Premio Racconti nella Rete 2019 “Umanità in corsia” di Maria Pia Acquistucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Appartenevo a un’equipe di dottori, in un ospedale della
mia città, Roma. Il lavoro mi dava molta soddisfazione e con i
colleghi c’era molta intesa. Lavoravo dalla mattina fino alla sera
e non mi stancavo mai. Ero nel reparto oncologico pediatrico.
I bambini malati erano molti e a volte mi arrabbiavo con me
stesso nel vedere tutta questa ingiustizia umana. Il reparto era
ben affiatato dal primario alla più piccola infermiera. Ma per i
bambini tutti si prodigavano. Un giorno arrivò al reparto una
bambina africana, era ridotta male, la sua famiglia era emigrata
in Italia per lavoro. Estelle, così si chiamava la bambina, aveva
due occhioni grandi e molto espressivi, che s’intravedeva la
malinconia. La visitai e parlai un pò con lei:
“Senti Estelle, vai a scuola?” dissi.
“Si dottore, nel mio Paese. Sono la più brava delle mie amiche”
Volevo un pò capire la psicologia della bambina. Feci delle
analisi e scoprimmo che aveva una leucemia, ma presa in tempo
ce la dovevamo fare. I bambini mi erano sempre piaciuti, quindi
avevo una particolarità nei modi di trattarli.
La mattina seguente vennero i genitori, le dovevo dare notizie
della malattia, ero un pò perplesso, se fosse stato per un
adulto l’impatto sarebbe più violento, mentre per una bimba
era più traumatico. Vidi fuori al corridoio i genitori, mi avviai
verso di loro e dissi:
“Buongiorno signori Gaspar, la vostra bambina ha una
leucemia, ma con le cure dovute ce la faremo”
Ero stato troppo brusco e i genitori rimasero senza fiato, poi
entrarono nella stanza della figlia. La famiglia di Estelle era a
Roma perché il padre lavorava presso l’ambasciata del suo Paese.
Entrati nella stanza trovarono la bambina che giocava con il suo
smartphone. Era allegra, non sembrava per niente fosse malata.
“Mamma, papà – disse Estelle – grazie per la visita”.
“Ecco – disse la mamma – ti abbiamo portato dei giornalini
e dolci, così potrai distrarti”.
La figlia abbracciò entrambi e li baciò.
“Sai mamma, il dottor Francesco che vi ha parlato mi
vuole molto bene e ha detto che presto guarirò”.
Finite le visite tornai a casa. Non ero sposato, vivevo con mia
madre vedova, quindi avevo avuto un’educazione un pò rigida e
cristiana. Oltre al lavoro in ospedale, studiavo per perfezionare
la mia carriera.
Una mattina arrivai presto in ospedale e lungo il corridoio
vidi un manifesto che diceva che chi avesse voluto partecipare
come volontario in Africa avrebbe potuto farlo senza retribuzione,
ma la sua carriera sarebbe stata arricchita di umanità.
Entrai nel mio reparto. Estelle mi venne subito a salutare.
“Ciao dottore” mi disse.
“Ciao Estelle. Raccontami cosa hai fatto”
“Ho letto e giocato, poi è venuta mia madre e mio padre
a far visita.”
“Sono molto contento – dissi – preparati perché andremo
a fare degli esami”.
“Va bene dottore” disse Estelle.
L’accompagnai in laboratorio. Erano analisi non facili ma la
bambina era coraggiosa e si sottopose a qualsiasi cosa. Ritornato
in reparto, andai nel mio studio. Mi misi a leggere dell’Africa.
Entrò un’infermiera.
“Francesco hai letto quel manifesto che è in corridoio?”
“Sì – risposi – sto pensandoci, ancora non sono deciso”
“Piacerebbe anche a me” rispose l’infermiera.
Poi ognuno continuò col proprio lavoro. Intanto nel corridoio
si sentì un baccano terribile. Erano i clown che portavano
un pò d’allegria ai bambini malati. I bambini gli andarono tutti
intorno e felici si misero a giocare.
Uscii dall’ospedale e tornai a casa. Mia madre mi accolse
con un abbraccio.
“Francesco perché questa sera non andiamo al cinema?”
“Va bene mamma” dissi.
“Qui vicino danno un bel film”.
