Premio Racconti nella Rete 2019 “L’angelo di Natale” di Flavia Guzzo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 201924 dicembre 1917
Il presepe sarebbe stato sensazionale anche quest’anno. Nonostante tutto. Nonostante i todescat che si erano svuotati le loro dispense, che nei campi non avevano lasciato neanche un chicco di mais, che avevano svuotato le botti e cercato cibo e bevande in ogni angolo delle loro povere case. E che ora si stavano scaldando con la loro legna. Era passato poco più d’un mese, da quando erano calati giù da Caporetto, tronfi e trionfanti. C’era stato un gran parapiglia, chi poteva era scappato prima che chiudessero i ponti sul Piave ed ogni possibile via di fuga. Loro no, non se n’erano andati, e neanche i loro vicini, tutti contadini, come loro. Chi ha terra sua non scappa, si erano detti e ripetuti i suoi, perché poi, cosa mangia, senza la terra e le sue bestie? E così erano rimasti, e ora gli toccava convivere con questi, che parlavano foresto e razziavano a più non posso. Ma il presepe non si tocca, pensava Tita soddisfatto. E così, con l’entusiasmo dei suoi 12 anni, si era dato da fare. Si era procurato un bel po’ di “scartoz”, le foglie secche che avevano circondato le pannocchie di granturco. Era bravissimo, Tita, a intrecciarle, a trasformarle. Con quello stesso materiale aveva costruito una bambola per consolare e calmare la sua sorellina Antonia, che dacché alcuni crucchi avevano fatto irruzione a casa loro per rubare del formaggio che avevano nascosto in una buca nel pavimento, faceva brutti sogni ogni notte. Quella bambola, dicevano tutti, era così bella che sembrava vera. Una vera e propria signorina, elegante e carina, con i capelli raccolti, un cappellino con una piuma vera sul capo, il vestitino della festa. Aveva usato anche qualche filo di lana e qualche frammento di stoffa che le aveva regalato la Armida, che era sì contadina ma sapeva anche cucire bene e lo faceva, per un modesto compenso, per tutto il paese. Il viso, con la pelle vegetale ben tesa sull’imbottitura di stoppe, lo aveva disegnato con un carboncino cui aveva accuratamente fatto la punta con il coltello affilato che lo zio Nani usava per sgozzare il maiale. Era un volto bellissimo, di ragazza serena senza un pensiero ed un problema al mondo. Del resto, questa era una cosa che Tita sapeva fare bene. Aveva appena 6 anni quando sul muro di casa sua aveva abbozzato con il carboncino un cavallo riottoso che si impennava. Quando sua madre e suo padre lo avevano visto erano rimasti senza parole, e anziché dargli le legnate per il muro sporcato, avevano chiamato tutti i vicini a vedere l’opera del loro Tita. In quei pochi tratti si vedevano i possenti muscoli contratti e guizzanti, e sembrava quasi di sentire il nitrito.
A 9 anni, poi, quando andava a scuola, aveva fatto il ritratto della maestra, ed era riuscito così bene che l’avevano appeso sul muro vicino a quello del Re, e lì ancora stava ora che Tita aveva 12 anni e la scuola l’aveva finita da un pezzo. La sua abilità nel ritrarre bestie e cristiani era ben conosciuta in paese ed era motivo di orgoglio e stupore per sua madre e suo padre, che si chiedevano da dove fosse venuta: nessuno in famiglia, a memoria loro, aveva mai mostrato una simile attitudine.
Con gli stessi materiali usati per la bambola Tita aveva fatto la Madonna, Giuseppe, il Gesù bambino e i pastori adoranti. Il bue e l’asinello. E la capanna. Le casette. I tre Re Magi che si sarebbero avvicinati alla capanna un passo al giorno. Aiutato da Francesco e Domenico, suoi amici del cuore, aveva raccolto il muschio e le rocce e, in un angolo là nella stalla, aveva plasmato le montagne lontane e la pianura erbosa, attraversata dalle anse pigre di un fiumiciattolo che in un angolo si slargava a formare un placido laghetto.
