Premio Racconti nella Rete 2019 “Corpo morto” di Daniele Baschenis
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Facevo il rappresentante per una ditta che commercializzava utensili per macchine a controllo numerico. Giravo in auto per tutta la regione cinque giorni a settimana, dieci ore al giorno, nello snervante turbinio del traffico, spaccandomi la schiena sul sedile della station wagon aziendale, di fabbricazione coreana, visitando rumorose e puzzolenti officine. Ero bravo, tutto sommato. Il mio fatturato era buono. Ma il lavoro non mi piaceva. Sentivo di impiegare gran parte del mio tempo, la mia vita, ad intessere relazioni improntate sulla falsità, sul mutuo utilizzo. Relazioni di facciata. Molti dei miei clienti non mi piacevano, alcuni perfino li disprezzavo. Gente d’azione perlopiù, concentrati sui soldi, sul profitto. Spesso mi pesava dover sorridere alle loro battute, dover fingere di condividere le loro grette opinioni politiche, annuire ai loro discorsi razzisti.
Una mattina, alle otto, ero appena uscito di casa, ero intrappolato in una coda claustrofobica sulla provinciale, quando ricevetti una telefonata del mio capo, il quale mi ordinava di recarmi immediatamente in ufficio. Doveva parlarmi. Mi preoccupai. Cosa doveva dirmi che non si potesse discutere al telefono? Arrivai in ditta dopo una mezz’ora. Gli impiegati mi dissero che mi aspettava nel suo ufficio, al piano di sopra. Tutti avevano un contegno cupo, serioso. Niente di nuovo, dopotutto. Non avevo legato molto con nessuno di loro.
Il capo mi accolse scontroso. E anche qui, niente di nuovo. Era sempre molto truce. Autoritario. Arrogante.
“Oldani è morto” mi disse semplicemente, guardandomi dritto negli occhi con il suo solito sguardo inespressivo e gelido.
Oldani era un mio collega, un altro rappresentante della ditta. Era più anziano di me, aveva circa cinquant’anni. Lavorava in azienda da più di vent’anni. Lo conoscevo bene. Quando fui assunto, con un contratto di prova, iniziai ad andare in giro con lui, per imparare il mestiere. Era un uomo molto cordiale. Aveva modi eleganti. Ed era anche un bell’uomo, giovanile, in buona forma fisica, sempre impeccabile nel vestire.
“Morto?” mi stupii. “Come è successo?”
“Ieri, mentre era in giro in macchina, ha fatto un frontale con un furgone.”
“Ma dove?” chiesi. La notizia mi scioccava. Avevo visto Oldani solo due giorni prima. Avevo davanti agli occhi il suo sorriso, la sua faccia abbronzata, i suoi capelli bianchi pettinati ordinatamente con la riga.
“Sul provinciale della valle. Ieri sera alle cinque e mezza. Stava rientrando in ufficio.”
Il capo mi comunicava tutto questo come se fosse incazzato, come se la morte di Oldani fosse, prima di tutto, una terribile scocciatura, soltanto un problema per l’azienda.
“Bisogna che tu copra anche la sua zona. Almeno finché non troveremo un rimpiazzo!” aggiunse. Io annuii. È probabile che avessi una smorfia stampata in faccia.
“Ecco qui tutti i nominativi dei clienti di Oldani, con gli indirizzi, i dati sul fatturato. È zona tua, adesso. E anche le provvigioni.”
“Va bene” dissi, prendendo i fogli che mi porgeva.
“Bene. Vai pure adesso. Sai cosa fare. L’azienda ha fiducia in te. Sei il primo rappresentante, adesso. Non ci deludere.”
Mentre mi stringeva la mano io lo guardavo assorto, senza sapere proprio cosa dire. Uscii dagli uffici a testa bassa, senza salutare nessuno, e salii subito in macchina, buttai i fogli che avevo appena ricevuto dal capo sul sedile del passeggero, misi in moto e partii. Ero molto scosso.
Mi aveva urtato la totale mancanza di umanità dimostrata dal mio capo. Oldani aveva perso la vita lavorando per l’azienda. Eravamo solo schiavi da usare? Forse si aspettava addirittura che io dovessi gioire della morte di Oldani. Avrei allargato il mio giro. Raddoppiato le mie provvigioni. Certo. Avrei guadagnato molto di più. Ma cosa contava, una vita umana? Niente? Si riduceva tutto a questo? Usarsi per soldi? Cosa eravamo? Prostituti? Bestie? Oggetti?
Questi pensieri mi tormentarono per tutta la mattina. Avrei dovuto riorganizzare tutto il mio lavoro, invece giravo in macchina a vuoto, e non riuscivo a fare altro che pensare ad Oldani. Mi sentivo che non era giusto. Non potevo rimanere indifferente alla morte di un uomo. Possibile che il capo non avesse nemmeno pensato di chiedermi se avessi intenzione di andare al funerale del collega che mi aveva insegnato il lavoro? Decisi allora di recarmi a casa di Oldani, a fare le condoglianze a sua moglie, a suo figlio. Era un uomo sposato, perdio! Lasciava una moglie e un figlio di otto o nove anni! Non volevo andare durante la pausa pranzo, però. Ci sarebbero stati sicuramente altri conoscenti, parenti che non conoscevo. Temevo di essere di troppo. Di sentirmi a disagio. Decisi di andarci dopo le due del pomeriggio. Di sicuro a quell’ora ci sarebbe stata meno gente. E chissenefrega degli interessi dell’azienda, delle vendite, dei clienti!
