Premio Racconti nella Rete 2019 “L’ultimo cuntastorie” di Giuseppe Cardello
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019L’austero cortile appena rischiarato era il nostro mondo di sera.
Sotto la debole luce della lampadina sedevano i vecchi in canottiera per la briscola dopo cena, tutti attorno ad un tavolo inzuppato di vino e antichi sapori. Accanto, disposte a cerchio, le donne si consumavano gli occhi su merletti e ricami e parlavano, parlavano, parlavano.
Anche noi bambini organizzavamo la nostra tavolata comune, ognuno con la propria grande fetta di pane deliziata d’acqua e di zucchero. Nello spazio attorno, la rossa chioccia si cimentava negli ultimo brevi voli della giornata, con i suoi pulcini ad imitarla. Dalla strada polverosa arrivavano i rumori scoppiettanti delle poche moto del quartiere e il cigolio dei carretti trainati dagli stanchi muli, con i ragazzini scalzi appesi dietro a godersi un passaggio improvvisato e i cani tristi e sporchi a seguire infastiditi.
Eravamo a metà degli anni sessanta e nonostante il progresso avanzasse impetuoso coi suoi nuovi modelli, il quartiere era la nostra isola felice nella sua semplicità, nei suoi ritmi lenti, nella sua voglia di vita in comune.
Come quando si vestiva con l’abito buono per lo sposalizio, il grande giorno di superbia per la povera gente, il giorno della figlia in bianco. Dopo il lungo corteo a piedi fino alla chiesa, padre e sposa in testa e poi via via fino ai monelli a far da schiamazzante coda, parenti e compari si riunivano sotto il pergolato dalle grandi tovaglie ricamate a mano, concentrati sui sughi e sui sapori che maculavano i grandi mustacchi e con i musicanti e i loro friscaletti e i loro tamburi che accompagnavano girotondi e facce rubiconde in ballo, e rutti e biscotti e mescite traboccanti, fino a quando la sera copriva l’antica montagna con le sue gioie e le sue fatiche stemperate nella canizie a pasta e ceci.
O come quando arrivava il giorno del mercato con i suoi colori e suoi odori. Mi piaceva immergermi tra la folla e le bancarelle, ad ascoltare le cantilene dei venditori mentre le donne rigiravano le stoffe a cercare qualcosa che le interessasse. Era per me il mercato del libero scambio, il magico cilindro dove tutto si poteva trovare, e tra la folla e gli spintoni passavano tutti in processione davanti ai miei occhi rapiti, signorine da maritare e pollivendoli, mercanti misteriosi e signori da strapazzo, gelatai e lupinai, comari da chissà dove uscite e robivecchi, liquirizia da sognare e giocattoli a bella mostra. Felice ed eccitato, navigavo sul fiume di festa come un uccello che vola sereno e poi torna stanco al nido contento.
Ma l’evento straordinario della mia fanciullezza era sicuramente il suo arrivo. Lo immaginavo tornare vecchio navigatore sul mare calmo della notte, carico di terre remote, con le sue caravelle di prua e i suoi velieri, a portare sete e damasco, rose di brina saziate di luna, dai suoi viaggi incantati segnati nelle carte ingiallite dagli eterni ricordi.
E finalmente arrivava con la sua vanniata (1), magico suono per le mie orecchie. Ammula fobbici e cuteddaaaa! (2). Arrivava una volta la settimana, il vecchio arrotino dalla fluente barba bianca, in groppa al suo mulo stagionato, arrivava da misteriose terre con il sole al tramonto e comprava ferro vecchio e roba dismessa per i giorni che si preparavano alla grande trasformazione. Girava per le strade con le sue cianfrusaglie e col suo forziere di cento pezzi e avventure, raccontava i segreti di re e di imperatori per un sacco di carrube e tabacco per il naso, fin quando arrivava al nostro cortile col suo pazzo Orlando e con Astolfo paladino in groppa ad Ippogrifo volante per i grandi sentieri della luna.
Gli preparavano un pasto caldo e dopo il primo bicchiere di vino si spostava con la vecchia sedia di paglia, fiero davanti a noi bambini che seduti a terra aspettavamo le sue fantastiche storie.
