Premio Racconti nella Rete 2019 “Al buio” di Raulo Rettori
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Si può rifiutare l’invito di un amico che è quasi te stesso?
Di uno che ti è se sempre accanto nel momento del bisogno, che piova o ci sia il sole.
E non è da questo che si riconoscono gli amici?
Almeno quelli sinceri e disinteressati, che poi sono quelli veri, ed anche gli unici.
Di quelli che si sanno improvvisare muratori quando hai necessità di riparare un intonaco oppure imbianchini per rinfrescare le pareti disastrate dal figlio.
Ma non solo, anche braccia per qualche trasloco, o per sistemare un congegno od un attrezzo dei tanti che albergano in casa.
Che ti è venuto a traghettare quella volta in panne con l’auto di notte in autostrada o che ti ha portato a domicilio le verdure appena colte nel suo orto, offrendoti le migliori e che pensava tu gradissi di più o ti necessitassero.
Favori che non posso scordare e neppure farne a meno per il tempo a venire.
Sono circondato da donne e le incombenze che mi gravano sulle spalle sono tante e di varia natura, ed io in questo non ho una grande manualità.
E soprattutto, e questa la dice lunga sul nostro rapporto amicale, è colui a cui per primo faccio leggere ogni mio nuovo racconto e del suo giudizio, di esperto della vita, ne tengo nel dovuto conto.
Qualche tempo fa mi ha invitato ad una cena, a scopo benefico, organizzata da una associazione di ciechi ed ipovedenti, alla cui preparazione il figlio non si era dimostrato estraneo.
Una cena particolare, mai effettuata prima nella nostra zona, e poche volte nel resto dell’Italia.
Una cena al buio, nei locali della parrocchia diocesana, il cui ricavato sarebbe stato devoluto ad una campagna di sensibilizzazione sulla disabilità visiva.
Sul momento sono rimasto un po’ perplesso, indeciso se aderire a una tale sollecitazione.
Ho richiesto qualche giorno di tempo per pensarci su.
Una cena da ciechi, mi ha spiegato, per comprendere il valore della luce e per conoscere l’intimo di chi la luce non l’ha veduta mai e mai la vedrà.
Si è come accalorato nello spiegarmi finalità e modalità di questo appuntamento, anche perché era quello che aveva proposto il figlio, e così pure per lui era buona cosa.
Stimolato pure dal fatto che l’impegno del figlio andasse a buon fine e l’iniziativa fosse coronata da successo.
La finalità consisteva nel coinvolgimento di noi vedenti sulle difficoltà di chi affronta quella menomazione ed anche nel comprendere le strategie dispiegate nel superamento di ostacoli e impedimenti che devono fronteggiare.
Ho riflettuto, nei giorni, sull’amicizia che ci lega, sull’aspettativa di una buona riuscita, su quanto mi ha sempre dato senza mai chiedere, sulla bontà dell’iniziativa e sul suo scopo, sulla novità dell’esperienza, che la sua natura ha vellicato il mio innato desiderio di sperimentazione, ed anche per uscire dal solito tran-tran e dalle fitte cene, sempre simili a se stesse.
Tavolate in cui si sa già su cosa verrà detto, di persone conosciute che non hanno da offrirci niente di nuovo, talvolta anche noiose e ripetitive.
Pure gli atteggiamenti ed il porsi sono invariabilmente simili e scontati.
Ho detto di si.
Ma qualche remora l’ho avuta: soprattutto due.
Per prima cosa avevo il timore di offendere, come scimmiottando, coloro che nella vita devono fare ogni giorno i conti con tutti quegli ostacoli che la loro menomazione comporta.
Quasi fosse una parodia del loro stato.
La seconda, anche più personale, era la preoccupazione che qualche portata venisse inquinata da certe maldestre manovre, anzi indubbiamente plausibili e probabili, in quel contesto di possibile marasma, che non ci poteva dare nessuna garanzia in proposito.
Ho sempre avvertito un innato disgusto e dispregio per certe contaminazioni, anche se di modesta entità, una avversione cresciuta con me fin dalla giovinezza.
Ho messo da parte questi indugi, pensando che non potessero essere tali da frenarmi in questa mia determinazione.
Anche il pensiero di versarmi addosso delle bevande o di imbrattarmi con il contenuto di un piatto, ero certo che non mi avrebbe mai abbandonato in tutto il proseguio della serata.
Pertanto ho prevenuto il pericolo vestendomi in modo molto informale, con abiti per nulla ricercati.
Tanto in quell’ottica non ci saremmo potuti squadrare!
