma laterale della scarpe che è rotta da tempo e adesso mi ha proprio stancato e la stacco del tutto.
Lui mi sembra distante, tutto rannicchiato come un portiere che ha appena parato con i pugni uniti.
Lo guardo di sguincio e ad un tratto vedo scendergli una lacrima giù per la guancia e perdersi nel suo pugno. Me la sono immaginata come le goccioline sul collo della bottiglia presa dal frizer e lasciata un po’ al sole perché se no l’acqua è troppo fredda e mi fa male alla gola e alla pancia.
Ma perché non va a parlare con mamma che ascolta i problemi di tutti e figurati se non vuole ascoltare quelli di suo marito?!, penso.
Forse si accorge che lo sto guardando e si alza di scatto e va verso la strada. Senza voltarsi e senza dirmi niente. Senza salutare.
Arrivato sul ciglio, si ferma un attimo e poi torna indietro verso il portone di casa. Poi si volta ancora e ritorna sulla strada. Indugia un attimo e poi ci ripensa e rientra nel cortile, a metà tra la via e il portone. Poi prende la strada di casa, lo seguo e, senza dire una parola, si chiude in bagno.
Mamma è di là ancora con le sue amiche e con Madonna.
Resto per un attimo sulla soglia della cucina in una parte da cui riesco a guardare anche la porta del bagno, come a guardia, come un cane da guardia, ma papà non accenna a uscire.
Mamma mi guarda un po’ interrogativa e forse non si spiega il perché del mio rimanere lì con un’espressione certamente turbata.
Ma perché non capisci?, penso io. La guardo male e un po’ forse la odio. E odio pure tutte le sue amiche. Ma Madonna no, perché lei mi piace.
Solo io posso capire, forse, solo io posso salvarti, papà, penso.
Così avvicino l’orecchio alla porta, ma da dentro non arriva alcun rumore. Provo a spiare dalla serratura ma non lo vedo. Mando in largo lo sguardo per cercarlo, ma non c’è. La finestra è socchiusa e intravedo una lingua di cielo.
Corro sul balcone su cui s’affaccia la finestra e, istintivamente, guardo giù e ho paura di vederlo di sotto: la strada è libera e, sotto, le macchine parcheggiate fanno pensare al peggio. Ma lui non c’è e non c’è neanche la gente che attornia il suo cadavere sull’asfalto.
Ma ho ancora paura e apro un po’ la finestra, ci spio dentro: lo scorgo per terra, sdraiato a guardare il soffitto. Braccia spalancate a terra sul pavimento del bagno di casa. Io, appollaiato sulla finestra, e lui, steso lì a terra. Questo è mio padre: un uomo di quarant’anni steso a guardare il soffitto. Sul pavimento. Del bagno. Di casa.
In un attimo che a me è sembrato infinito.
Lui guarda verso di me, forse mi vede, io mi abbasso di colpo e mi nascondo. Non voglio mi veda, non voglio che sappia . Ho il cuore in gola. Non succede niente.
Ma io voglio che qualcosa succeda, invece, e così recupero il coraggio e mi alzo in piedi e guardo dentro, questa volta senza nascondermi. Questa volta lui mi vede. Io mi emoziono, divento rosso e sento le guance bollenti, ma non mi muovo da lì. Lo inchiodo a quello sguardo. E a me pare che anche lui arrossisca. Per qualche istante rimaniamo così, sospesi a guardarci e a respingere la voci di fondo.
Poi mamma grida dalla cucina: È pronto! E io arretro, distolgo lo sguardo e mi accovaccio sotto la finestra.
Lo spio di nuovo e lui è ancora lì, questa volta con gli occhi chiusi.
Poi in un attimo tutto è veloce: papà si alza, si lava le mani ed esce.
Io resto ancora un attimo a spiare. Il bagno vuoto, la porta aperta e le voci di fondo che incalzano.
In cucina, papà è già seduto al suo posto e rimesta gli spaghetti per raffreddarli, le amiche di mamma se ne sono andate e pure Madonna.
Mi guarda un attimo e poi, quando sono seduto accanto a lui, mi passa una mano sui capelli e dice – Dài, Giacomino, che appena facciamo soldi ti porto a vedere la Juve. E finalmente sorride.
-Mamma vuole andare al concerto di Madonna. – gli dico
-E va bene, andiamo pure al concerto di Madonna.
racconto che fa riflettere, la centralità della famiglia e dei rapporti all’intrno di essa. La salvezza raggiunta attraverso i legami affettivi.
Carmina Trillino