Alla vigilia erano andati a vederlo tutti i vicini, quel presepe, nella stalla in cui poche vacche magrissime ed esauste tentavano di scaldare l’aria con i loro fiati. Tutti avevano lodato quei personaggi così bel fatti, la Madonna con il viso soave dipinto con il carboncino che era così bella e dolce da sembrare, appunto, una Madonna, il bambino dormiente, Giuseppe che era serio e sembrava preoccupato, i Magi riccamente vestiti che scendevano le montagne, ancora lontani, e i pastori, uno diverso dall’altro, con sguardo stupito, o adorante, o sospettoso, o indifferente, che gli si si potevano leggere i sentimenti dal viso. Persino i soldati, i todescat, erano venuti a vedere il presepe, e sembravano stupiti, uno si era fatto il segno della croce, l’altro aveva detto qualcosa che non si capiva nella sua lingua aspra e veloce, un altro ancora, che due parole di italiano le parlava, aveva esclamato “Brafo pitore, brafo” e tutti erano parsi molto sorpresi quando gli avevano spiegato che il “pitore” era il dodicenne Tita.
Ma la sorpresa finale, quella nessuno, neanche Francesco e Domenico l’avevano ancora vista, che ci aveva lavorato di nascosto e sarebbe apparsa come un miracolo sul tetto della capanna solo a mezzanotte, per essere ammirata da tutti il giorno dopo, il Santo Natale. La sorpresa era il suo capolavoro, un angelo dalle grandi ali trasparenti e con un viso di una bellezza tale che neanche la Madonna, che pur era bella perché Tita gli aveva dato la faccia della Rosina, la tosa più bella del paese, poteva competere. Ci aveva messo tutto, Tita, in quel lavoro. Trasparenti, fragili ali di foglia, da cui passava la luce, soffici capelli, una lunga veste in cui frammenti di stoffe, fili e resti di vegetali erano abilmente e sontuosamente intrecciati fra loro, e che sembrava si muovesse dolcemente al soffio di una brezza leggera. E quel viso. Non viso d’angelo ma viso di ragazza, vivo, vero, un po’ triste ma incantevole nella sua dolcezza. Di certo la cosa migliore che mai Tita fosse mai stato capace di creare.
Quando l’aveva finito, l’aveva lasciato riposare una notte per poi guardarselo il giorno dopo, come faceva con tutti i suoi lavori, per cercare di capire, con un po’ di distacco, come fosse venuto. Tutte le sue opere, che appena concluse gli parevano dei capolavori, viste il giorno dopo, dopo una notte di sonno, gli apparivano ancora belle, sì, ma non così speciali come sembrava paressero agli altri. C’era sempre qualcosa che a suo parere avrebbe potuto fare meglio. Stavolta era stata diversa, perché il giorno dopo l’angelo era ancora magnifico. No, era ancora più bello del giorno prima, come se la notte trascorsa in questo mondo lo avesse fatto in qualche modo sbocciare. Non c’era nulla che avrebbe voluto cambiare, e si era addirittura guardato le sue mani perplesso, Tita, stupendosi che tutta quella bellezza fosse uscita da lì.
L’inconsapevole modella, questa volta, era stata la Angelina. Tita aveva scelto lei, fra tutti i volti che spesso gli ispiravano i suoi lavori, perché, anche se non era certo alla sua portata visto che aveva 16 anni ed era quindi una ragazza grande, ne era un po’ innamorato, e un po’ le faceva anche pena. Perché all’Angelina era accaduta quella cosa brutta di cui in paese tutti parlavano sottovoce. Cosa fosse esattamente quella cosa lui non è che lo avesse capito bene. C’entrava un todescat, che in paese si diceva fosse stato punito e mandato da qualche altra parte. Era accaduto meno di un mese prima: la ragazza aveva provato ad urlare, ma quello, quando aveva fatto quel che aveva fatto, qualunque cosa fosse, le aveva chiuso la bocca premendole il volto sul nudo terreno, il che, dicevano, l’aveva quasi fatta morir soffocata. L’avevano trovata mezza assiderata dopo, sui campi, che girava come una pazza piangendo, scalza, gli abiti strappati, il volto tumefatto, le gambe rigate da rivoli di sangue secco.
Quell’angelo era dedicato a lei, quell’angelo era lei. Lui glielo avrebbe detto. Se la bambola aveva fatto finire gli incubi di sua sorella, magari l’angelo avrebbe lenito anche le sofferenze della povera Angelina.
