Racconti nella Rete 2009 “Il Faro” di Lorenzo Mannella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009I. L’ago di pietra
– Hans! Diavolo, Hans! Ma cosa fai, dormi?
– Come? Io? No, non io, stavo solo facendo riposare gli occhi.
Hans scosse stancamente il capo e si passò una mano sul volto impiastricciato dalla salsedine. Oltre il parapetto, una ventina di metri più sotto, il mare si gettava sulle rocce con cupi ululati, mordendo con rabbia spumeggiante lo scoglio solitario su cui sorgeva il faro, un ago di pietra incastonato sul dorso del mondo, esposto alla furia dell’oceano, suppliziato dalla impietosa grandezza del cielo. Neri banchi di nubi si estendevano fino all’orizzonte, soffocavano il tramonto e presagivano, agli occhi arrossati dei due guardiani, che presto la notte avrebbe scatenato la propria tempesta. Jacob sputò verso il mare con innato disgusto, gettando poi alle spalle della propria saliva una buona dose di bestemmie.
– Maledetto Oceano, il Diavolo lo inghiotta! Si prepara un bel fortunale, lassù fra quelle nubi! Cosa farai Hans… riuscirai ad addormentarti con la faccia picchiettata dalla grandine?
Jacob scoppiò in una fragorosa risata e, venti metri sopra l’oceano, scoprì i denti marci in un crudele sorriso di sfida. Sputò ancora, imprecando ad alta voce. Hans si strinse nell’abbraccio della pesante pelliccia e rimase a contemplare il cielo plumbeo che divorava l’orizzonte, trafitto dagli ultimi bagliori di un tramonto sopito. Diede le spalle al parapetto e si voltò verso la costa, dove l’alta scogliera frastagliata offriva riparo alla chiassosa e biancheggiante comunità dei gabbiani. Le eleganti ali degli uccelli si affrettavano a raggiungere i nidi a picco sul mare. Dopo un lungo silenzio Hans trovò infine le parole giuste, o forse quelle meno inadatte.
– Tutte le notti, dopo il mio ultimo turno, vengo visitato da un incubo. Non ho neppure il tempo di toccare le coperte, cado addormentato, come se stessi morendo. Ogni notte lo stesso incubo mi tormenta. Mi sveglio urlando, il mare copre la mia voce, e non riesco più ad addormentarmi.
Jacob contrasse i lineamenti del volto, ascoltava le parole di Hans senza battere ciglio, e come egli ebbe terminato si schiarì la gola ed emise un profondo sospiro. Non era la prima volta che capitava di udire questa storia dalle labbra di Hans, sarebbe forse stato il caso di prestarvi ascolto.
– Hans…dovresti smetterla di attaccarti alla bottiglia, questo è il tuo vero problema. Sei un povero ubriaco!
– No! Non si tratta di questo! Bevevo, si, molti anni fa… ma ora è diverso.
-Tu… bevevi? Diciamo piuttosto che ti ubriacavi peggio di un cane. Visto che ti piace raccontare le tue storie, perché non mi rinfreschi la memoria? Non fosti tu il timoniere di quel naviglio che si arenò sulle secche quando ancora il sole segnava il mezzodì?
– Quella è una storia di quindici anni fa.
– Se fosse l’unica ti potrei dare ragione, ma ce ne sono altre. Molte altre. Non cercare di ingannare te stesso. Sei un ubriaco. Sei solo un vecchio marinaio ubriaco.
– Ti diverte così tanto prenderti gioco di me?
– Si.
Jacob ridacchiò mostrandogli il sorriso giallastro, sapeva bene che il vecchio Hans era un tipo strano, avanti con gli anni, il cervello forse compromesso dai fumi dell’alcol. Si limitò ad assestargli una sgradevole pacca sulla spalla e si diresse verso la porta che introduceva all’interno del faro. Si voltò per salutarlo e lasciarlo al suo turno. Le nubi si addensarono in cielo ed i primi tuoni riecheggiarono in lontananza, sopra il mare, prorompendo in assordanti echi che si diffusero fino al limitare delle scogliere, dove la prolifica colonia dei gabbiani si trovava instancabilmente in pieno fermento.