Siamo entrati in duplice fila indiana, ognuno con le palme appoggiate sulle spalle di chi lo precedeva, come fossimo un trenino vivente, come si usa fare nelle feste e nelle baldorie bagnate dall’alcool.
Condotti per mano alle rispettive sedie, nel buio più assoluto, dagli addetti, tutti appartenenti all’associazione.
Un buio che regnava sovrano, come nuotare nella profondità del mare, incerti nei passi e nei movimenti, seguendo una direzione precisa e sinuosa, alquanto trepidanti, cercando i più di mascherare disagio e insicurezza con gridolini ed espressioni gutturali per esorcizzare la tensione da mancanza di luce e poter sentire di sentire di esserci.
Il primo impatto fu di una sensazione elettrica e spiazzante.
E volta volta furono introdotti in questa sala, che supponevo grande dalle ricorrenti risonanze, file e file indiane di partecipanti, verso quelli che si supponevano essere i loro tavoli.
Il tutto era sovrastato dallo stridore acuto delle gambe delle sedie, che nel buio rimbombavano sotto il soffitto ed offendevano le orecchie, come un digrignar di denti.
Infine, tutti introdotti e tutti ai loro posti, ansiosi, eravamo in aspettativa di chissà che, di qualcosa inusuale e mai provato.
Ci domandavamo come avrebbero potuto, quei tanti non vedenti alle nostre spalle, servirci ai rispettivi posti, ognuno ben preciso, forse impresso nella loro immaginazione per un preventivo allestimento, uno schema mentale collaudato.
Ciascuno con dinanzi le posate per una apparecchiatura spartana, di plastica, ma completa.
Non potevamo immaginarci la nostra disposizione nell’ambito del salone.
Dove eravamo e dove gli altri tavoli e come disposti?
Dove le pareti ed i confini e pure il palco che sembrava sovrastarci?
E da lì provenivano voci, richiami, sollecitazioni e consigli: talvolta anche perentori, quando gli schiamazzi da eccitazione si facevano più alti.
Dove tutti gli altri commensali, quantificati in precedenza in più di novanta?
In prima battuta ho appoggiato l’indice su di uno stuzzichino infarcito di maionese, subito dopo mi sono servito dell’acqua in un bicchiere sorretto con un dito all’interno per saggiarne il livello, solo che non avvertivo mai il liquido: non avevo considerato la presenza del tappo!
Dopo un po’ mi si è ribaltato il bicchiere.
Non so come e perché e neppure se fosse colpa mia.
Alla belle meglio ho tamponato il tutto con tovaglioli di carta, portatimi gentilmente da dietro, senza che niente avessi chiesto.
Difficoltoso è stato portare alla bocca delle squisite penne che non volevano essere infilzate dalla forchetta.
Le più volte l’azione era priva di risultato: introducevo solo i rebbi della posata e le facevo scorrere sulle labbra, percependo il gusto del metallo.
Ancora più disastroso era l’affannarsi al recupero dei piselli con il rosbif.
Quelli si che schizzavano da ogni parte rendendosi irreperibili!
Era divenuta una ricerca affannosa, come a nascondino.
Ogni tanto qualcuno si chiamava per nome, senza sapere dove si trovasse; il tono della voce era lo stesso sia che gli fosse accanto oppure distante.
C’era un’innata tendenza ad esasperare il tono, come se non vedendo si potesse supplire con l’udito, e le voci nel buio avevano più carattere, più incisività, più spessore.
Alcuni, i più conosciuti e i più entranti, erano esortati a fare un personale commento alla serata.
Credo fossero accompagnati al palco dai camerieri, che si muovevano con destrezza, o almeno immaginavo, pur non riuscendo ad individuare nessuna collocazione.
Pareva che le parole al microfono, venissero dall’alto, o meglio, da ogni direzione, e ci pervadevano e ci circondavano e avviluppavano, confondendoci.
Come se fossimo sotto una cappa di piombo, dai plurimi rimbombi.
Le pietanze ti arrivavano da dietro, nel silenzio, solo qualche bisbiglio, ed una mano ti toccava delicatamente, come quella di un fantasma, e dovevi attivarti per incrociare la sua per ciò che ti serviva o voleva ritirarti.
E’ durato molto, con qualche intermezzo musicale, questo essere affabulati nel silenzio e nel buio.
I sensi, tutti quanti, sembravano affinarsi e ci coinvolgevano.
Assaporavamo il buio per disvelare la potenza dei sensi.
Sentivamo gli odori ed i profumi delle pietanze come non mai, con i suoni che venivano ingigantiti per l’incertezza di comprendere la loro provenienza.
