Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Io e il mio corpo” di Antonella Maria Schirru

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

 

Io e mio corpo siamo due persone diverse.

Non so se sia sempre stato così o se la scissione sia avvenuta a seguito dei fatti che racconterò.

 

1998

 

L’acqua tiepida scorre sul mio corpo mentre canto a squarciagola strangers in the night sulle note che trasmette la radio impermeabile a forma di pesce chirurgo attaccata saldamente alle pareti della doccia con due piccole ma potenti ventose. Quando Max l’ha vista ha detto sorridendo: “Ecco un’altra delle tue trovate! Durerà sì e no un paio di giorni poi me la ritroverò in mille pezzi sotto i piedi!”  E’ lì da un anno, e lui scettico sostiene che gli abbia messo l’attack!

Sono appoggiata al muro e mi godo pigramente gli ultimi minuti di benessere prima di iniziare una solita giornata frenetica. Gli occhi chiusi rivivono la notte appena trascorsa: sesso, amore, divertimento, fusi in un connubio perfetto, quasi da non crederci. Siamo sposati da cinque anni e le cose funzionano a meraviglia. Abbiamo spostato il letto di fronte alla finestra per poter vedere il cielo nelle notti serene e la spalanchiamo anche in pieno inverno infilandoci nudi sotto le coperte per poter sentire lo sciabordio dell’acqua del fiume…

Max si affaccia in bagno: ” Anto sbrigati, fai tardi.”  Guardo l’ora:otto meno un quarto! Cristo! Ma perchè mi sveglio all’alba e poi sono sempre in ritardo? Mi asciugo e mi vesto rapidamente, i capelli bagnati raccolti in uno chignon, tanto siamo in estate, afferro le chiavi e la borsa, saliamo insieme sull’ascensore: ” Ciao amore, buona giornata”e dandomi un bacio ben poco casto continua “stasera pizza e tanga?” Lo saluto con uno scappellotto e ci separiamo per salire ognuno sulla propria auto.

Mentre guido avverto di nuovo quel fastidioso pizzicore  misto a bruciore già provato durante la doccia… sarà un irritazione,penso ridacchiando,stanotte ho dormito poco…o forse sono i jeans troppo stretti, mah, oggi pomeriggio metterò la gonna.

Arrivo al lavoro e durante la mattinata la situazione peggiora: a fatica riesco a stare in piedi,ad ogni movimento corrisponde una stilettata. Mi sembra di avere una manciata di chiodi infilati lì sotto, sento tutta la parte pulsare e il dolore sordo si è esteso alle cosce . A fatica arrivo a fine mattinata, dico alla mia collega che quasi sicuramente nel pomeriggio non ci sarò e mi avvio verso casa. Guidare è un’esperienza allucinante: ogni cambio di marcia, frenata o accelerazione imprime al mio corpo una scudisciata che dal mio sesso si dirama in tutto l’organismo. Sono spaventata e preoccupata. Ma che cos’ho? Non è un’irritazione questa…Intanto sono arrivata, parcheggio ma scendere dalla macchina come salirci peraltro, non è un’operazione facile. Ci metto molto tempo, lo vedo dal trascorrere dei minuti sull’orologio dell’auto. Ogni volta che cerco di spostare la gamba mi sento lacerare quindi rimango con le ginocchia serrate. Mi viene da piangere. Cos’è successo? Come arrivo fino a casa? Una vicina mi vede e mi viene incontro. Mi chiede se ho bisogno di aiuto, mi appoggio a lei senza riuscire a trattenere un lamento, è preoccupata vuole chiamare un’ambulanza, no dico, chiamerò il mio medico, voglio solo stendermi sul letto al più presto.

Sono stravolta, non riesco nemmeno a parlare, la ringrazio ma non vedo l’ora che se ne vada via. Chiudo la porta e mi accascio sul tappeto dell’ingresso. Rimango lì in terra esausta . Gli occhi vagano nella stanza alla ricerca di una spiegazione. Cerco di decodificare i sintomi e ricondurli a una diagnosi. Nulla. Buio. Smarrimento.

