Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Come una quercia” di Marcella Ferrara

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Foto in bianco e nero.

Foto in bianco e nero e cassetti con la biancheria, spille, libri usati, biglietti del treno, portagioie, ritagli di giornale e documenti ingialliti. Gli unici segni tangibili di vite tracciate nel passato eppure come evanescenti. Sangue del mio stesso sangue. A farmi coraggio, avevo una di quelle foto nella tasca della giacca e tutte quelle storie, quei frammenti di vita che mia nonna mi aveva raccontato quando ero piccola…Quelle immagini, rievocate con difficoltà e un po’ confuse, scorrevano sfocate e in nero di seppia, come in una pellicola d’epoca.

Il mio bisnonno, un uomo dell’Ottocento in completo grigio, si mostrava elegante e sorrideva orgoglioso sotto un paio di baffi sottili e brizzolati.

Teneva sotto braccio una donna con la schiena dritta ed il portamento fiero. Davanti a loro un tavolo imbandito per una festa a cui gli invitati erano quattro bimbetti sorridenti che sembravano avere una gran voglia di sbrigarsi con la foto e mangiare, il maschietto con un bel completo chiaro e le tre femminucce con dei grandi fiocchi di seta tra i capelli. In un angolo della foto, su un tavolino, della lavanda era stata lasciata a seccare in un vaso di porcellana bianca.

Sentii scorrere in lontananza l’acqua limpida della fontanella di Piazza Rondanini, un suono chiaro nel silenzio tiepido e assolato di un pomeriggio ormai primaverile. Imboccai una viuzza stretta tra palazzi seicenteschi dall’aria silente e dall’intonaco umido: un robivecchi poi un bar, un’enoteca dal design raffinato, poi un calzolaio, una trattoria, un artigiano ed ancora una minuscola galleria d’arte con l’esposizione di un’artista emergente…sì insomma, un vicolo romano del rione Colonna. Un gatto rossiccio, ai piedi della scalinata di Santa Maria Maddalena, si leccava una zampetta, con gli occhi allungati socchiusi per il sole. A pochi passi da lui, davanti al portone della chiesa dalla vernice verde bottiglia scrostata dal tempo, ai piedi di una colonna, una vecchina chiedeva l’elemosina, stesa a terra e con lo sguardo sui sampietrini…china com’era non poteva vedere quel cielo indaco brillante sopra di lei.

Arrivai al n. 2 e spinsi il portone pesante che, appena entrata nell’androne fresco del palazzo, si richiuse lentamente dietro di me, dando il tempo agli occhi di abituarsi alla penombra. Come tanti palazzi di una volta non aveva l’ascensore ed iniziai a salire i larghi scaloni di marmo, bassi e irregolari. C’era un gran silenzio e un fascio di luce mi avvolse quando passai davanti alla finestrella del mezzanino, rallegrata da un vaso di violette. Arrivata al terzo piano, sulla targhetta in ottone vicino alla porta, trovai il cognome che cercavo: Di Castro. La storia che non conoscevo, era viva, era ancora lì e aspettava che la cogliessi così suonai il campanello.

Aprì la porta una signora dell’Est dai lineamenti dolci e dagli occhi grandi e malinconici. Le dissi solo che ero la nipote di Adele e mi disse di aspettare. La casa era grande e piena di luce ed in fondo al corridoio vedevo una finestra aperta con una tendina che si muoveva appena. Attraverso il tessuto di lino sottile che andava e veniva, il sole filtrava e intesseva sulla parete del corridoio figure che nascevano e poi scomparivano, come disegni di bimbi sulla sabbia portati via da un’onda.

