Premio Racconti nella Rete 2010 “La vendetta di Bacco” di Federico Toniolo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Non voglio più pensare ai suoi occhi rubati al cielo,
ai suoi capelli color del fieno.
Voglio il tuo veleno.
Sono liquide le ali che mi si spiegano tra le mani,
volano oltre la paura del domani
grazie al tuo veleno.
Oh tu dio che balli solitario nell’Olimpo,
tu che bagnandomi asciughi le lacrime sul mio volto:
raccontami un’altra storia!
Corrompimi la memoria!
Fammi ridere,ridere,ridere…
Affogare di gioia.
Quando il vetro torna nudo e trasparente
Alle mie spalle non c’è più niente.
Resto preda di un presente rosso veleno.
Fammi ridere,ridere,ridere…
Ho solo due certezze:la prima è che quella che ho stappato è la mia ultima bottiglia,la seconda è che ho appena ucciso un uomo.
Mentre la pura trasparenza del vetro si tinge di un corposo rosso rubino,penso che sono passati più di quaranta giorni dall’ultima volta che ho versato del vino in un bicchiere;dico penso perché di quell’ultima volta,ora penultima,non ricordo assolutamente se io come un pittore abbia usato questo medesimo colore o se quel giorno il quadro che mi rappresentava risplendeva di una tonalità ambrata come cognac o di una lucida patinatura come grappa…non ricordo nulla.
Ciò che ricordo è che mi svegliai due giorni dopo in ospedale:il medico disse che se volevo continuare a vivere avrei dovuto smettere immediatamente con l’alcol. Me n’ero convinto,non appena uscito comprai una gran quantità di barattoli in latta di fagioli e ceci,scatole di sardine,sgombro e carne in gelatina,cinque o sei sacchetti di riso e quattro stecche di sigarette nazionali,una volta tornato a casa chiusi la porta giurando a me stesso di riaprirla soltanto quando mi fossi sentito libero da quel vizioso cappio che si stava stringendo sempre di più ma dal quale volevo scappare.
Fu dura. Nei primi giorni di battaglia all’astinenza crisi isteriche degne di una donna al nono mese di gravidanza si alternavano ad interminabili minuti di depressione acutissima ed attacchi d’ansia che mi facevano stendere supino in cerca di ossigeno e con le unghie che raschiavano il pavimento;spesso dopo questi picchi di panico rimanevo così,immobile per ore,disteso a terra con lo sguardo fisso al soffitto,la mente attenta a percepire ogni lieve rumore o fruscio dall’esterno,ma il più delle volte mi ritrovavo ad ascoltare solo il battito del mio cuore mentre le gocce di sudore che scendevano dalla fronte fluivano nelle lacrime formando un rigagnolo che finiva accarezzandomi i lobi delle orecchie.
Con il passare dei giorni cominciai a sentirmi meglio,o almeno a sforzarmi di convincermi di questo:la nausea sparì lasciando spazio ad un timido appetito e cercai di limitare l’uso delle sigarette che nei giorni precedenti era stato a dir poco esagerato,tanto che riuscivo a sentire l’odore del tabacco sulle dita anche dopo che rimanevo immerso nella vasca da bagno per lunghi lassi di tempo. Già…il tempo.
L’unico orologio lo ruppi al settimo giorno di clausura lanciandogli addosso una lattina di ceci durante un assalto d’isterismo e da lì mi regolai con una vecchia clessidra che tenevo come soprammobile:aveva una struttura di legno color rovere che sosteneva la parte in vetro a sua volta contenente una finissima sabbia bianco perla,e,devo confessare,fu proprio quella clessidra ad indicarmi che tutto quel che stavo patendo portava nella direzione giusta.
Lo capii quando guardando la sabbia che scorreva da un’ampolla all’altra notai la somiglianza tra la fluidità di quei piccoli frammenti minerali ed un liquido che scende dal collo di una bottiglia per colmare un bicchiere:nella clessidra una volta riempito un recipiente basta girarla sottosopra ed il tempo riparte,nella bottiglia una volta che il recipiente è vuoto non c’è più niente da fare,il tempo è sparito,ed io,disgraziatamente ne avevo perso veramente troppo.
Questo ragionamento mi diede forza,era la prima volta che mi rendevo conto che stavo finalmente utilizzando il tempo per qualcosa di utile,per ritrovare la libertà che avevo perso diventando schiavo di un vizio che mi aveva tolto troppe giornate in cui potevo dedicarmi a qualcosa che avrebbe potuto rendermi un uomo migliore. Da quel momento cominciai a farlo.
Solo Dio sa quanto adorassi girare la clessidra tra le dita,quanto sentissi mio ogni granello di sabbia che conteneva;cominciavo ad essere padrone di me stesso.