– Vado a coricarmi. Questa nottata tocca a te solo, mi devi ancora ripagare il favore.
– Si, certo.
– Stai attento alla lanterna, gli schermi sono ancora da riparare. Basta una ventata, od anche uno spiffero per spegnerla.
– Farò attenzione.
– Ah, dimenticavo! Se ti capita di vedere il Capitano, porgigli i miei ossequi!
Con un tonfo richiuse la porta dietro le proprie spalle. La sua greve risata di scherno riecheggiò per tutto il faro, rimbombando fra le pareti di pietra. Hans rimase in silenzio, mormorò qualche parola fra le labbra. Il vento stava rinforzandosi, il mare mugghiava ai piedi del faro, si muoveva come se avesse voluto soverchiare gli scogli e divorare la distanza che lo separava dalla fredda e balenante luce della lanterna.
II. La tempesta
Venne infine la tempesta. Esplose in tutta la propria furia e scatenò i fulmini sul ventre scosso del mare, gridò con la voce del tuono ed attese la risposta fragorosa delle onde. Hans percepiva il sublime terrore della natura penetrargli fin dentro le ossa, e non si trattava solamente della fitta pioggia gelida. La tempesta era ovunque. In mare il cielo riversava la propria anima, le onde sembravano risalire fino ad esso, sfiorare le nubi, per poi precipitare ancora in una immensa cascata e riprendere la propria danza vorticosa. Il vento trasportava la voce della tempesta, l’acqua graffiava la pelle, gli occhi socchiusi desistevano dal continuare a guardare, eppure non potevano farne a meno. Hans riuscì ad alzarsi e a sporgersi appena con il busto dal parapetto: gli scogli alla base del faro erano scomparsi, inghiottiti dalle onde che ora lambivano le pietre dell’ingresso. Le scogliere si stagliavano in lontananza, figure tremolanti in un mare di ombre spezzate dalle saette. Appena sopra la testa di Hans, la luce della lanterna fiammeggiava amplificata dal gioco di specchi curvi. Gli schermi sembravano reggere più che bene l’assalto della tempesta. Stranamente, il globo di luce sembrava non risentire delle perturbazioni, splendeva di una luce spettrale ed intangibile, come se fosse il parto di una stella ultraterrena, il cui pallido sembiante appare agli occhi dei mortali dimezzato, ed ancora dimezzato, per non dire ridotto di altre innumerevoli grandezze. Hans socchiuse le palpebre, poi le riaprì. Due, tre, quattro volte. La tempesta gli concesse un breve attimo di tregua ed i suoi occhi poterono accorgersi di una luce tremolante che lentamente si materializzava fra le onde. Scomparve in un baleno, prima ancora che egli potesse rendersi conto di averla effettivamente vista. Riapparve subito dopo, seguendo il moto delle onde salì sulla gobba di un cavallone e si gettò a capofitto nelle viscere del mare. Riemerse. Ancora, ed ancora. Si avvicinava, divenendo sempre più nitida e intensa. Hans cercò conferma di ciò che aveva intravisto sporgendosi ancor più dal parapetto, quando un boato cupo e assordante colmò tutto il cielo, sopprimendo ogni altra voce della tempesta, che al suo pari pareva quasi il fremere di uno stelo. Pietrificato, Hans si accasciò a terra coprendosi il capo con le braccia e temette per un attimo che il mondo si fosse spezzato sotto il peso dei colpi dell’uragano. Non sbagliava affatto. Alle sue spalle, le scogliere erano scomparse sotto un muro d’acqua dalla portata immensa, il livello stesso dell’oceano sembrava essersi decuplicato tutto d’un tratto per sommergere la terra. Ora la incombente massa d’acqua si allargava fino ad oscurare l’orizzonte già tetro, seppur si limitasse nel mantenere