In sottofondo un pianoforte suonava ?ajkovskij. Assaporai quel momento di pace, poi il brano arrivò alla coda e pian piano la musica si spense. Risentii allora la voce della donna e, dopo poco, la vidi arrivare spingendo una carrozzina con un signore dai capelli bianchi e radi ma dallo sguardo vivo che mi guardava dritto negli occhi. Quegli occhi mi piacquero subito. Arrivò davanti a me e mi accorsi che le mani, magre e nodose, gli tremavano un po’. Mi disse solo:<<Le assomigli tanto… >> poi sorrise e si rivolse alla donna << Agnese, per favore, accompagnaci in soggiorno e prepara un po’ di tè alla menta…>>

Il corridoio dava su tutta la casa e non c’era stanza senza libri…erano ovunque…sulle sedie, sugli armadi, sul letto, persino in cucina, sparsi qua e là, accanto al fornello e sopra il frigorifero. Le tre pareti senza finestre del salone erano interamente occupate da una libreria in noce in cui i volumi erano accatastati nei modi più disparati e senza un ordine apparente. Mi sedetti ammirandola. <<Sono la mia malattia…>> ruppe il silenzio il signor Remo accorgendosi del mio interesse <<La malattia di tutta una vita…Per tanti anni ho insegnato filosofia e ho letto tanto che ora mi sembra di aver bisogno di un po’ di riposo dalle parole…è per questo che mi rifugio nella musica>>

La luce lieve della finestra conferiva una gran pace all’ambiente. Agnese entrò silenziosamente con un vassoio, andò verso il giradischi che era nell’angolo, mise su un disco e ci lasciò soli.

Subito la stanza fu piena della voce calda di Edith Piaf. <<Sa che mi piace molto questo disco…>> sorrise il signor Remo <<La verità è che io e Adele lo ascoltavamo spesso…da bambini giocavamo tutti insieme in piazza ma noi non ci conoscevamo bene, nonostante abitasse nell’appartamento di fronte a questo. Credevo di esserle antipatico perché non mi guardava mai negli occhi, allora io la spingevo e le facevo un sacco di dispetti. Un giorno, ormai adolescenti, ci ritrovammo ad una festa e iniziammo a parlare…e parlammo tutta la serata mentre gli altri chiacchieravano, mentre gli altri ballavano e scherzavano, mentre gli altri iniziavano ad andar via…Cominciammo allora e non smettemmo più, per tanti tanti anni…Adele faceva l’istituto professionale e ne era orgogliosa… una volta non era facile per una ragazza studiare…mio padre che era un medico voleva che seguissi le sue orme ma all’università scelsi quello che mi piaceva veramente e presi filosofia. Ci vedevamo la sera qui dai miei e, sotto l’occhio attento di mia mamma, leggevamo insieme per ore e discutevamo con passione dei nostri autori preferiti…poi, quando mia madre era occupata in altro, parlavamo di noi e delle nostre giornate, di come vedevamo il nostro presente ed il nostro futuro, di quello che ci succedeva intorno…il giradischi ci accompagnava con il jazz di Gershwin e, persi tra i miei saggi di Kierkegaard e i suoi romanzi di Hesse, ogni giorno ci conoscevamo un po’ di più, in maniera quasi inconsapevole. Un giorno decidemmo di portarci i libri al mare e, dopo aver convinto i nostri genitori, partimmo con il trenino per Ostia. Subito, stretti e in equilibrio precario in mezzo agli altri, iniziammo a discutere…delle nostre piccole vite come di quei ragazzi simili a noi che solo un mese prima avevano sganciato 4000 bombe su Roma con nelle orecchie Ella Fitzgerald…erano altri tempi, un altro mondo e noi eravamo così giovani che prendevamo fuoco per nulla…figuriamoci per le cose importanti…Adele combatteva e, cresciuta in una famiglia in cui le idee contavano e non c’era alcuna differenza di genere, proprio non poteva accettare che tante donne venissero considerate un passo indietro rispetto agli uomini…di quel viaggio ricordo gli occhi strizzati per la luce, il rumore ripetitivo del treno, Adele con la sua Simone de Beauvoir, l’odore di iodio alla stazione, la sabbia calda sotto i piedi, il sale ed il sole, le onde che andavano e venivano come le nostre risate…le righe di Antoine de Saint Exupery che riconciliavano sempre le nostre anime arrabbiate…dopo tante parole, amavamo sentirci piccoli nell’universo mentre le leggevo che “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Su questo eravamo finalmente d’accordo entrambi.

