Premio Racconti nella Rete 2019 “Seicento passi dal portone” di Michele Emidi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019Dove vivevano Dario, Luigi e Sofia era assolutamente vietato anche solo toccare quel portone, figuriamoci aprirlo.
Era sempre stato così, la gente di lì lo sapeva e non osava farlo. Non ne parlava nemmeno.
Ma da un po’ di tempo a questa parte i bambini, i bambini erano curiosi, soprattutto i tre. Come succede quando una cosa viene vietata, accresce la curiosità, l’interesse e il sano senso di pericolo per il proibito.
Il portone era come molti se ne vedevano da quelle parti. Oscuro, cupo, enorme e gigantesco, annerito e screpolato come una miseria.
Si erano già avvicinati molte altre volte al portone, sempre a debita distanza, ma i grandi vi troneggiavano intorno e non poterono mai tentare di aprire il portone.
Il desiderio di farlo era sempre più crescente, soprattutto, a parte il divieto, per il mistero che questo celava. Chissà cosa si nascondeva dentro e dietro quel portone. Perché i grandi non volevano che si aprisse? Non consentivano di farlo da sempre o c’era stato un periodo per cui si poteva? Secondo i bambini si, c’era stato un periodo in cui era consentito aprirlo o era stato fatto, anche perché se no di conseguenza non ci sarebbe stato il derivato divieto.
Qualcuno doveva pur sapere cosa occultava, qualcuno molto tempo prima di allora deve aver visto cosa appariva dentro.
Come fare per entrare? Quando farlo? Sicuramente il frangente migliore era la notte fonda o il mattino prestissimo, prima dell’alba.
I tre bambini, Dario, undici anni, Luigi, nove anni, e Sofia, otto anni, erano tutti e tre magri, pallidi e smunti, con grandi occhi, azzurri chiari quelli di Luigi e Sofia e neri quelli di Dario.
Luigi e Sofia avevano entrambi capelli biondi cenere, folti e quasi ispidi mentre quelli di Dario erano neri, ricci e arruffati, per quanto potessero essere i suoi capelli tagliati cortissimi.
Dario, Luigi e Sofia erano piazzati proprio davanti a quel portone, quando passò una vecchia magra, pallida e gibbosa, dal mento appuntito, con i capelli giallicci quasi grigi sulla fronte rugosa e vacillante sulle gambe, gli occhi chiari di vetro, che appena li vide mormorò qualcosa su come il passato torna sempre a galla e chiede il conto, o qualcosa del genere, del profeta Isaia.
Poi la vecchia si chinò e proseguì il suo tragitto, la bocca le tremava per il gelo.
I tre ragazzini, vestiti tutti uguale, fecero una risata maliziosa e poi disparirono e scapparono via.
Il giorno dopo si avvicinarono sempre di più a quel portone fino a quando la sua sagoma si profilò davanti loro.
I tre bambini indugiavano davanti al portone, guardandosi, con le braccine penzoloni lungo i fianchi, immobili e infreddoliti.
Dario allora provò a spronare Sofia, la più piccola, perché aprisse il portone ma lei aveva paura e ne era intimorita.
Così Dario le dette un buffetto sulla spalla, simile ad un offesa, come per scansarla ed esclamò con modi sprezzanti: «Levati dai, guarda come si fa, cosa ci vorrà tanto ad aprire questo portone!».
La bambina arrossì e abbassò gli occhioni e quando Dario si accorse di averla offesa si scusò con lei.
Poi si avvicinò al portone, con gesti beffardi, sotto lo sguardo sorpreso e impaurito degli altri due, abbassò la maniglia, provò a spingere in senso opposto ma il portone improvvisamente cigolò e scricchiolò, lancinante e straziante. Da qualche parte arrivò il grido irrequieto di un uccello misterioso che vaneggiava, un gemito mesto, incerto e vago: un crocidare rauco e stridente come un carro appesantito da un pesante carico.
Immediatamente i tre bambini balzarono indietro con gli occhi scintillanti e si spaventarono, anche Dario, il più grande ed apparentemente il più coraggioso, lasciò la presa sul portone, e iniziarono a correre nel senso opposto del portone per scappare percorrendo i seicento passi che li separavano, veloci come dei proiettili.
La sera con i loro genitori non fecero parola di niente.
Ma fu la madre di Dario che, mentre mangiavano, disse: «Sembra che ieri sera qualcuno abbia provato ad aprire il portone!».
Dario se ne stava a testa bassa davanti al piatto. La madre continuò e lo incalzò: «Ne sai niente tu?».
«No…» rispose epigrafico e lapidario il bambino.
«Sicuro?» lo rintuzzò la madre.
«Si. Perché?» le domandò Dario con stupore sugli occhi svegli.
«Perché si da il caso…, sembra che la signora Luzzatti vi abbia visto ieri nel tardo pomeriggio proprio intorno al portone».
«E che c’entra? Stavamo giocando lì intorno. E poi quella mamma lo sai, è vecchia e rincoglionita».
