Premio Racconti nella Rete 2019 “La dolce carezza del dolore” di Marco Zuccarato
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Il dimenticarsi di essere normale in un giorno normale. Le foglie verdi ingiallivano come per incanto, l’autunno appena iniziato, mostrava le sue sfumature, il cielo osservava il mondo con un azzurro più intenso.
Io di quel giorno non mi scordai chi ero, la mia anima mi dimenticò, il cuore iniziò a sconfortare il mio corpo. Aprii un portone, dove il mio primo passo si posò nel vuoto ed iniziai a cadere…cadere…cadere.
Da quel pomeriggio, i giorni si susseguirono senza una logica. Il benessere di un giovane uomo, diventò il malessere di un anziano malato. Anni che passarono in poche settimane, tramutandomi nel vecchio che ero già arrivato; arrivato alla fine.
Il vuoto in cui continuai ad esserne parte, non mi fece vedere ne il fondo, dove avrei dovuto schiantarmi, ne la luce che mi avrebbe fatto uscire.
Fu un paradosso, la mia mente si spense lentamente, tutt’intorno non cambiò nulla, il mondo che mi circondava andava avanti; chi ero io, non lo sapevo più.
Il lavoro si tramutò in un dolore, ogni cosa che affrontai, ogni cosa che feci era pesante come un macigno attaccato alle caviglie.
Un senso di paura pervase il mio mondo, che fino ad allora era contornato di amici,gioia,bellezza e una moglie stupenda.
Ero direttore di sala di un ristorante sul lago di Corgeno. Le persone che lavoravano con me, avevano instaurato un rapporto che andava oltre il lavoro. Il titolare era una persona alla quale mi affezionai fi dal primo momento. Un castello dorato dove l’armonia era la vera sovrana.
Purtroppo il mio cambiamento, fece crollare le mura solide che tutti insieme avevamo realizzato, facendomi ritrovare in un campo di sterpaglie e rovi acuminati che mi stritolavano come serpenti, senza farmi respirare.
Cercai di mettermi una maschera per rimanere me stesso. Ogni volta che l’indossai si sgretolò, sotto i colpi del mio piccolo male ed io mi rifugiai da tutto e da tutti, nei miei pensieri.
Non avevo stimoli, si insediò un demone che m’invase e mi disturbò fin nel profondo.
Nascosi a tutti il mio malessere fin quando fu possibile, arrivò l’impossibile e dovetti licenziarmi. Un capitolo della mia vita si chiuse e in quel vuoto continuai a cadere…cadere…cadere.
Mi nascosi come un topo nella fogna della mia esistenza, l’unica persona che cercò di avvicinarsi al mio mondo fu mia moglie. Allora non comprese bene cosa mi stava succedendo, chiedeva e non chiedeva, secondo me tastò il terreno incolto dove nessun seme poteva crescere.
Amici lontani per mia volontà, l’unico che volevo che mi accarezzasse e mi confortasse era l’ospedale.
Visite,esami, consulenze mediche, utili o inutili. L’ospedale era la mia coperta di “Linus”, era l’amico fidato che tramite la voce dei medici sentenziò che ero affetto da “D.A.P.“; (DISTURBI DA ATTACCHI DI PANICO).
Io che conoscevo solo raffreddori e febbri, io che non mi ero mai preoccupato delle malattie, mi trovai catapultato in un mondo ovattato, estraneo alla realtà. Trovai un altro amico virtuale, internet; ore a studiare siti e blog sugli attacchi di panico, cercando disturbi, cause, soluzioni.
Stavo bene solo quando nella rete trovavo una goccia, solo una goccia di speranza, in mezzo ad un oceano di dolore. Il tutto durava minuti; poi ancora paura. Pura dell’ignoto, ogni movimento era circoscritto alla mia angoscia. Sensazioni di non poter arrivare al domani. Povero me, seduto ad aspettare che tutto finisse nel peggiore dei modi, non uscire di casa, fuori c’era l’oscurità.
La luce fioca del sole era nascosta nel punto profondo del mio io, che eclissava il calore e faceva freddo e faceva buio.
I medici questi amici dal camice bianco e puro, provarono a farmi vedere la vita come doveva essere vista. Niente medicine, niente psicofarmaci, quelli dovevano essere l’ultima spiaggia su cui cercarli, prima dovevo recuperare la fiducia, in modo che non continuassi a cadere…cadere…cadere.
I primi quattro mesi furono gli anni più lunghi. Anche il cibo mi era ostile. Ogni alimento deglutito, era un sintomo di ribellione del mio stomaco, l’impotenza del pasto.
Mi sentivo malato, ingigantivo ogni piccolo dolore, la mente lo tramutava nel peggior male che mi potesse capitare.
Al cuore non si comanda; anch’esso si tramutò in un ballerino scoordinato, senza ritmo, movimenti mai aggraziati. Un tam,tam cupo e profondo, un suono che uccideva. La persecuzione della morte mostrava la sua identità, un pezzo alla volta, come un puzzle che si pian piano si stava componendo. Quel cuore che mi ha portato in un tutte le aziende ospedaliere della provincia, a trovare il mio “amico”.
L’amico dai tanti nomi: ospedale,dottore,infermiere etc…, ognuno mi faceva stare bene, controlli, esami, elettrocardiogrammi, per escludere ogni tipo di deficit cardiaco e riconfermarmi che gli attacchi di panico danno sensazioni similari agli infarti. Io non ho mai avuto attacchi di cuore.
Sudavo le pene che mi stavo procurando, madido in inverno, madido in tutte le stagioni.
Provai rimedi naturali, consigliati da persone che hanno sentito altre persone, le quali hanno ascoltato altre persone che non conoscevano, ma che sapevano tutto sulla medicina alternativa. Tisane, pastiglie omeopatiche, fiori di Bach e preparati galenici ingurgitati senza logica. Nessun rimedio servì, il mio stato d’animo peggiorava ed il passo successivo se non trovavo un minimo di soluzione era la ben più pericolosa depressione.
Migliaia di euro in visite anche invasive non mi persuasero a cambiar rotta e a farmi dire che ero sano. Più facevo esplorare la mia psiche ed il mio corpo più desideravo che mi trovassero qualcosa che giustificasse il mio male, almeno avrei potuto sapere di che morte morire. Era un girotondo su me stesso, mi avvitavo mentre continuavo a cadere nel vuoto; un cavatappi che gira a vuoto in un tappo che non vuole lasciare la propria bottiglia.
Ansia, depressione… Sono disturbi che entrano a far parte della vita delle persone, talvolta fino a sostituirla del tutto, inglobandone gli spazi, fagocitando gli aspetti positivi. Descrivi molto bene quelle che devono essere le sensazioni, anche il titolo è molto significativo, perché a volte è difficile sconfiggere questo “piccolo male”, così risulta più facile abbandonarvisi, lasciandosi accarezzare.
Un titolo particolare. Mai cedere alla dolce carezza del dolore… Viviamo un tempo dove il male oscuro si chiama incomunicabilità, un tempo in cui i mezzi di comunicazione sono sovrabbondanti e di cui siamo vittime. Solitudine, depressione, incapacità di muoversi potrebbero essere curati con una bella terapia di ascolto guardandosi negli occhi, tenendosi per mano per non cedere alle lusinghe del dolore. Un racconto che fa riflettere. Complimenti