una certa distanza dal faro. Circondato dall’oceano, il sottile ago di pietra si ritrovò ad essere soverchiato dalla tempesta, e il boato si fece talmente forte che ogni altro rumore perdette di significato. La lanterna del faro non risentiva della presenza opprimente del muro d’acqua, ma conservava una purezza nitida ed irreale. Una seconda luce si accese a pochi metri, nell’ombra annichilente dell’immenso oceano. Apparve una nave, la cui prua solcava i flutti piegandoli con la forza di mille mostri. L’immenso scafo dallo scuro fasciame scivolava sulla cresta dell’onda lasciando una ferita che mai si sarebbe rimarginata. La nave stessa era immensa, come la tempesta che la cullava. Gli alberi velati di neri lembi stracciati, scossi e seviziati dal vento, imprimevano un’innaturale e irrefrenabile propulsione al vascello, ornato di minuziosi e sofisticatissimi fregi che lo rendevano una visione unica ed angosciante. Il ponte desolato non ospitava nessun membro dell’equipaggio. Solo sulla prua, là dove una polena dalle fattezze grottesche si protendeva fieramente in avanti, si intravedeva una figura rischiarata da un bagliore. Hans levò lo sguardo inebetito proprio in quella direzione, ed incrociò gli occhi di colui che portava la lanterna gemella, fonte irreale di una luce simile a quella del faro. Bulbi rossastri, sanguigni, risplendevano nelle orbite scure e scavate di un volto scarnificato, un teschio dal morso calcificato e cadente, intagliato intorno ad un sorriso beffardo ed allo stesso tempo crudele. Questi era il Capitano, signore delle tempeste. Una figura agghiacciante, dalle vesti logore e consunte, divorate dal tempo e dalla Morte stessa. Scheletrico invero nelle proprie fattezze, eppure così imponente e viscerale. Miasmi nefandi proruppero dalla sua carcassa immonda quando dischiuse le fauci e puntò il dito indice in direzione del corpo inerme di Hans, mirando all’altezza del suo cuore. In risposta al suo gesto di comando il cielo collassò su se stesso e crepitò in un’esplosione di luce. Un fulmine spezzò le nubi e si abbatté sulla cima del faro.
Hans si svegliò urlando, accasciato contro la porta del faro, le mani protese disperatamente di fronte a sé per difendersi dall’orrore dell’incubo. Hans poteva chiaramente distinguere il sudore gelido che gli imperlava la fronte dal piacevole tocco della pioggia invernale, i suoi occhi sconvolti fissarono a lungo l’oceano ed il vuoto oltre il parapetto. La tempesta e la notte avevano oscurato il cielo, il cupo rintocco delle onde sugli scogli scandiva quelle che erano le ore più buie. Hans riuscì ad alzarsi in piedi strusciando con la schiena sulla parete di pietra, accarezzata disperatamente per accertarsi di non aver perduto l’unica difesa che gli era rimasta contro il mare. Il vento fischiava sul suo volto sferzandolo, la tempesta gorgogliava incessantemente spandendo ovunque una pioggia fitta e battente, mentre tuoni e fulmini in lontananza minacciavano di avventarsi sul solitario scoglio del faro. Il mare mosso dalle alte onde ruggenti si dimenava conflagrando su se stesso con furia rinnovata, eppure alle spalle di Hans le scogliere non erano state ancora vinte. Il dorso nero delle rocce si affacciava sul teatro della tempesta senza prendere parte allo spettacolo. La luce della lanterna balenava invincibile sulla sommità del faro, rifrangendosi nella pioggia in miriadi di gocce incandescenti. Hans si trovava ora in piedi, con i gomiti appoggiati al parapetto ed il volto perso nel vortice della tempesta.