Arrivai alle due e un quarto alla porta di casa Oldani. Sulla soglia era stato allestito un piccolo banchetto, con alcune fotografie del defunto, e un libro per le firme. Lo sfogliai. Mi colpì il fatto che ne fosse stata compilata appena una pagina. C’erano in tutto una decina di firme, e non una, nemmeno una di queste era di qualche cliente dell’azienda. Certo, erano tutti nelle proprie officine, a lavorare imperterriti, indifferenti. Oldani sarebbe stato solo una chiacchiera da ripetere per qualche giorno, sbandierando fasulle facce tristi, sentimenti romanzati e falsi. Suonai il campanello e, dopo una ventina di secondi, la vedova venne ad aprirmi la porta. Non l’avevo mai vista prima. Era una donna bassa e grassoccia, i capelli neri tinti, la faccia rugosa, vestita con un maglione nero di lana e un paio di jeans, abbastanza trasandata. Pensai che Oldani era innegabilmente più bello di lei.
La prima cosa che mi colpì entrando nell’appartamento fu l’odore di cibo. In cucina stavano mangiando, o avevano appena finito. Si sentiva il rumore di stoviglie che venivano riposte nel lavandino. C’era un odore di minestrone veramente schifoso che infestava tutto l’appartamento. Mi venne da chiedermi se non fosse in qualche modo di cattivo gusto mettersi a cucinare il minestrone con il morto lì, disteso in una bara di legno chiaro, in mezzo al salotto, vestito di tutto punto, elegante come sempre, abbronzato perfino.
“Buongiorno, signora. Non ci siamo mai visti. Io sono Vincenzo Bonaita, un collega di suo marito. Mi spiace molto. Stamattina quando ho saputo non potevo crederci…” iniziai a dire un po’ impacciato, quando d’un tratto, all’improvviso, inaspettatamente, ecco che la vedova viene avanti, verso di me, e mi abbraccia forte, e scoppia a piangere, a piangere con le lacrime, a dirotto, inzuppandomi perfino la giacca col suo pianto. E proprio in quel mentre entra in salotto un bambino di otto o nove anni, un bambinetto grassottello, probabilmente il figlio di Oldani, che si pianta lì in piedi e mi fissa, mi squadra da testa a piedi con un’espressione apparentemente ostile, anzi proprio ostile, aggrottando le sopracciglia, e fissandomi. E io non capisco più niente, non so cosa fare, resto lì impalato, intirizzito, immobile, con la vedova che inizia a tentare di articolare una serie di frasi sconnesse, tra un singhiozzo e l’altro, e il bambino che rimane sempre lì a fissarmi.
“Lei non immagina… la ringrazio molto… è molto importante… Oh, povero figlio… Oh povera me!” dice la vedova.
“Si calmi, signora. Si calmi.” Provo a dirle io, mettendo le mani aperte davanti a me, con i palmi rivolti a terra. Ma lei mi prende per un braccio e mi strattona con forza, stringendomi il braccio fin quasi a farmi male, mi porta vicino alla bara dove giace il morto.
“Oh! Guardi” mi dice piangendo la moglie di Oldani. “Guardi come è ancora bello. Come è forte! Come è ancora giovane.”
E allora io lo guardo, il morto. E, effettivamente, devo ammettere che sì, è ancora bello, forse non più forte, ma ancora giovane, sembra anche abbronzato, e ha i capelli bianchi sempre ordinati e pettinati con la riga, ed è vestito davvero impeccabilmente, ma mentre noto tutto questo mi sento davvero di non provare niente di niente per quel corpo morto, quell’ammasso di carne senza vita. E cerco disperatamente di divincolarmi dalla stretta della vedova, di allontanarmi da lei, di congedarmi al più presto, certo facendole le condoglianze come si deve, mostrando tutto il mio dispiacere, ma poi affrettandomi verso la porta per uscire, uscire al più presto, e ritrovarmi finalmente solo, sul pianerottolo, tirando un sospiro di sollievo.
Cercai di calmarmi mentre camminavo verso la mia macchina. Mi sedetti al volante e respirai, mi sforzai di respirare profondamente, di calmarmi. Poi presi in mano i fogli che stavano sul sedile del passeggero ed iniziai ad esaminarli. I nomi dei clienti. I fatturati. Gli indirizzi. Mi Tranquillizzai. Misi in moto e partii, deciso ora ad andare a lavorare, a vendere. Ma che cazzo c’ero andato a fare, a casa di Oldani?
Dal titolo avevo immaginato un racconto marinaresco… niente di più sbagliato. Una narrazione avvincente, che ti prende per mano e ti fa provare un arcobaleno di sensazioni. Il protagonista si guadagna la fiducia e la simpatia del lettore per poi catapultarlo con uno scatto improvviso, in un finale pieno di cinismo. Complimenti per la scrittura.
Ciao Daniele! Hai messo nero su bianco sentimenti di vario tipo, nonché imbarazzi che, seppur spesso negati, vengono fuori in certe situazioni. Complimenti per lo stile e la correttezza e anche per l’originalità della trama e dell’approccio che hai usato!
Ciao Daniele! Complimenti per la tua scrittura scorrevole che ha saputo così mantenere un certo ritmo narrativo. Nel leggerti non mi sono annoiata nemmeno un attimo, punto a favore!
Grazie per i graditi commenti. Chi avesse voglia di leggere altri miei racconti brevi può trovare su Amazon una mia raccolta pubblicata da poco col titolo “Rette parallele”. Grazie di nuovo