Uscimmo e andammo al cinema.
Mia mamma si commuoveva quando vedeva qualche scena
delicata. E’ stato bello, mi era piaciuto. Andammo dopo a bere
qualcosa e qui incontrai Liliana, un’amica di corso, la salutai e
ci mettemmo a parlare. Salutò anche mia madre. Ero stanco,
ritornammo a casa, la mattina dopo dovevo andare a lavorare
e per di più avevo un intervento molto delicato. Salutai mia
madre e andai a dormire. Il giorno seguente arrivai presto in
ospedale, passai a salutare Estelle. Quella bambina mi dava una
carica che non me l’aspettavo, non so cosa avesse, pensavo tra
me che fosse un angelo. Entrai nella sua camera, lei mi sorrise
e mi disse:
“Buongiorno, dottor Francesco”.
“Buongiorno Estelle” le risposi.
“Dottore guarda che bel disegno ho fatto, te lo regalo”.
“Grazie, è molto bello”.
“Rappresenta la mia terra” disse Estelle.
C’erano giraffe e piante di banani, un cielo azzurro meraviglioso
e qualche capanna.
Poi andai nella stanza dei dottori per incominciare la giornata
lavorativa. Mi chiamarono finalmente per l’intervento.
Era un bambino. Misi il camice e entrai in sala operatoria con
il primario. Prima di iniziare l’intervento mi feci il segno della
croce. Mentre il primario ci spiegava il problema dell’intervento
io ero vicino ad un mio collega e guardavo.
Poi il primario si girò verso di me e mi disse:
“Francesco, satura tu il bambino”.
Io tremavo, ma ce la feci. Ero soddisfatto, il primo intervento
era riuscito. Uscii dalla sala operatoria e il primario mi seguì.
“Francesco, sono un pò di giorni che penso a te come
dottore” mi disse.
“Signor primario, che cosa vuole dirmi?” chiesi dubbioso.
“Perché non prendi in considerazione il Progetto Africa?
Vorrei mandare te, vedo che sei capace e hai fascino sui bambini”.
Fu così che partii per l’Africa. Mia madre era rimasta un pò
dispiaciuta , ma la chiamavo ogni sera al telefono.
L’Africa era una terra magnifica, aveva un cielo che andava
dall’azzurro al rosso fuoco di sera, un profumo di pulito, però
molta miseria. Presi alloggio in una missione. Ci diedero il
benvenuto alcuni missionari e questi la mattina seguente ci fecero
visitare l’ospedale. Mancava di tante cose, lavoravamo con
strumenti rudimentali, mentre in Nairobi avevano strumenti
più moderni. Gli interventi che facevamo erano confrontati con
più dottori venuti da ogni parte del mondo, ognuno dava la sua
collaborazione ed esperienza. Nelle giornate libere, che erano
ben poche, andavo a visitare villaggi, fatti di capanne con tetti
di sterco e gente che ci abitava. Una mattina mentre ero in giro,
arrivai in un mercato. Le cose che vendevano erano prodotti
della terra, quindi pomodori, insalata e manioca. Io comprai
qualcosa, poi arrivai ad un banco dove vendevano delle spezie.
Mi fermai e scattai un pò di foto per mandarle a mia madre. Ritornai
in missione, il pomeriggio dovevo lavorare.
Mentre stavo lavorando, venne di corsa un volontario e mi disse:
“Francesco corri! Vieni subito! Due bambini si sono azzuffati
e sono feriti!”
“Come è successo?” chiesi.
“Hanno trovato un’arma e giocando è accaduto questo”.
Andai subito alla stanza che era destinata al pronto soccorso
e vidi i due bambini pieni di sangue, li medicai e li feci mettere
su un lettino, erano tramortiti dalla paura, ma niente di irreparabile.
Finito il mio lavoro, uscii dall’ospedale presi la jeep,
dirigendomi verso la prima cittadina. Era sera e l’Africa di sera
è di un incanto, i colori del cielo di un blu cobalto, tutto era
magico. Arrivato in città entrai in un locale etnico, chiesi se si
potesse mangiare e mi risposero che proponevano solo cucina
locale e io risposi di sì. Venne verso di me una ragazza con abiti
africani, mi portò da bere, un tè alla menta fantastico, e della
carne di elefante. Era squisita, non l’avevo mai mangiata.