III. Il Capitano
– Diamine! Sono ancora vivo!
Esclamò infine liberandosi del pastoso silenzio che gli aveva serrato le labbra per alcuni minuti. Con la mano destra si strinse il cuore, ed avvertì i suoi battiti frenetici rallentare a poco a poco. La porta alle sue spalle si spalancò accompagnandosi con il gracchiante gemito rugginoso dei cardini. Jacob apparve sulla soglia, rattrappito e imbacuccato nella propria pelliccia, lo sguardo torvo parve presagire la breve ma concitata serie di bestemmie che sarebbe prorotta a momenti dalla sua bocca distorta.
– Il Diavolo ti stramaledica, Hans! Con le tue urla sei riuscito a svegliarmi nel mezzo di una tempesta. Cosa ti prende? Sei di nuovo ubriaco? Diavolo! Guardati! Hai la faccia stravolta! Vecchio pazzo!
– Jacob, sei tu. Posso spiegarti. L’incubo, l’incubo del Capitano!
– Taci, vecchio ubriacone, stai delirando!
– Jacob, ascoltami…questo è un segno. Lui verrà!
– Non voglio starti a sentire. Vattene! Vattene a dormire! Al faro ci penso io!
– Jacob!
– Vai, ho detto! E ritieniti fortunato che la lanterna non si sia spenta, vedo la luce di una nave, laggiù.
Jacob si avvicinò al guardiano e protese la mano per indicare un bagliore sommesso che si faceva strada fra le onde. Scomparve fra i flutti, riapparve, si inabissò e poi riemerse. Attirata dal bagliore del faro la seconda luce sembrava muoversi proprio nella direzione dei due guardiani. Un fulmine attraversò il cielo diffondendo per un attimo la luce nel vortice inchiostrato della tempesta. Il volto di Hans, contratto in una maschera di insano terrore, fu quasi scavato dalla luce del lampo, infossato e teso nei propri lineamenti, reso spettrale e tremante dalle ombre che si addensavano negli occhi dilatati dalla pazzia.
– Hans, che succede?
– E’… è Lui!
– Chi?
– E’ Lui!
– Hans, tu sei malato.
– Il Capitano!
– Hans, non dire idiozie!
– No, non mi avrà mai!
– Hans!
Hans scontrò con furia la spalla di Jacob e si lanciò verso l’ingresso del faro incespicando sulla soglia. Cadde precipitosamente in avanti e, abbattendosi di peso sulla porta, la dischiuse. Si appese goffamente alla maniglia per non cadere, annaspando ancora prima di rimettersi in piedi e imboccare le ripide scalette di pietra che conducevano in alto. Urlava come un pazzo. Jacob si gettò alle sue spalle nel tentativo di fermarlo, non sapeva bene fino a che punto sarebbe potuto spingersi. Trovò il tempo per masticare una bestemmia a denti stretti, lanciandosi poi anch’egli oltre la porta, su per le scale. Al termine della breve rampa di scale a chiocciola, allocata su una vera e propria piattaforma, si trovava la piccola stanza della lanterna, il culmine assoluto del faro, a cui si accedeva tramite una botola ricavata dalle assi del robusto pavimento. Uno spazio angusto, dominato dal bagliore di una voluminosa lanterna ad olio circondata da una serie di specchi argentati. La luce, amplificata, confluiva grazie ad un gioco di riflessi fuori dalle vetrate a tutto tondo, schermate da vetri smerigliati, malamente incastonati sugli scheletri di robusti infissi di ferro. Hans stava quasi per varcare il bordo della botola, quando si sentì afferrare e trattenere saldamente per una gamba. Cadde rumorosamente sulle assi del pavimento, sbattendo la faccia sul legno umido, mentre ancora scalciava furiosamente nel vano tentativo di liberarsi. Jacob non mollava la presa, si issò oltre la botola immobilizzando entrambe le gambe del compagno, ridotto così all’impotenza. Poteva vederlo, ora, mentre cercava di trascinarsi in avanti, forzando sui gomiti, per raggiungere la luce della lanterna. Annaspava in preda alle convulsioni, protendeva le mani verso la luce nel tentativo di ghermirla e farla sua. Jacob non desistette, guadagnò una migliore presa sulle ginocchia di Hans e si impuntò sul bordo del pavimento per impedirgli di muoversi.