«Dario non ti permetto di parlare così. La signora Luzzatti non è vecchia, e nemmeno anziana, purtroppo è rimasta vedova da poco, lo sappiamo tutti cosa è successo a suo marito, perciò…».
«Si mamma, scusa, hai ragione, comunque non noi c’entriamo niente con il portone, si sarà sbagliata, avrà visto qualche altro bambino, ce ne sono tanti qua!».
«Va bene Dario ti credo ma mi raccomando! Non vi dovete neppure avvicinare a quel portone!».
«D’accordo mamma» promise Dario con l’espressione supplichevole di non essere punito.
Seguì un profondo silenzio. Fuori la neve cadeva a fiocchi grossi e il gelo era forte.
«Mamma, me la dici una cosa?».
«Dimmi…».
«Ma perché non ci si può avvicinare a quel portone? E perché non si può assolutamente aprire?».
«Non lo so Dario, non lo sappiamo nessuno, è così e basta. È sempre stato così. Da sempre!».
«Non ti credo!».
«Non credi a tua madre? E a tuo padre?» esclamò il padre che sino a quel momento se ne era rimasto zitto assorto nei suoi pensieri con le spalle curve.
«No non vi credo! Voi lo sapete perché nessuno si può avvicinare, ma non me lo volete dire!» disse Dario con voce velata di delusione e quasi rotta dal pianto imminente.
«Non ti permetto di parlare così a tua madre!». I due genitori si guardarono con espressione neutra.
Non finì neppure di mangiare quel piatto frugale che Dario si alzò e quasi con le lacrime agli occhi andò a dormire, con la precisa e motivata intenzione però di lì a qualche giorno di andare ad aprire quel maledetto portone. Ormai si erano avvicinati così tanto che non potevano mollare proprio adesso, pensava Dario.
Avrebbero fatto passare un paio di giorni per non destare sospetti e poi si sarebbero avvicinati di nuovo al portone e lo avrebbero aperto definitivamente. Se lo promise con tenacità. Una sorta di tacita promessa per Luigi e Sofia. Contro tutto e contro tutti.
Il giorno dopo, quando si incontrò con gli altri due bambini, ne parlarono e decisero che avrebbero agito il mattino seguente, all’alba, per non farsi vedere da nessuno.
Parlavano tra di loro, con la testa bassa e le braccia rigide abbandonate sui fianchi.
«Ma sei proprio sicuro Dario di farlo? I grandi ce lo hanno sempre vietato» gli chiese Luigi, sempre più pensieroso.
«Cosa fai, ti tiri indietro proprio adesso che ci siamo quasi riusciti? Non fare il fifone Luigi. E tu Sofia, ci stai?» le domandò lui con tono sempre più persuasivo.
La bambina nutriva un affetto sconfinato per lui. «Si» rispose con voce sottile Sofia, bianca e graziosa come un narciso. Poi inclinò la testina di lato e guardò Dario con un’ infantile espressione, mite e perplessa.
«Se lo sanno i grandi ci ammazzano!» si era messo a farfugliare Luigi, balbettando, ma dopo l’adesione di Sofia sempre più vicino a farsi convincere.
«Non lo sapranno mai» rimarcò Dario spostando il peso del corpo da una gambina all’altra.
«Va bene, ci sto pure io allora!» disse Luigi dopo un altro attimo di esitazione.
«Allora siamo d’accordo, domani mattina prestissimo andiamo!» concluse Dario con un gran sorriso sulle labbra.
Pianificarono tutto nei minimi dettagli. Non potevano e non volevano tornare indietro.
Arrivò finalmente il grande giorno. All’alba si trovarono tutti e tre, vestiti uguali, direttamente davanti al portone.
«Ci siamo» bisbigliò Dario guardandoli con sguardo penetrante.
Si avvicinarono sempre di più fino a toccarlo. Toccava a Luigi aprirlo, il più grande, il più coraggioso, il più scafato. Fece un respiro profondo. Gli altri due gli stavano vicino, accarezzando il portone come se fosse di velluto.
Si guardò il braccio sinistro e si fece forza. Si fece il segno della croce. Ad un tratto si decise. Afferrò la maniglia e la strinse con forza, spinse forte il battente del portone nella direzione opposta alla sua, era pesante, ma spingeva sempre più forte.
«Forza!» lo incitò Luigi.
«Non rinunceremo proprio adesso!» convenne Dario sicuro e risoluto.
Sofia lo ammirava con le pupille dilatate, senza fiatare per l’emozione, rivolgendogli uno sguardo di gioia e paura.
Poi Luigi e Sofia, ormai completamente eccitati, lo aiutarono a spingere, metà del portone era aperta, spingevano sempre più forte, e sollevavano e abbassavano le loro sottili gambine quasi correndo, finché, cigolando e scricchiolando come la volta precedente, il portone non si aprì completamente del tutto. I loro cuori battevano forte e sembrava di udirli in quel cupo silenzio.