“Sintiti, sintiti, sintiti!!! Scinnenu i briganti a Lentini e i picciriddi tosti si purtanu…. (3)
Viniti carusi (4), che stasera vi racconto una storia, un sogno di notte che piano compare, giorno per giorno appresso ai ricordi per i tanti anni di ombre e di luci. Vi racconto una storia di canti e leggende, romanzi e avventure nel tempo intrecciati e poi tornati nella sera di luna, quando il quartiere si siede e riposa. Figlio di una Terra nata col Tempo, di questa Terra stasera vi racconto il tempo, femmina antica nel mare del mondo, porto incantato di luci e magie. Distesa sul mare, è madre di tutti e padre chiama ognuno che viene, è l’ape regina di tanti soldati, riceve sementi e ritorna ricchezze. Grande mercato per coste e città, eterno vulcano faro di notte, bancarelle, tappeti e piatti, profumi e colori memoria del tempo. Cocalo re contro Minosse, Alfeo e Aretusa che mischiano le acque, Cerere e Proserpina frumento dei campi, Eolo che soffia le gesta d’Ulisse. Erice, Afrodite e di Ercole la forza, Gorgia e Archimede maestri di scienza, storia e leggende di una Terra giardino degli dei. Sono Giufà strumento e diletto, il furbo e lo stupido per come volete, sono il vecchio di una sera di stelle e dei paladini vi porto il racconto, il cunto(5)di tutti, di un’isola madre, dove prendere ognuno che vuole”.
Mamma mia, che bello! Cominciava sempre le sue storie raccontando della Sicilia, della terra prediletta dagli dei, delle sue meraviglie e delle sue leggende. Storia granni di Sicilia, storia di cunti e di canti, storia che diventa leggenda e con la leggenda si mischia e torna storia …Mi perdevo nei suoi cunti, nelle sue leggende, e sognavo ad occhi aperti e volavo, volavo. E combattevo i briganti scesi dalla montagna a terrorizzare la povera gente coi loro larghi cappelli nei bruni crepuscoli. E salivo sul colle con lo schioppo di legno, a riscattare i tristi destini dei nonni nella notte trapunta di stelle e dei lupi alla luna. E poi ancora a rotear di braccia per il mare mistero notturno a cercare l’isola d’alabardi e miraggi, liberato dai giorni con soffi di vento, lontano perduto dall’umana costa per le cale di luce incantata, dove ormeggiati di venture e viaggi, oltre i colori, i galeoni carichi d’oro. Io cavaliere con la mia spada fatata a difesa del quartiere che dorme e non sente le grida e non vede i bagliori del castello assediato!
Contavo i giorni della mia fanciullezza con le visite del mio cuntastorie, del mio Ammula fobbicie cuteddache tornava accompagnato da eroi e avventure.
Quella sera arrivò in ritardo. Tutti i bambini eravamo già seduti per terra ad aspettarlo. Notai subito il suo volto particolarmente stanco e triste. Mangiò poco, bevve il suo bicchiere di vino e si avvicinò lentamente con la vecchia sedia a noi, già pronti ed impazienti. Prima di iniziare i suoi cunti, mi fissò con la sua infinita dolcezza negli occhi, mi accarezzò i capelli e mi disse piano: “Tra non molto, sarai tu a portare le mie storie alla gente”. Non capii il motivo delle sue parole, ma fermai a stento le lacrime.
Poi cominciò: “Viriti carusi (6),sono il vecchio di una sera d’estate, di un giorno che lento mi passa e quando passa è un giorno che manca, per una stagione che ora mi abbraccia e poi mi dice vattene via. Certo è triste essere vecchi, mi impennacchio sempre più spesso di cose e parole, sono un asino senza più forze ed ero contro il vento un cavallo selvaggio, il pane non mastico più e per i miei denti le femmine mi dicevano beddu (7), corre il mondo e non c’è posto per un’anima libera ma sempre più lenta. Ma stasera state ancora seduti, vi voglio ancora cuntari(8)le ultima gesta nel tempo dei tempi, ora che il tempo combatte con me.
E’ chista la storia, è chistu lu cuntu, d’Orlandu lu pupu e di la sò libbirtàe iu vi la cantu e iu vi lu portu pi strati e teatri e chiazzi e città (9). Come il vento Orlando è una rondine, con le sue ali vola nei sogni e quando torna è già primavera, ci porta i fiori della libertà. Canta la pace e suoi mille colori e con la luna si nasconde e poi torna, trascorre i giorni cercando la vita coma compagna di grande ventura, spera il mondo senza padroni. Come il vento Orlando è carezza che lieve ci sfiora nei giorni di marzo e porta la pioggia che i campi disseta e porta sementi con soffio leggero, con suoni e tamburi accende il cielo. Canta le genti unite e bandiere che rosse di sangue conquistano terre e luce e amore per sempre nel tempo contro catene che straziano il cuore, il sole che sorge nei giardini d’aranci. E’ chista la storia, è chistu lu cuntu, d’Orlandu lu pupu e di la so libbirtà e iu vi la cantu e iu vi lu portu pi strati e teatri e chiazzi e città ”(9).
Che storia strana, bellissima! Non era più un cunto, era una poesia. Non riuscivo ancora a capire che mi stava lasciando il suo grande testamento di libertà e di giustizia e me lo lasciava con il mio eroe preferito, Orlando paladino.
Ero troppo preso da Orlando lu pupu che a li pupari si voli ribbillari (10), un po’ squilibrato ma senza paura. Cantu d’Orlandu ca pi la bella Angelica furrìa lu munnu pazzu d’amuri (11), prendevo la sua durlindana e via a girare per boschi e per campagne, per valli e per montagne mostruose e strane.