Pensava a queste cose, Tita, la notte del 24 dicembre 1917, mentre si recava alla stalla dove era ospitato il presepe, ad un centinaio di metri da casa sua, con l’angelo nascosto avvolto in uno dei canovacci di sua madre. Si era alzato quatto quatto, senza far rumore; avrebbe messo l’angelo sul tetto della capanna, in modo che sembrasse apparso per miracolo e tutti lo vedessero solo il giorno seguente. Si immaginò, Tita, lo stupore dei suoi e degli altri, quando avessero visto il suo magnifico angelo.
Mentre si avvicinava alla stalla, cercando di non far rumore, vide una tenue luce: forse qualcuno aveva voluto dare un’occhiata al suo presepe di notte, o forse era il proprietario della stalla, uno zio della Angelina, che andava a dare un’occhiata alle sue povere vacche. Accidenti, adesso gli sarebbe toccato aspettare che l’intruso se ne andasse. Spiò attraverso le fessure fra le tavole di legno della porta, e vide la Angelina, alla luce di una lanterna che la ragazza aveva appoggiato a terra. Vestita con una lunga camicia da notte bianca, uno scialle di lana ai piedi, una corda in mano come quelle che si usavano per tirare i somari riluttanti. Vicino, una sedia, che evidentemente la ragazza si era portata con sé, dato che non c’erano sedie, in quella stalla, salvo il corto traballante sgabello usato per la mungitura. La Angelina gli parve triste, come sempre dopo che gli era successa quella cosa, e un po’ strana.
Decise di andarsene ad acquattarsi da qualche parte e tornare più tardi, in modo che la ragazza avesse il tempo di andar via e di lasciargli il campo libero.
Rabbrividì.
Là fuori faceva un freddo cane.
No, non era pensabile aspettare all’aperto, che si sarebbe congelato.
Che fare? Di rientrare a casa per uscire più tardi col rischio di farsi sentire dai suoi non se ne parlava proprio, perché questo avrebbe messo a rischio la sua sorpresa. Entrare e condividere il suo segreto con la Angelina? In fondo l’angelo le apparteneva un po’, dato che inconsapevolmente gli aveva prestato il suo volto.
Cambiò quindi idea e decise di entrare. Quando aprì la porta, cautamente, l’Angelina sussultò.
“Chi è?” chiese con voce strozzata.
“Non preoccuparti, Angelina, sono io, Tita!” rispose lui sottovoce “ma cosa fai qui di notte, tosa?” aggiunse.
“Potrei farti la stessa domanda, Tita… va a letto, che non è posto per te, questo, ora…” disse la ragazza con voce stanca.
“Sì che è il mio posto, Angelina, ho una cosa da fare! Ma com’è che tu te ne stai nella stalla di notte, con questo freddo?”
“Cosa ci faccio qui? Cosa ci faccio qui, cosa ci faccio qui…” e si prese il volto fra le mani, come se piangesse, ma di un pianto silenzioso e senza lacrime.
“Che succede, Angelina, perché piangi?”
“Non piango…” rispose Angelina con una serietà ed una tristezza nella voce che fecero rabbrividire Tita.
“Non piango…” riprese dopo un po’ la ragazza “non piango. Anch’io ho qualcosa da fare qui… Va via Tita, che devo finire quel che ho cominciato”
“No che non me ne vado, ostia, vedo che non stati bene. Che cos’è che hai?”
Angelina sorrise di un mezzo sorriso che, se possibile, era ancora più raggelante del suo pianto secco, e che fece raddrizzare i capelli a Tita.
“Ho una cosa da finire, Tita. E’ da che sono diventata quel che sono diventata che ci penso. Non posso vivere così…”
“Così come, Angelina? So che son tempi duri, ma passeranno, quelli se ne andranno prima o poi…” cercò di consolarla Tita.
“Non puoi capire, Tita. Non posso vivere sentendomi così…”
“Così come, tosa?”
“Così sporca, così brutta, così… lurida. Mi vergogno, mi sento sporcata. Dentro. Non posso più sopportarlo. Non posso più sopportare tutta questa bruttezza, sono sporca, sporca e brutta…”
Tita la guardò strano.