I numeri sul calendario si susseguivano,le crisi di nervi sparirono così come dalla finestra vedevo scomparire il sole dietro ai tetti delle case che con la loro ombra oscuravano la mia,mi sentivo più energico,allo specchio mi vedevo più bello e quando mangiavo il riso con i fagioli o con lo sgombro non sentivo più la mancanza di una bottiglia di vino al posto della caraffa dell’acqua.
Tuttavia non ero ancora sicuro di essere guarito:il pensiero di uscire mi creava dell’ansia,mi domandavo se un volta fuori potevo resistere alla tentazione che mi avrebbe fatto ricadere nel baratro,ma più guardavo la clessidra più mi rendevo conto che il tempo passava e,come tutti sanno,il buon Dio ci creò perfetti ma non infiniti. Era ora di prendere un po’ d’aria.
Aspettai la notte,le ore scure e silenziose,quelle in cui ogni uomo si pone domande cercando di trovare risposte nel bagliore della luna;appena varcai la porta respirai a pieni polmoni,l’aria era fresca,buona,aria di rinascita,di una nuova vita.
Le vie del paese erano deserte ed io percorrendole mi sentivo un forestiero che le imboccava per la prima volta,notai scorci e particolari ai quali in tanti anni non feci mai caso.
Fu attraversando il ponte che incrociai quell’uomo:barcollava vistosamente e rideva apparentemente senza senso,man mano che mi avvicinavo a lui si faceva più evidente un alone di piscio che gli bagnava il cavallo dei pantaloni e nell’aria si spandeva un marcato fetore di alcool;quando si accorse di me si fermò,mi guardò e mi chiese una sigaretta,io non risposi,pensavo alla clessidra,al tempo perso in passato quando anch’io mi riducevo così,lui rise ancora,perse l’equilibrio e nonostante fosse caduto continuava a ridere. Continuando a guardarlo mi venne in mente che pure io quand’ero ubriaco provavo un gusto indescrivibile nel ridere,passavo notti intere a ridere senza saperne il motivo ma provando un senso di benessere che da giorni non sentivo più,da quando mi chiusi in casa non risi una volta ed anche in quel momento,sforzandomi,non ci fu verso di trovare gli stimoli per una risata,nemmeno per aprire una lieve fessura tra le due labbra accennando un sorriso.
Non riuscivo più a ridere:stando isolato non me ne resi conto ma la realtà esterna mi crollò addosso con tutto il suo peso non appena tornai ad assaporarla;e lui rideva con quella sua faccia sformata da smorfie animalesche,non lo sopportavo più,lo invidiavo,lo odiavo:gli diedi una forte pedata sul costato,poi un’altra,una ogni volta che cercava di rialzarsi,i suoi storcimenti di bocca chiedevano aiuto ma in quegli attimi di foga mi sembrò di vederlo ancora ridere,lo feci tornare in piedi e strinsi con tutta la mia forza le mie mani attorno al suo collo fino a quando non si dimenò più,lo mollai di colpo e cominciai a correre come un cavallo in preda alla follia.
Una volta stanco andai all’osteria che apriva all’alba,presi una bottiglia di vino ed ora eccomi qui,che finisco di scrivere la mia confessione con davanti quella stessa bottiglia ormai vuota.
Ho ridotto la clessidra in mille pezzi,tanto ora il tempo non mi serve più,e,dato che quel tempo era mio,ho solo fatto si che nessun altro possa utilizzarlo.
Non appena finirò di scrivere anche la bottiglia finirà in frantumi:userò il frammento più tagliente per recidermi i polsi,il rosso del vino e quello del sangue si uniranno un’ultima volta…e forse allora riuscirò a ridere.
Alla stazione di polizia il sole faceva brillare l’opaco vetro delle finestre.
-“Commissario,abbiamo trovato un cadavere,si tratta di suicidio. La vittima ha lasciato uno scritto,vuole leggerlo?”
-“Ma figurati!Butta via,saranno le solite stronzate:la donna l’avrà lasciato,la vita non aveva più senso,bla bla bla,bla bla bla…”
-“Ok…Ah!nei pressi del ponte c’era il solito barbone,aveva dei lividi e continuava a dire di essere stato aggredito da un pazzo che voleva ucciderlo.”
-“Ma vaffanculo va!Che beva di meno quel randagio. Se qualcuno lo ammazzasse ci farebbe solo un piacere…Portami un caffè va,stanotte ho dormito proprio male”.
l’ho letto con piacere, soprattutto per l’uso delle immagini e dei dettagli. noto una contrapposizione forte fra la prima parte, avvolta di speranza, e la seconda, dove è del tutto assente.
in bocca al lupo!
Giovanna