Poi entrarono dei musicisti, suonavano le percussioni con
una certa abilità che facevano incantare la gente che era lì.
Uscii dal locale che era tardi, quando fui sulla porta, la ragazza
che mi aveva servito mi raggiunse e mi disse:
“Signore è stato contento della cena?”
“Molto” risposi.
“Sa, le dico questo perché è straniero e ci teniamo a far
bella figura. Come si chiama?” Chiese la ragazza.
“Mi chiamo Francesco. Sono un medico oncologo e presto
servizio nell’ospedale della Missione”.
“Io mi chiamo Christine e lavoro nel ristorante”.
“Comunque verrò spesso a mangiare da voi” dissi e andai via.
Ritornato alla Missione andai in camera mia. Incontrai nel
corridoio un missionario, si chiamava frate Paolo ed era di Firenze,
lo salutai e lui mi disse:
“Francesco, sei uscito questa sera?”
“Si padre, sono andato a cena fuori, per conoscere meglio
questo continente” risposi.
“Hai fatto bene”, poi, sempre rivolto verso di me, continuò
“che rapporti hai con la tua fede?”
“Ma non so spiegarle, padre. Ho un rapporto conflittuale,
specialmente quando curo un bambino che non riesco a dargli
quello che mi sono ripromesso Frate Paolo. Quanto tempo
è che lei si trova in questa Missione?”
“Sono molti anni, figliuolo” rispose il missionario.
“Quindi lei ne deve aver viste di ogni specie.”
“Sì – rispose – l’Africa è una terra magnifica dal punto di
vista geografico, ma economicamente è povera e martoriata.”
Dopo quella conversazione mi ritirai nella mia stanza.
Il giorno seguente ripresi a lavorare, ero alle prese con i vaccini.
Un’infermiera venne verso di me con delle provette per
poi portarle in laboratorio, dove sarebbero state esaminate con
cura dai nostri colleghi virologhi.
“Ciao dottore – mi disse lei – cosa hai fatto ieri sera?”
“Sono andato a mangiare fuori, a visitare un pò la città.
E’ stato molto bello” dissi.
Dopodiché l’infermiera andò in laboratorio e io continuai
con il mio lavoro. Stando lì, nelle ore libere mi appassionai allo
sport. Correvo con un gruppo del posto, certo loro erano molto
più allenati di me e a volte mi prendevano in giro. Ci fu una
gara e partecipò anche la Missione dove ero alloggiato. I frati
fecero tutti il tifo per i partecipanti e vincemmo.
Il premio consisteva in una donazione all’ospedale.
A fare il tifo c’era anche Christine. Appena mi vide venne
verso di me sorridendo.
“Dottor Francesco, anche lei qui?”
“Sì Christine – dissi – sa, qui c’è in palio un premio interessante
e per l’ospedale abbiamo bisogno di fondi”.
Poi ci dirigemmo verso il campo dove si correva. Finalmente
il premio era nostro. Dopo la corsa andammo a festeggiare,
nella Missione avevano preparato tè e biscotti per i bambini.
Io salii in camera, volevo telefonare a mia madre, per avere sue
notizie, ma mentre stavo per farlo, il telefono squillò. Era lei,
mi aveva preceduto.
“Oh mamma, ti stavo giusto chiamando, come stai?”
“Bene figlio mio. Mi manchi tanto, quando torni?”
“Non te lo so dire mamma, qui c’è molto da fare, ma forse
una scappata la farò. – dissi – Sai mamma, l’Africa è una terra
meravigliosa, da mille sfaccettature di colori, per non parlare
poi della natura, animali che stanno allo stato brado, ma sono
mansueti e indisturbati. Vorrei che tu vedessi tutto questo.”
Salutai e riattaccai il telefono. Era ora di cena, scesi in sala
da pranzo e incontrai altri medici che alloggiavano lì. Ci mettemmo
a conversare e il discorso volse al metodo di cure dell’ospedale.
Per avere un ospedale più efficiente, ci volevano molte
donazioni, erano tutti d’accordo con me.
Una volta rientrato in camera mi venne in mente la bambina
che avevo curato a Roma, non seppi più nulla di lei, così telefonai
all’ospedale per sapere che fine avesse fatto.