– Hans, fermati! Hans! Diavolo, ma cosa ti è preso?
– No. No. No.
– Hans, calmati… guardami, sono io!
– No. No. No.
– Hans!
– Non voglio morire…
Una voce raggiunse Hans: era la tempesta, che si era insinuata fin dentro il faro per sussurrargli all’orecchio. Il fulmine fece il resto, sfiorò la sommità del faro colpendo, chissà poi dove, nelle immediate vicinanze. Gracchiò esplodendo nella sua luce accecante, ed investì la piccola stanza della lanterna, sciamando prepotentemente fra le fessure degli infissi. I vetri si incendiarono di un riflesso bruciante, ed Hans vide giungere la luce del Capitano, insinuarsi fra le pietre del faro e penetrare fino alla lanterna gemella che giaceva all’interno. Parve quasi per un attimo che i due bagliori si cercassero e si rispondessero di comune accordo, compenetrandosi l’uno nell’altro. Tutto fu pieno di luce, nella stanza. Ogni cosa apparve più chiara e nitida sotto l’influsso della luce assoluta. Il volto contratto di Jacob, la voragine della botola, gli specchi d’argento, la sagoma della lanterna. La ruvida sensazione del legno grezzo sulle dita. Hans trovò con la mano la pesante estremità di un bastone abbandonato chissà come a terra. Strinse i denti e lo sollevò, per poi scivolare sul proprio fianco e percuotere selvaggiamente l’aria di fronte a sé. La luce scomparve, ed il rombo del tuono scosse i vetri ancora impressionati dal bagliore, a tal punto che Hans non avvertì lo sciogliersi della presa sulle sue gambe. La stanza non risuonava più della concitazione della lotta: in una calma surreale, Jacob giaceva inerme sul limitare della botola, con il capo riverso a terra in una pozza di sangue. L’estremità del bastone si era scheggiata, ed il sangue aveva preso a colare fino all’altezza della mano di Hans, ancora stordito dall’avvicendarsi dei fatti. Scosse il capo, farfugliò qualcosa e si levò in piedi, stringendo il bastone con entrambe le mani, saldamente. La lanterna cedette sotto il suo primo colpo e cadde a terra in mille pezzi, estinguendo la propria fiamma nell’umido mosaico di vetri infranti che venne a formarsi sulle assi del pavimento. Subito dopo, tutti gli specchi vennero incrinati e distrutti dai suoi colpi, affinché, di quella luce, non rimanesse neppure un ricordo impresso nell’argento. Quindi si fermò, e lasciò cadere il bastone a terra, compiacendosi febbrilmente per ciò che aveva fatto. Senza la guida della luce del faro il Capitano non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo.
La luce del faro si smorzò in lontananza, ed il capitano della nave ebbe un sussulto. Si mosse appena, allontanandosi dal parapetto per conferire con il suo uomo in seconda, a cui fece cenno di avvicinarsi, affinché udisse il suono della sua voce, sottomesso dal ruggito della tempesta.
– Signor Parrish, mandate qualcuno di vedetta a prua. Non possiamo permetterci di perdere di vista la luce del faro. Segnalate la nostra presenza.
– Sarà fatto, signor capitano. Lamarck, di vedetta a prua! Garrison, mano al corno, segnalate la nostra posizione con le lanterne!
– Che Dio ce la mandi buona.
– Signor capitano…
– Ditemi, signor Parrish.
– Come faremo ad evitare la cintura degli scogli senza la guida del faro? Questa tempesta non perdona.
