Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Blowing in the SIM” di Andrea Mannino

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

7:53 am. Tirò fuori dalla borsa il cellulare e lo poggiò sullo scrittoio. Fu probabilmente l’ansia a farle fare quel gesto.

Con la pressione dei polpastrelli trascinò verso il basso il coperchietto posteriore e lo aprì. Tolse la batteria. Rimosse la scheda di memoria. Quindi, con un movimento preciso, reinserì la nuova SIM aiutandosi con le unghie laccate. Poi mise la batteria nel suo alloggiamento e click richiuse il tutto.

Dopo quel gesto, avvertì calore irradiarsi per tutto il corpo. Un senso di torpore e capogiro le ricordò l’insolazione dell’estate precedente. Non capì cosa le stesse succedendo, ma una cosa era certa: quel click aveva cambiato di colpo l’ordine delle cose.

Portò le mani sul viso e chiuse istintivamente gli occhi. Distese i muscoli della schiena in uno stiramento che coinvolse le vertebre del collo. Apparentemente stava bene, eppure … Eppure, qualcosa non tornava.

A due passi dallo scrittoio la sua immagine veniva riflessa dal grande specchio antico. Una strana curiosità brillava nei suoi occhi meravigliati. Iniziò a rovistare nell’armadio e si cambiò d’abito. Via le decolté blu mezzotacco per gli stivali. Un batuffolo di cotone eliminò dalle unghie ogni traccia di quello smalto rosso da vecchia.

Col trucco viola e il mascara ostentava i grandi occhi verdi. Indossò i Ray-Ban a goccia, il cappotto nero e si chiuse dietro la porta di casa. Non chiamò l’ascensore. Decise di prendere le scale per una volta.

Appena fuori dal palazzo consultò l’agenda. «Al centro di Addestramento Alitalia» disse al tassista.

Aveva passato gli esami di idoneità e, quel giorno, avrebbe fatto la prova attitudinale con il responsabile dell’area volo: un colloquio, una formalità, a detta di molte colleghe. Si domandò perché mai avesse deciso di fare la cameriera d’alta quota. L’improvvisa novità, mista alla curiosità di trovarsi catapultata in quella situazione le provocò un prurito al cervello.

«Buongiorno Signorina …» – disse l’uomo cercando di rubare con gli occhi il cognome scritto sul badge appeso al collo.

«Mi chiamo Pilar Clavel Manent – intervenne lei – dovrebbe trovarlo scritto sulla application sulla Sua scrivania, proprio sotto il suo naso, Sig. Fiorini».

Quella sicurezza ostentata lasciò interdetto il funzionario. «Spagnola immagino» – disse, come per riprendersi da una brutta figura.

«Catalana » – replicò secca. Negli occhi una buona dose di sprezzante superiorità. Un atteggiamento che non rientrava nelle sue abitudini.

Come trafitto da un pinnacolo della Sagrada Familia, Fiorini provò un forte bruciore allo stomaco. Con le spalle ben poggiate sulla spalliera della sedia, lei lo teneva inchiodato con lo sguardo. Quell’espressione gelida, gli trasmetteva un distacco emotivo che non poteva lasciarlo indifferente. Era come se i ruoli si fossero scambiati. Lui era divenuto l’intervistato e la ragazza l’intervistatrice. Era a disagio. Faticò a ritrovare il sorriso di circostanza.

«Mi parli un po’ di Lei. Quali sono i punti di forza della Sua personalità? Qui leggo che dà il meglio di sé lavorando in team e che la Sua maggiore soddisfazione è “il raggiungimento di un traguardo condiviso con la squadra, stimolandosi l’un l’altro”. Questa frase mi ha favorevolmente impressionato.»

«Certo – intervenne lei –trascino sempre il mio team verso obiettivi ambiziosi.»

Il funzionario sprofondò nella poltrona dallo schienale smisurato. «Ma Lei sa che tipo di lavoro Le stiamo offrendo, vero signorina? Forse con il tempo, l’esperienza, (qualche bottarella – pensò sbirciando le cosce muscolose che uscivano dal cappotto aperto). Tra quattro o cinque anni magari potrà aspirare alla posizione di responsabile unico di cabina, ma adesso non avrà un Suo team e quanto Le viene richiesto di fare, insomma i Suoi compiti sono scritti sul manuale che Lei ha studiato. Ci sono delle procedure di accoglienza passeggeri, di imbarco, sbarco e ovviamente, non devo certo ricordaglielo io, standard ICAO per la gestione delle emergenze di bordo e l’evacuazione dell’aeromobile. In tutto ciò Lei è soggetta al potere decisionale e di controllo del comandante dell’aereo e deve agire sempre sotto la sua diretta supervisione. Signorina – sarò sincero – il Suo temperamento mi preoccupa. Ho la sensazione che tenterebbe di mettere in riga anche i piloti».

Fiorini staccò improvvisamente l’audio. Spettatore di film muto degli anni ‘30: vedeva la bocca della donna aprirsi e richiudersi e le dita delle mani che tracciavano ampie parabole su una lavagna inesistente. Immaginò quella ragazza longilinea con i guanti di ordinanza in una impeccabile divisa blu e verde, visualizzò un’anziana signora che, procedendo vacillante lungo il corridoio centrale dell’aereo, pregava l’assistente di volo di indicarle il suo posto. Gli parve di udire distintamente le parole della ragazza che aveva di fronte mentre con il suo tono perentorio invitava la passeggera a confrontare il numeretto nero sulla carta di imbarco con quello illuminato sopra ad ogni fila di poltrone. «E’ come al cinema, si è mai seduta al cinema Signora?»