Da quel giorno i mesi che seguirono furono erba tra i capelli, baci e sigarette ribelli, un turbine di foglie giallo acceso, vino rosso e corse alla biblioteca mentre fuori pioveva, neve, sciarpe di lana color prugna e guanti nei guanti…e poi rondini che tornano, l’Aventino con le rose e il Cupolone dal buco di una serratura, colline ocra, zagare profumate ed il vento come un’onda sulle spighe non ancora abbronzate…nonostante le difficoltà, nonostante l’odio intorno…fino a quel giorno di marzo del ’44 in cui Adele sparì all’improvviso…solo qualche anno dopo scoprii perché e fu lei a raccontarmi di suo zio Antonino e delle Fosse Ardeatine, di come una suora nascose lei e la sua famiglia in un istituto, della loro fuga rocambolesca ospiti dei parenti della mamma nelle Marche e, finalmente, del loro ritorno a casa…ma questo tu già lo sai vero Caterina?>>

Sentire il mio nome mi feci uscire come da un sogno e annuii appena per confermare…volevo tornare lì, lì dove mia nonna era più giovane di me e la vedevo nitidamente come non l’avrei più rivista…

<<Allora però non lo sapevo. Ero rimasto solo. Così mi sentivo e così me ne stetti un anno, come in attesa, poi partii per Parigi. Furono anni intensi e veloci. Seppi con un anno di ritardo dai miei genitori che Adele e la sua famiglia erano tornati…Mi mancavano solo pochi esami, corsi come un pazzo, in 6 mesi mi laureai e tornai a Roma.

Trovai Adele che aveva finito ragioneria, lavorava in un ufficio vicino via Nazionale e leggeva Calvino.

Era affascinata dalle filosofie orientali e praticava lo yoga…era la donna forte e coraggiosa che ricordavo e amavo…ora con qualche ruga d’espressione in più e a tratti una profondità negli occhi che non conoscevo e che la vita le aveva donato in mia assenza. Tornai e la trovai con Filippo, innamorata.

Quando la vidi arrivare al palazzo era mano nella mano con lui. Arrivò correndo, mi abbracciò e me lo presentò. Mi sentii morire dentro, come se un soffio di vento gelido mi fosse entrato in circolo…accennai un sorriso sgraziato e in quel momento divenni un caro amico. Ci incontrammo spesso e qualche volta uscimmo in quattro con un’amica di Adele…un anno dopo mi arrivò l’invito al matrimonio. Andarono ad abitare a San Giovanni in una bella mansarda luminosa dove, dopo un paio d’anni, una delle stanze diventò la cameretta della piccola Ginevra. L’ultima volta li vidi al suo battesimo poi, come spesso accade, la vita andò avanti e ormai non so ricordare come…Fui sempre più impegnato con il liceo, ripresi a suonare il pianoforte ed entrai in un gruppo di musica da camera con cui ebbi una discreta fortuna per l’Europa. La mia vita è passata così, tra la filosofia, la musica e i libri. Conobbi tanti altri sguardi e mani e corpi, erano altri tempi gli anni ’60…in un certo senso però Adele rimase sempre con me, dentro di me.

Poi, come se dentro mi si calmasse una tempesta, come se imparassi ad aprire i pugni invece che a stringerli e tenerli in tasca, sentii di aver raggiunto un equilibrio nel saliscendi della vita, di aver acquisito una nuova, matura serenità. Inaspettatamente venne a trovarmi Elise che avevo conosciuto a Parigi ai tempi dell’università e che era ormai una donna, una donna affascinante che mi lasciò stordito e spiazzato nell’istante stesso in cui, non so come, mi ritrovò e si presentò alla mia porta.

Non perdemmo tempo e ci sposammo un anno dopo. Dopo qualche mese Elise rimase incinta di Sophie e la mia vita si riempì di quei suoni e quei colori che non avevo mai conosciuto…>> Vide il mio sguardo triste e proseguì:<<Non è più qui con me…abbiamo divorziato dieci anni fa…inizialmente tra grida, pianti e gelosie, poi con un affetto quieto. Lei e Sophie partirono ed ora vivono nello stesso palazzo di Montmartre in cui mia figlia vive con il suo compagno e i miei due nipotini>> <<E lei non li ha mai visti?>> domandai. <<Solo una volta, Sophie è venuta a Roma e mi ha fatto una sorpresa…poi non sono più potuto partire…> aggiunse, come volendosi scusare, poi, prese qualcosa da dietro la schiena che prima non avevo notato e me lo porse. <<Questo è suo…>> disse consegnandomi un quadernetto con la copertina bordeaux rigida e consunta. Lo presi e, appena lo aprii, riconobbi subito quella scrittura fitta fitta…forse più nitida, più sicura di quella che conoscevo ma pur sempre la scrittura di mia nonna. Le mie dita scorrevano tra le pagine e le pagine, attraverso le sue parole, rimandavano una vita o meglio due…