– Ce la faremo, signor Parrish. Vedete, questa notte ho sognato di imbrigliare la tempesta sulla punta delle dita.
ciao,il tuo racconto ha una voce sicuramente originale,la descrizione dell’ambiente è dettagliata e i dialoghi particolarmente calibrati,si sente un’eco stevensoniana, però devo anche dirti che mi manca l’anima,quale motivazione interiore spinge i personaggi alle azioni?Secondo me sei bravo ma resti troppo fuori da ciò che scrivi,ma questo è il mio modesto parere,forse una mia particolare inclinazione per una scrittura più forte, più sentita. Non è che questo è uno stralcio di un racconto più lungo?Secondo me starebbe meglio in un contesto lungo…
Un caro saluto francesca
aspetto che ti sfoghi sul mio racconto. :-)))
Ciao!
L’eco stevensoniana mi manda in visibilio, ti ringrazio di cuore e ti do perfettamente ragione. Non sono molto portato a scrivere di sentimenti a tutto tondo, e in effetti il mio racconto, paragonato soprattutto al tuo, manca di una certa ‘umanità’! O meglio, non vanta una forza paragonabile a quella del tuo. Non possiede l’alchimia della prima persona narrante, caratterstica che colpisce ed avvince il lettore, mostrandogli forse uno spiraglio o un frammento dei ricordi di chi scrive.
Questo racconto l’ho scritto circa un anno fa, forse più. Non avrei avuto la forza di inserirlo all’interno di un contesto più ampio, perché effettivamente è dotato di una pesantezza che vive solo in funzione della descrizione della tempesta e dell’incubo. Questo racconto vorrebbe essere infatti un’immagine della tempesta, dell’incubo e della misteriosa relazione fra due menti sognanti. Hans ed il capitano hanno condiviso il medesimo sogno? Come ha influito il sogno su ciascuno dei due personaggi? Forse si tratta di chiavi di lettura esasperanti, e nell’atto di scrivere io non pensavo ad altro che a muovere i personaggi sulla scena e a porre sullo sfondo il mare ed il cielo.
Ti lascio un commento 😛
Anch’io sono rimasta colpita dagli echi letterari del tuo racconto: Stevenson ma anche Poe e Baudelaire. Ho appezzato molto, perchè amo le storie che escono dal facile minimalismo di cui il web e non solo abbonda e si avventurano in sentirei difficili, dialogando con i grandi. Bravo.
Ciao Lorenzo/Loreman,
prima di tutto: ma tu come fai ? io non riesco a stare dietro alla mia vita, mi spieghi tu come fai a riuscire a leggerli tutti e lasciare il commento più appropriato a ognuno ?
secondo poi: sai cosa mi è piaciuto ? ma sara’ sogno o realtà ? quando scrivo, come anche in questo racconto, mi piace confondere le idee – i piani. Sogno, o magari a volte incubo, con realtà.
ciao
buona notte a tutti.
ester (la charlotte de l’isle)
e, prima o poi, vedremo di leggerne qualche altro.
Grazie Adele, grazie Ester!
Stare dietro alla propria vita è un bella grande impresa. Vorrei fare, scrivere e raccontare una miriade di cose, ma non trovo quasi mai il tempo necessario per farlo. Penso sia fondamentale cercare di esprimere le proprie idee circa il messaggio di un testo: bastano poche righe per dare vita ad un nuovo filone di idee e confronti. Scrivere equivale al parlarsi, ma con tempi più diluiti.
Sogno o realtà? Questo tema mi ha sempre affascinato. Leggendo P.K. Dick mi sono sempre chiesto quale ragione spingesse l’uomo verso l’ignoto e lo sconosciuto. Probabilmente alla base degli universi insondabili non esiste alcuna ragione, ma il ricercarla ci appaga ed affama allo stesso tempo.
Buona notte!
Lorenzo