Il colloquio non andò bene, ma Pilar Clavel Manent non sembrava curarsene.

Sulla strada di ritorno il brontolio dello stomaco le ricordò che non aveva ancora messo nulla sotto i denti. Aveva visto delle insalate sfiziose nel menù di un bar molto fashion, proprio a due isolati da casa.

Appena varcata la porta del locale si sentì chiamare.

«Pilar! Anche tu qui. Sto aspettando che mi portino da mangiare. Vuoi farmi compagnia?» «Cameriere! Si aggiunge la signorina che prende … » «Una Caesar’s Salad va bene, grazie» si inserì lei, mentre si toglieva il cappotto. Ma chi era quell’uomo?

«Mi ha detto Antonio che hai passato le selezioni Alitalia e avresti avuto il colloquio proprio questa settimana. Quando ti vedremo con la giacca verde e il foulard verde e blu?»

Pilar riassunse mentalmente le informazioni che aveva raccolto in quello scambio di battute con lo straniero. “Sembra conoscermi bene – pensò – sa il mio nome. Abbiamo un amico in comune che si chiama Antonio che sapeva del colloquio di stamattina. Sì, ma chi diavolo è Antonio? E chi diavolo è questo ragazzo qui?” La mattina era iniziata in modo strano quando non aveva riconosciuto il guardaroba nel suo armadio e le stranezze sembravano non volere abbandonare la sua giornata.

«Bon profit» disse lo sconosciuto. «Mersi» rispose Pilar senza pensarci. “Quello sa pure che sono catalana, allora mi conosce bene. Che figura!”.

«A differenza di Antonio e Michele che erano bambini belli- ripartì lui – io ero dei fratelli il brutto anatroccolo» «… Poi il canottaggio, mi ha aiutato a diventare quello che sono e … insomma …. lo specchio in casa fortunatamente non si è rotto.»

L’aneddoto faceva parte di un copione collaudato. Riflesso nelle lenti dei Ray-Ban della donna quel sorriso stucchevole da verduraio del mercato rionale. Ma tutto sommato non era proprio da buttare e le sarebbe piaciuto conoscerlo meglio. Strane idee cominciarono ad affollarsi nella sua mente.

«Non ordinare il caffè! Possiamo prenderlo da me, se ti fa piacere …»

Quindici minuti più tardi la ragazza inarcava la schiena tra le lenzuola candide del suo letto kingsize. Non sapeva ancora il suo nome, ma ne conosceva minuziosamente le preferenze sessuali.

Quando lo sconosciuto si addormentò, Pilar decise di sapere di più di quell’uomo. Si ricordò che nel portafoglio aveva un’altra SIM. Pensò che con un po’ di fortuna sulla rubrica della scheda dell’altro gestore avrebbe trovato il numero di Antonio e quest’ultimo magari l’avrebbe aiutata a risalire allo sconosciuto. Ma sì, giusto per congedarsi con un nome proprio invece di un “Ciao …! Grazie di tutto”. Sarebbe stato pessimo, no?

Click. Una raffica di vento spalancò la finestra e scompigliò i capelli della ragazza. Una forte luce bianca ne delineò i contorni in un abbacinante bagliore. Il calore pervase tutto il corpo di Pilar. Un senso di nausea si poteva leggere in quella smorfia di disgusto.

Con la stessa velocità con cui avevano fatto apparizione, luce e vento si placarono. Anche l’espressione di Pilar era cambiata. Capovolse la borsa sul tavolo, svuotandola del suo contenuto. Sfogliò nervosamente l’agenda e si domandò infastidita come avesse potuto scordare il suo appuntamento di lavoro. Le lancette dell’orologio segnavano le 17:53. Che diavolo aveva fatto per tutto quel tempo? Dove era stata la sua mente?

Uscita dal soggiorno Pilar vide delle scarpe da uomo. Poco più in là un paio di boxer blu infilati nella maniglia della porta. Un uomo dormiva nel suo letto. Sulla spalla sinistra il tatuaggio di un anatroccolo nero. Si soffermò a guardarlo. Immobile. Una mano davanti alla bocca, aperta per lo stupore o per l’imbarazzo o, forse, per entrambi, dopodiché, dapprima come lo zampillo di una fontanella, poi come un torrente in piena, i ricordi di quelle dieci ore di vita parallela riempirono i cluster vuoti della memoria.

Aveva fatto quanto, sino a poche ore prima, avrebbe considerato impensabile. Era affiorato un lato di se stessa ancora inesplorato.

Le tornò allora in mente un vecchio film di Almodovar. Ricky, un giovanissimo Antonio Banderas, faceva di tutto perché Marina si innamorasse di lui: “Ho ventitre anni e cinquantamila pesetas e sono solo al mondo […]” Quella era divenuta in seguito una frase cult.

Un sorriso malizioso comparve nel pomeriggio di Pilar Clavel Manent. Tirò fuori qualcosa dalla cassapanca nel soggiorno. Rientrata in camera volle controllare: il bell’addormentato si trovava ancora lì.

Un debole cigolio del letto segnalò all’uomo la sua presenza. Troppo tardi: ventitre nodi da marinaio gli avrebbero impedito la fuga.

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