“Pronto? Sono il dottor Francesco dall’Africa, con chi
parlo?” Dissi al telefono.
“Sono un’infermiera, si ricorda di me, dottore?”
“Sì, certo. Vorrei sapere di Estelle, come va la sua cura?”
“Dottore la bambina sta meglio, è uscita dall’ospedale,
però ogni tanto viene per fare i controlli.”
“Me la saluti, la prego” e riattaccai.
Mi misi a leggere e dopo un pò mi addormentai.
La mattina seguente andai in ospedale, vidi davanti al cortile
una folla e vidi tra di loro anche Christine.
“Dottore stiamo distribuendo del pasto caldo per i malati”.
“Ah, bene Christine, una di queste sere usciremo insieme,
ho desiderio di sapere e conoscere tutto di questo continente”.
“Ma, dottore, non è troppo precipitoso?” Disse lei.
Mentre parlava la guardavo, aveva due fossette che le infiammavano
il viso e due occhi neri che erano lo specchio
della lealtà. Incominciava a solleticarmi l’idea di conoscerla
meglio. Prendemmo a uscire insieme. Christine era un turbinio
di idee, non sapevo dove prendesse tutta questa carica.
Le dissi che l’avrei portata con me a Roma. Una sera la invitai
a cena, ma non al locale dove lei lavorava, andammo in un
locale sul fiume, era meraviglioso. Il locale aveva un viale con
delle torce accese, sembrava di essere in una fiaba, era un
capannone tipico e due indigeni che invitavano ad entrare.
Ci accompagnarono al tavolo e ringraziammo.
“Christine è bello qui. Raccontami di te” dissi.
“Sai Francesco, sono nata qui, i miei genitori vivevano
nelle capanne lungo il fiume, ora sono morti con una brutta
infezione. Solo io sono sopravvissuta e perciò quando posso
aiuto i miei fratelli africani.”
“Mi piaci – dissi accarezzandole una mano – sei molto umana.
Ora dimmi qual è il piatto tipico di questo ristorante etnico.”
“Carne di elefante con verdure e dolce con banane
caramellate.”
“Ottimo” io le risposi.
Così mangiammo con gusto. Finita la cena andammo a passeggiare,
l’avvolsi con un braccio verso di me, lei non fece resistenza.
Poi le diedi un bacio.
“Sai Christine cosa penso? Il destino ci ha fatto incontrare,
forse vuole delle risposte da noi, che ancora non so spiegare.”
“Anch’io la penso alla stessa maniera. – rispose lei –
Francesco mi sei piaciuto dal primo momento che sei venuto
nel ristorante, però non osavo dirtelo perché tu sei un dottore
e io una cameriera meticcia e povera.”
“Christine io non do importanza a queste cose. Gli uomini
sono fatti per vivere insieme a differenza di colore e cultura,
sennò che pace è.”
Poi ci abbracciamo, la riaccompagnai e rientrai in missione.
Quella sera il mio cuore andava a mille, non mi era mai capitato
che l’Africa, i bambini, Christine mi facessero così felice.
Era domenica, avevo un pò di ore libere e volevo partecipare
ad un safari. Contattai degli esploratori, così, tutti attrezzati,
partimmo ad esplorare la giungla, anche se era pericolosa. Andammo
con la jeep fino ad una spianata, poi ci inoltrammo nei
meandri della vegetazione più fitta ed insidiosa. Eravamo tutti
vicini, quando spuntò un serpente, aveva due occhi di fuoco e
in bocca sputava del veleno, io indietreggiai, ma un altro esperto
lo uccise, più avanti incontrammo delle scimmie bertucce, che
mangiavano banane. Ero emozionato ma nello stesso tempo avevo
paura. Ancora più avanti trovammo una radura, mangiammo
qualche panino e mentre ci stavamo rilassando ci si presentarono
degli indigeni, abitanti di una tribù primordiale. Erano nudi, sul
volto avevano dei segni colorati e in mano una lancia fatta di legno
con la punta infuocata. Ci presentarono al capo. La nostra
guida spiegò che era un safari, organizzato dalla Missione. Visitammo
le loro capanne. In una di queste c’era una donna malata.
“Sono un medico. – le dissi – Posso visitarla?”