Appena riacquisto  un po’ di forze mi aggrappo al termosifone e con uno sforzo immane mi rimetto in piedi. Vado in bagno, mi slaccio i pantaloni, con rabbia me ne libero insieme agli slip. Prendo uno specchio, mi siedo sul bidet, allargo  le gambe e guardo. Rossa, gonfia, tumefatta, mucose tese e lucide. Una spaccatura verticale con lembi netti, come fosse stata fatta da una forbice, parte dalla forchetta e arriva giù fino quasi all’orifizio anale. Sembra un’episiotomia non suturata. Non sanguina, o meglio, non più. C’è un piccolo grumo di sangue rappreso proprio al vertice del taglio. Appoggio lo specchio in terra, apro il rubinetto sperando che il contatto con l’acqua mi dia un po’ di sollievo. Mossa sbagliata. Il getto mi colpisce come un manipolo di minuscoli aghi. Lancio un grido di dolore e ricomincio a piangere.

Mi asciugo tamponando la parte delicatamente ; mi trascino verso il letto dove una volta stesa mi abbandono ad un  sonno profondo ma non ristoratore.

Mi sveglio al suono del telefono, sono troppo intontita, non rispondo tanto c’è la segreteria.

Il dolore è diminuito lievemente. Decido di andare dal mio ginecologo anche senza appuntamento. La segretaria è stronza ma fa sempre passare le urgenze.

Mi infilo velocemente qualcosa addosso, uno sguardo allo specchio: faccio pietà. Trucco sfatto, i capelli arruffati, fa niente, li raccolgo con un fermaglio e mi metto gli occhiali così sono meno evidenti le occhiaie, spero. Il mio unico pensiero adesso è che passi presto questo supplizio.

Sono sul lettino ginecologico già da qualche minuto. Il medico sta in silenzio. Sento che armeggia con qualcosa e di lì a poco vedo sul video alla mia sinistra l’immagine dei miei organi genitali .

“Sembrerebbe una violenta reazione allergica, ma non ne sono tanto sicuro; dobbiamo anche tener conto dell’episodio di sclerodermia , voglio approfondire con esami clinici”.

Esco dallo studio con meno certezze di quando ci sono entrata. Ho in mano le richieste per una sfilza infinita di accertamenti diagnostici e la ricetta per un rimedio locale.  Il male è di nuovo aumentato.

 

2001

 

Sto girovagando per la casa cercando un modo per arrivare al fondo di questa giornata inutile.

La notte passerà se riuscirò a dormire ma domani non sarà cambiato niente.

Sto male. 

Non avrei mai immaginato di riuscire a sopportare un dolore fisico così intenso e prolungato.

Il fisico resiste ma  la mente  non ce la fa più.

Continuo a pensare che voglio morire.

Non ha senso portare avanti un’esistenza in queste condizioni.

Sono una larva. Il mio corpo minuto ma armonioso è sfatto.

Pesavo quarantotto chili, ora quasi sessantacinque grazie a tutto il cortisone che ho ingurgitato in questi anni e ai lunghi periodi di inattività.

Non posso più lavorare, non posso più uscire,  non guido, non faccio l’amore, non posso avere un figlio.

Sono disperata. Io non sono più io.

Biopsie, toccature di nitrato d’argento, pseudofarmaci dagli effetti ignoti. Questo e molto altro ha fatto sì che mi trasformassi in quella che vedo ma che non sono. Voglio morire, ma non è facile trovare il modo per farlo. E poi ci vuole coraggio. Certe volte guardo la finestra e penso che non sarebbe complicato saltare giù ma la forza per farlo davvero non la trovo. O magari ci vuole solo più rabbia, ma quella la sfogo su Massimo.  

Litigo con lui tutti i giorni: voglio lasciarlo, non ha senso continuare a stare insieme. Non sono una moglie, non sono la persona che ha sposato.

Abbiamo cambiato casa qualche anno fa sperando, chissà, che il cambiamento avvenisse anche nel mio corpo ma non è successo. Anzi, le cose sono peggiorate. E’ rimasto al mio fianco tutto il tempo, rassicurandomi, cercando di infondermi fiducia , credendo prima di me in ogni nuovo tentativo di cura. E continua a sperare, è convinto che troveremo il modo di uscire da quest’incubo.