“Sporca e brutta?” le chiese incredulo “ma Angelina… tu davvero ti vedi così?”
“Non solo io, tutti mi vedono così. Glielo leggo in faccia, alla gente…”
“No, Angelina, no!” esclamò Tita, sorpreso ed incredulo “No, nessuno potrebbe mai vederti brutta o sporca!
“Sei solo un ragazzino, Tita, non sei la gente. Non capisci…”
“Non sono la gente, ma sono uno, come tutti gli altri! Forse il mio parere non conta, ma vuoi sapere come ti vedo io?” disse Tita, e, dicendolo, trasse l’angelo dal suo involucro e lo mostrò alla ragazza.
Alla luce della lanterna l’angelo le apparve in tutta la sua divina gloria, in tutta la sua sovrannaturale bellezza, splendente, raggiante, trasparente, puro, e, in più, con il suo inequivocabile volto.
La ragazza spalancò gli occhi, con un’espressione di intenso stupore, e rimase immobile per diversi secondi, durante i quali Tita non ebbe il coraggio di fare un fiato.
Poi lasciò cadere la corda che teneva in mano e prese l’angelo, con delicatezza, continuando a rimirarlo.
“E’ stupendo… non ho mai visto niente di simile. Come hai fatto a fare una cosa così bella?” disse quasi sottovoce, come se parlasse a sé stessa.
“Pensando a te, Angelina…”
“Tu…” chiese stupita la ragazza “…tu mi vedi così?”
“Tutti ti vedono così, credo, che non ho mica occhi speciali, io” gli disse lui, con semplicità.
A quel punto nella ragazza avvenne un cambiamento che Tita percepì ma non seppe interpretare né spiegarsi. I lineamenti della ragazza, graziosi ma dolenti e tristi, in qualche modo si distesero, e sembrò ritornare nel suo volto la dolcezza semplice di un tempo.
Gli rese l’angelo, gli mise le mani sulle spalle e gli stampò un grosso bacio in fronte.
“Grazie” gli disse, dopodiché raccolse lo scialle, se lo avvolse intorno e fece per uscire.
“Hai dimenticato la tua corda, Angelina…”
“Non mi serve più” disse lei girandosi a guardarlo per un attimo prima di andarsene, con stampato in volto il sorriso più bello che Tita mai aveva e avrebbe visto nella sua vita.
Bella questa storia dal gusto “antico“, quasi da leggenda. Mi sono piaciute moltissimo certe immagini che appartengono anche alla mia infanzia (le bambole fatte con le pannocchie ad esempio). Una triste pagina di guerra che mi ha fatto ripensare alla “ciociara”, ma con un lieto fine del tutto sorprendente.
Grazie cara Monica!
Che bel racconto, struggente e dolce. Ho trovato molto accurate le descrizioni di oggetti e sensazioni, capaci di far immergere il lettore in una realtà a noi lontana ma familiare al contempo. Bello e preciso lo stile.
Grazie!
Mi è piaciuta la tua storia. Ci proietta in un passato di guerra e violenza, che purtroppo in alcuni paesi è ancora attuale. Passato che vediamo attraverso gli occhi teneri di Tita che cerca di dare un significato a quel Natale. E ci riesce, con un angelo bellissimo regala la vita ad Angelina senza neanche rendersene conto. Bel finale!
Grazie moltissime!
Flavia mi hai fatto commuovere! Questo ragazzino che con la sua arte rende purezza e motivo di vivere all’Angiolina. Una bellissima storia, ambientata in tempi non troppo lontani, per chi ancora ama ascoltare le storie dei vecchi. Brava
Grazie cara Silvia!
“La bellezza salverà il mondo” scrisse Dostoevskij. E una vita umana è certamente un mondo da preservare e salvare in ogni modo. Io capisco che Tita è l’angelo custode di Angelina, e le fa dono di se stesso attraverso il suo capolavoro, proprio a lei, che è grande e di cui è “un po’ innamorato”. Capisco anche che Tita o manda qualcuno, come a risarcire la ragazza della violenza subita. Insomma per me, oltre che una bella storia ben scritta, c’è anche un altro sentimento qui, come una specie di fede: in una divinità o anche solo nella vita e tornando all’inizio, nella bellezza.Grazie di aver scritto questa tenera storia, gentile Flavia!