Tutti i rumori venivano esaltati, solo l’incedere degli inservienti non vedenti erano silenti, mentre aguzzavamo invano le orecchie.
Ti si approcciavano da dietro all’improvviso, facendoti sussultare, e con mano leggera ed un filo di voce si porgevano ai tuoi bisogni.
Continuavo a guardare nel buio nella speranza di scorgerci qualcosa: di uno spiraglio salvifico, come assetato in un deserto o naufrago sulla superficie di un mare in calma piatta.
Ma invano.
Vista l’inutilità, allora ho chiuso gli occhi donando buio al buio.
Solo l’immaginazione rimaneva accesa e vigile: lavorava di più che in piena luce e ti sentivi come galleggiare, trasportare lontano.
Mi sono reso conto che la paura del buio è dovuta al terrore di sentirsi soli, abbandonati, smarriti nel mezzo ad un oceano di cui non sai orientamento e direzione e i punti cardinali ti sono sconosciuti.
E’ il caos, il vuoto, il niente assoluto, ed in questo percepisci l’aria che ti si muove intorno, prima di trovare un ostacolo, come fosse una premonizione, una sensazione epidermica di preavviso, un brivido che precede il contatto.
A quella cena si doveva avere poesia nel cuore, non importava l’appetito ed era bandita la fretta.
Bisognava ascoltare, gustare, toccare e sempre il fascino di riconoscere gli odori.
L’approccio al cibo diviene rito più meditato, in certo qual modo più intimo.
C’è in tutto questo anche un insito desiderio di sfuggire all’affollamento di immagini e stimoli visivi che ci stipano, ci abbrancano e catturano ad ogni piè sospinto, imbrigliandoci nelle trame e nelle loro spire e da cui è difficile svincolarsi, se non impossibile.
“E infine ritornammo a riveder le stelle” o meglio un tavolo pieno di candele che spandevano una luce fioca diffusa, da un angolo della sala e tutte le ombre, ingigantite, si stagliavano sulle pareti e sul soffitto.
Era come risvegliarsi da un sogno o da un incubo.
Apparvero le fisionomie dei vicini, la disposizione dei tavoli, i confini della grande stanza e poi i gran disastri lasciati dinanzi, sulla tovaglia di carta che era stata prima immacolata.
Ognuno poté così toccare con mano i suoi malestri, le mancanze ed il disordine creato proprio dove si era seduto.
Era una cartina di tornasole della sua incoordinazione e della sua sventatezza, del suo non sapersi destreggiare a tavola ad occhi chiusi, senza punti di riferimento.
E ognuno sorrise dell’improvvida condotta di alcuni, orgoglioso invece della sua collocazione senza segni e senza macchie, senza tracce tangibili.
Fu un fiorire di scherni e di battute, di riconoscimenti e di abbracci e di pacche sulle spalle.
Come coloro che hanno superato impunemente una prova o indenni un esperimento.
Ci pareva che gli occhi fossero più grandi o vedessero meglio, tanto da tenerli un po’ socchiusi per il riverbero delle luci che nel frattempo erano state tutte accese.
Abbiamo salutato uno ad uno quelli che per una sera erano stati i nostri camerieri, custodi silenziosi, disposti in fila, addossati alla pareti, soddisfatti e compiaciuti.
Li abbiamo visti in volto, ma noi per loro siamo rimasti solo delle voci.
Perdoni il gioco, ma sa che questo suo bel racconto è molto visivo? Davvero, questa cena al buio ( potrebbe anche essere un esperimento, anni fa ci fu una mostra esponenziale sulla cecità ) si presterebbe a diventare un film molto interessante. Ho apprezzato molto la precisione del linguaggio, molto attento, affilato, quasi a farsi senso lui stesso per aiutare a sopravvivere a un’esperienza spiazzante per non dire sconvolgente. Complimenti gentile Raulo, proprio una bella storia, con un’idea dentro e uno stile preciso per raccontarla.
non “esponenziale” ma “esperenziale”, mannaggia al correttore automatico!
Un racconto, forse una cronaca vera, ricca di riflessioni. La nascita dell’essere umano e del mondo, avviene con la luce. Come può esistere senza? Si rivela nella sperimentazione il dilatarsi di tutto ciò che è nascosto o posto al di fuori dei nostri sensi. Ho sperimentato personalmente l’approccio con persone non vedenti, nell’attività di lavoro, e conosco la capacità dilatata di ascolto e intuizione. Una volta, al commiato, mi è sfuggito un “arrivederci” di cui mi sono subito pentito. La narrazione è lucida e precisa, la conclusione ambivalente.