Domani vuole portarmi da un altro medico. Io sono stufa di spiegare .

Sono loro che devono spiegarmi cosa è accaduto. Nessuno sa darmi una spiegazione.

Tutte le mucose del mio corpo sono alterate: escoriazioni, ragadi, tumefazioni. Sembra che qualcuno mi stia picchiando dall’interno.

Un dottore mi ha detto di andare a Lourdes. Ridendo.

 

 

 

2002

 

Il numero di telefono scritto su un post-it è appiccicato al monitor del computer da due giorni.

“Hai chiamato? Se non lo fai tu oggi telefono io domani” incalza Massimo.

E’ passato da casa per un saluto veloce, dice lui, in realtà così ha la certezza che almeno il succo di frutta l’ho mandato giù.

Ci ho messo venti minuti ma ce l’ho fatta. Da sola, l’avrei gettato nel gabinetto.

Lo saluto dal vetro della finestra, lui mi manda un bacio dalla macchina.

Mi avvicino al telefono rigirando fra le dita il foglietto. Non ho voglia di chiamare, lo faccio per non dare un dispiacere a Max.

“Pronto? Sono la dottoressa Spano,chi parla?” Rimango un attimo interdetta dal suono dolce e affabile di quella voce. “Pronto?” Ripete. ” Buongiorno, non mi conosce, …mi chiamo Antonella S. ,vorrei un appuntamento…” Le mie parole si interrompono bruscamente,comincio a singhiozzare in modo convulso,  mi sento ridicola, vorrei riattaccare. Sto piangendo a dirotto al telefono con una persona che non conosco. La voce dall’altra parte del filo riprende:” Stia tranquilla, si sfoghi pure, non c’è problema. Se preferisce può richiamarmi più tardi”. ” No,no,grazie-rispondo-va già meglio”. Mi chiede di spiegarle il motivo del mio stato d’animo. Bastano poche parole e mi dice che il quadro è chiarissimo. Fissa l’appuntamento per sabato mattina alle nove. Riappendo la cornetta e guardo il calendario:oggi è giovedì.

La visita è molto lunga e accurata. La dottoressa conferma la sua giovialità. Lo studio è luminoso ma spoglio. Senza computer, annota le mie parole su un foglio di carta con una matita. Fa strani segni, sembra stenografia. E’ calma, rilassata e il suo modo d’essere mi contagia. Fa domande che nessuno ha mai posto, man mano che il colloquio procede anticipa le mie risposte .

Mi sento capita.

Per la prima volta, dopo cinque anni di tentativi falliti, parlo con una persona che sa ciò che sto vivendo e ho vissuto.

“So che cos’ha – mi dice- è una malattia rara. Dovremo fare delle ricerche accurate per averne la conferma, ma sono già sicura della diagnosi “. Massimo ed io ci guardiamo increduli .  Lei sorride rassicurante, con voce ferma continua: “Non si può eliminare perché l’origine è genetica, ma si possono controllare i sintomi e ridurre quasi totalmente, oserei dire azzerare, in alcuni casi, il dolore che ne deriva.  Il percorso è lungo ma nel giro di dieci mesi, un anno a dir tanto, starà meglio. Se risponde bene alle cure, forse anche prima.

 Si volta con la sedia girevole verso la parete alle sue spalle: guarda il calendario e noi con lei senza capire. Indica il mese in corso con la matita: “Siamo a Gennaio, se mi darà fiducia, il prossimo aprile sarà una donna nuova.

 

2003

 

11 Aprile. Ore 1.44. E’ nata Virginia.  Mia figlia.

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2 commenti »

  1. Brava, coraggiosa ed alla fine del racconto, nell’ultima riga, è sintetizzata la “felicità”.

  2. da Elda:
    Grandissimo e notevole coraggio nel mettersi così in gioco e raccontare questo fatto che potrebbe interessare anche molte altre persone che leggendo questo racconto se ne potranno giovare.
    Ingegnosa combinazione e sistema per presentare sotto forma di racconto questo fatto che potrebbe essere considerato un atto umanitario!
    Brava! notevole vena narrativa farai strada!!!

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