La prima cosa che fecero tutti e tre fu di strizzare gli occhi perché abbagliati. Poi spalancarono la bocca e rimasero letteralmente a bocca aperta. Tutto spiccava abbacinante e incandescente. Rabbrividirono.
Sofia sgranò i suoi grandi occhi che erano diventati come il carbone, e contemplò lo scenario che le era apparso davanti.
Luigi, anche se era più piccolo di Dario, era il più sveglio dei tre e per certi aspetti più intelligente e osservatore. Si chiese subito del perché sembrasse che al di la del portone non ci fossero muri, o solai, dietro e oltre un portone di solito ci sono questi elementi strutturali…pensò. Ma poi i suoi pensieri vennero improvvisamente spenti perché fu preso da Dario e da Sofia e scaraventato in mezzo a loro, iniziarono a correre, a saltare, a spingersi, giocavano e si strattonavano, tutti e tre vestiti uguali.
La neve scricchiolava sotto i loro piedini e si rallegrarono quando li sentirono affondare nella neve. Gettarono via i loro berretti di tela, felici come pasque, gioiosi e soddisfatti per l’emozione di aver realizzato il loro desiderio mentre il bagliore continuava.
Tutto intorno era vuoto e silenzioso come un cimitero e desolato come un campo minato.
A seicento passi di distanza i genitori dei tre bambini non vedendoli rientrare per l’ora di pranzo si preoccuparono e si inquietarono e la paura li assalì immediatamente fino a stringere loro il cuore.
Gli sguardi sospettosi e allarmanti dei grandi caddero immediatamente in direzione del portone.
I genitori pensarono al peggio. Cominciarono a cercarli da tutte le parti, anche tutti gli altri, i grandi, si misero a cercarli, aiutati a sua volta.
I tre bambini erano arrivati sull’alto dirupo che segnava i confini. All’una e quarantadue del pomeriggio furono trovati su un alto promontorio che si affacciava sul mare, davanti ad una magnifica vista mozzafiato, a due chilometri di distanza.
Erano stati fucilati, erano vestiti tutti e tre uguali, a righe, con il numero identificativo cucito sopra il cuore e marchiato sul braccino sinistro.
Bello e inquietante questo racconto. Quale sarà la sua morale? Forse i portoni e le tristi esperienze del passato è bene che rimangano aperti e vivi nella memoria affinché le nuove generazioni inconsapevolmente non ricadano in tragici errori di valutazione.
Bello e struggente. Correggimi se sbaglio. Ho pensato a tre bambini palestinesi della striscia di Gaza che a causa della loro innocenza e curiosità hanno attraversato il confine proibito.
La storia è talmente intrigante al punto da farti rileggere il testo una seconda volta per individuare particolari che possano svelare il luogo in cui si svolge il racconto. L’atmosfera è inquietante, e alcuni dettagli mi fanno pensare a un campo di concentramento. Ma potrebbe anche trattarsi di una metafora. Bravo Michele.
Una storia della memoria ma anche purtroppo tragicamente attuale. Non ho capito se la scelta di usare interlinee così ampie faccia parte del progetto. Comunque un racconto toccante
L’ho letto incuriosita fino alla fine ,al termine sono rimasta un’attimo senza parole.
Finale ad effetto,con un insegnamento importante, che ci riporta sentimenti e stati d’animo della storia passata che non andrebbero mai dimenticati.
Brava,l’ho trovato molto bello e toccante
Complimenti Michele, per tutto quello che hai messo in questo racconto. La curiosità, la fretta e l’irruenza dei bambini contro il realismo pratico e l’immobile rassegnazione dei grandi. La differenza fra vivere e sopravvivere e il suo prezzo. E un bellissimo inganno di prospettiva che sorprende il lettore come i tre bambini, e lo porta a non dimenticare.
Io ti dico solo poche parole. Toccante, doloroso e purtroppo verissimo e attuale. Mi hai rapito
Nella mia testa, lentamente, l’immagine di tre bambini che giocano nel cortile condominiale si è trasformata in qualcosa di più grigio, triste, immobile. Il finale dilania il cuore, insieme alla consapevolezza che non si tratta di qualcosa lontano da una realtà che è stata. Sono tornata indietro per guardare con occhi nuovi la signora Luzzatti, il suo invecchiamento, la sua vedovanza. Bravissimo Michele.
Confesso che alla fine mi è venuta una pelle d’oca alta così! Gentile Michele, lei ha scritto una cosa bellissima che sfiora così tanti temi da rendere impossibile parlarne qui con l’attenzione dovuta. Però un commento è un commento e allora ci tengo a dire che nonostante tutto voglio vedere una luce in fondo: il coraggio incosciente dei bambini sa aprire porte e portoni che da grandi impariamo a temere, ma se conservassimo un poco di quel coraggio certe cose forse non accadrebbero più. Bravissimo Michele!
Bellissimi, sono arrivato alla fine senza fiato.
Già avevo commentato. Meritatissima vittoria Michele, complimenti!