Mi avvicinai a lei e le presi le mani. Era molto calda, aveva
la febbre, poi parlai con il capo tribù, perché la donna doveva
andare all’ospedale, forse qualche infezione, non so, dovevo
fargli una diagnosi più precisa. La caricammo sulla jeep e la trasportammo
in Missione dove c’erano più cure.
Così finì la mia escursione nella giungla.
Appena arrivati, la donna venne subito visitata e messa in
isolamento, poi incominciammo a curarla, ci disse che giorni
avanti venne morsa da una specie di serpente velenoso ed essa
stessa con coltelli rudimentali si era tagliata per farsi uscire il
veleno, ma questo non era uscito completamente.
Mentre ero nella stanza del pronto soccorso entrò Christine.
“Francesco, come sta la donna?” disse.
“Si sta riprendendo, è un’infezione da avvelenamento”
“Senti Christine, tra un’ora sarò libero così possiamo
andare a pranzo.”
“Va bene” rispose Christine.
Una mattina venne un ordine da Roma del mio ospedale.
Dovevo rientrare per motivi che non sto a spiegare.
Andammo a pranzo con Christine e le feci leggere
la lettera. Lei era rimasta un pò perplessa, poi le dissi:
“Christine, vuoi venire con me a Roma?”
Allora sul suo volto apparve un sorriso, capii subito che
accettava e ne rimasi contento. La settimana dopo partimmo
tutti e due per Roma. L’Africa mi aveva lasciato un’esperienza
magnifica e mi aveva fatto riflettere molto sulla vita della gente.
Entrai in casa, mia madre mi venne a salutare:
“Mamma, ho un’ospite con me” dissi.
“Lo vedo, figlio mio, preparo la stanza per gli ospiti.”
“Grazie!” dissi.
Intanto Christine aiutò mia madre e si misero a parlare, poi
scesero per la cena. Le raccontai dell’esperienza che avevo fatto,
della povertà che avevo incontrato, ma che mi aveva arricchito
come uomo e infine dell’amore che avevo trovato, Christine.
La mattina, prima di andare a lavoro, feci conoscere Roma
a Christine, lei sembrava entusiasta, non aveva mai viaggiato e
non aveva mai visto Roma. Entrammo in un negozio e le regalai
un bel vestito, al momento non voleva accettarlo ma poi lo gradì.
Nel pomeriggio andai insieme all’ospedale ed entrammo nel
reparto dove lavoravo. Subito i miei amici vennero a salutarmi.
“Buona sera, dottor Francesco, bentornato!”
“Grazie. – risposi – Amici sono passato per dirvi che ancora
oggi sarò dei vostri, in più avremo una nuova recluta.”
Guardammo tutti la ragazza che era con lui. Lei si limitò a
salutare educatamente, poi ce ne andammo. La mattina seguente
parlai con il direttore dell’ospedale di Christine, e mi disse:
“Va bene, Francesco, purché faccia qualche corso da
infermiera”
“Grazie direttore”
Io e Christine oramai eravamo una coppia collaudata e pensavo
al matrimonio. Una sera, mentre eravamo a cena, le regalai
un anello, lei rimase senza parole.
“È molto bello Francesco, non credo ai miei occhi” disse.
“Mi vuoi sposare, Christine?”
“Sì!” disse lei. E le spuntò una lacrima dai suoi begli occhi,
poi la baciai. Vennero i preparativi per il matrimonio, saremmo rimasti
ad abitare con mia madre, perché lei era rimasta sola. A Christine
questo non dava fastidio, lei e mia madre andavano d’accordo.
Venne il fatidico giorno, tutti emozionati, invitai la crème dell’ospedale
e qualche amico, la cerimonia fu meravigliosa, venne anche
Estelle, oramai una signorina, mi portò di regalo un mazzo
di rose bianche con una sciarpa di seta, segno di amicizia e riconoscenza.
La salutai e le presentai Christine, poi proseguimmo la cerimonia.
Finita la festa partimmo per l’Africa, dove avremmo fatto della
nostra vita una missione, e con noi anche la mamma, che si rivelò
un vero aiuto per molti bambini bisognosi d’affetto.
Ho immaginato di leggere le osgine di un diario, di una storia autobiografica. Ma tu sei Maria Pia e dunque la suggestione è davvero ben riuscita! bella storia
Pagine di un diario