Orlando ero io e incontravo bestie feroci e scappavano le genti, sprofondavano le case, nudo contro i giganti combattevo la sua guerra, selvaggio paladino bruciato dal sole, contro i mori e il suo destino. Ero troppo preso dal mio Orlando e non capivo, ancora non sazio. E poi Orlando si trasformava in Lancillotto e l’amore per Ginevra. E mi ritrovavo con lui a Camelot, con i cavalieri della tavola rotonda in Cornovaglia, con Artù e la sua eterna Excalibur e con Merlino a combattere Morgana e le sue pozioni di ali di pipistrello e pelle di serpente. E nella consumata lotta del bene e del male cavalcavo per fiumi di pianto e guerre e fuoco e terre abbandonate, in groppa al bianco destriero gloria di vento, come Parsifal della mai perduta speranza. Lancilotto, Artù, Parsifal, Orlando, non ero ancora sazio.
“Dai Ammula fobbici, raccontami ancora d’Orlando e della sua armatura d’argento e d’oro fino”!
Era troppo stanco. “Basta carusi, tornate alle case. Finisce il giorno e finisce il racconto, il racconto di una vita già data. Se domani c’è tempo, vi continuo la storia”.
Lo aspettai per molto tempo, non tornò più. E diventò leggenda nelle mie fantasie di bambino.
Lo immaginavo in groppa al suo mulo e con il suo forziere di tesori inimmaginabili ad inseguire il sole per città e paesi meravigliosi, per terre e storie lontane. Lo vedevo per le città marine innalzare il suo bicchiere di vino e conquistare contrade al chiaro di luna con abiti principeschi e ricamati d’oro. Ero certo che volava su tiranni e carcerieri, a difendere i cervi dei boschi dai suoni dei corni di caccia, a combattere sortilegi e spade incandescenti donando frutti e prodigi popolari, a liberare i greggi per i sentieri degli avvoltoi.
E la sera, quando stanco dei giochi mi mettevo a letto, sentivo sempre la sua dolce ninna nanna arrivarmi dalle stelle, a proteggere il cortile dall’assalto delle insidie nella notte:
durmiti stanchi, picciriddi di lu quarteri, durmiti beddi, sutta l’ali di la mamma. Durmiti saggi, li briganti li mannamu nui, c’è ancora tempu pi li spati contru lu munnu. (12)
Ancora oggi, con il quartiere scomparso e le strade svanite nelle pieghe degli anni, resta la mia vita al ricordo del suo canto, cerca ancora la sua bianca barba per le piazze dell’incanto: ammula fobbici e cuteddaaaa!
- 1) Vanniata: grido dell’imbonitore che offre i suoi servizi o vende la sua merce
- 2) Affila forbici e coltelli (grido di presentazione dell’arrotino)
- 3) Sentite, sentite, sentite! Sono scesi i briganti a Lentini e i bambini monelli hanno rapito
- 4) Venite ragazzi
- 5) racconto
- 6) Vedete ragazzi
- 7) bello
- 8) raccontare
- 9) E’ questa la storia, è questo il racconto, d’Orlando il pupo e della sua libertà. Ed io ve la canto ed io ve lo porto per strade e teatri e piazze e città.
- 10) il pupo che ai pupari si vuole ribellare
- 11) Canto d’Orlando che per la bella Angelica gira il mondo pazzo d’amore.
- 12) Dormite stanchi, bambini del quartiere, dormite belli sotto le ali della mamma. Dormite buoni, i briganti li cacciamo noi, c’è ancora tempo per le spade contro il mondo
C’è dentro tutto il ricordo del teatro visto dagli occhi di un bambino. In più i cantastorie, i pupi e tutto il senso di una tradizione che è quasi del tutto scomparsa. La malinconia dello sguardo infantile, perduto ormai nelle cure del mondo adulto, fa tutt’uno con il senso di perdita di un mondo antico eppure vicino.
Bellissima questa struggente storia piena di poesia. Si percepisce il gusto “magico” dei ricordi di bambino, di quelli che ci accompagnano per la vita. Bedda! Beddissma!
“E’ chista la storia, è chistu lu cuntu, d’Orlandu lu pupu e di la sò libbirtàe iu vi la cantu e iu vi lu portu pi strati e teatri e chiazzi e città ” , davvero belli i tempi nei quali le grandi “storie” riuscivano attraverso i cantastorie e le compagnie teatrali itineranti a penetrare, con il proprio messaggio di bellezz, tutti gli strati della società. Grazie per questo racconto, che definire bello è davvero limitativo, che ci trasmette la poesia del “cunto” .
Grazie per i vostri squisiti commenti.
Il mio vecchio cuntastorie dalla fluente bianca barba sarà contento.