Lasciato a seccare tra le prime due pagine un rametto di lavanda…chissà se era la stessa…Girai un’altra pagina e trovai mia nonna che mi sorrideva da una foto, molto più consumata della mia, in cui teneva stretto il braccio del signor Remo..aveva i capelli arricciati e un foulard leggero al collo, gli occhi le brillavano di gioventù. Istintivamente voltai la foto e trovai un’altra grafia. In poche righe di De André c’era tutto l’amore…“Quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiedere un bacio e volerne altri cento, un giorno qualunque li ricorderai, amore che fuggi da me tornerai. Un giorno qualunque li ricorderai amore che fuggi da me tornerai…”.

Alzai lo sguardo su quello che ora mi appariva improvvisamente ancora come un ragazzo innamorato con i capelli spettinati, gli occhi luminosi e l’aria strafottente. Gli strinsi la mano e gli dissi:<<Grazie>> con tutto il cuore e gli chiesi quasi sussurrando: <<Non vuole sapere niente?>>.

Stette qualche minuto in silenzio, poi mi guardò con intensità: <<No, preferisco non chiederti nulla..Non dire niente di me ad Adele..Preferisco così.. >>

<<Non si preoccupi, glielo prometto e le prometto che terrò questo taccuino gelosamente>> poi non riuscii a trattenermi e lo strinsi forte mentre lui si commosse e mi batté con il palmo della mano leggermente sulla spalla. Agnese mi accompagnò alla porta e in quel corridoio mi sembrò di attraversare una moltitudine di anni in un istante solo. Mi fermai sul pianerottolo, con la porta del signor Remo alle spalle. Me ne stetti lì, con lo sguardo rivolto alla porta di fronte, chiusa. Sapevo cosa c’era lì dietro ma nessuno sarebbe venuto ad aprirmi, nessuno che mi avrebbe riconosciuta, non avrei trovato più la mia storia lì perché più nessuno con gli occhi, le mani, le orecchie, il naso o le caviglie simili alle mie ci abitava più.

Mi girai verso le scale, negli occhi la luce giallo e arancio del sole basso al tramonto che entrava da un lucernaio da cui vedevo tetti, comignoli e i bei vasi di gerani attaccati alle ringhiere in ferro battuto dei terrazzini delle mansarde. Chiusi gli occhi, li riaprii e iniziai a scendere. Le scale correvano in tondo all’interno di quel palazzo d’epoca senza ascensore ed era come entrare dentro di me e poi andare avanti, dopo tanto passato cercare l’attimo successivo.

Scesi le scale come se mi aggrappassi ai rami di un albero..d’un tratto, come una quercia mi iniziò ad apparire quel palazzo, ogni persona con la sua famiglia, ogni famiglia con la sua storia, ogni storia un nodo. Le sue radici, che erano anche le mie, affondavano nella terra e alla terra tornavano in un ciclo che ora mi appariva infinito, un ciclo fatto di vite che si intrecciano, di gesti ripetuti ma mai uguali, di stagioni e di umanità, di forza e fragilità, passione e delicatezza. Quello che avevo dietro di me, quei lineamenti, quei gesti, quella storia dalle radici passava come linfa nel tronco e si ripeteva in un ramo e poi nel colore di una fogliolina, come dentro un albero i cerchi della vita lo accompagnano per tutte le sue tante vite fino alla chioma.

Ogni frammento aveva in sé il tutto. Ognuna di quelle storie, la loro storia, era in fondo anche la mia.

Arrivai al portone ed uscii nella luce calda della sera. In quel momento, mi resi conto che il flusso della vita scorre come rugiada su un filo, libera e al tempo stesso legata al suo cammino, al suo percorso, al suo destino, che un po’ è futuro e un po’ è passato.

 

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