Premio Racconti nella Rete 2010 “Ba” di Gabriele Benucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010“E’ lei. Ne sono sicuro”. Quando Stefano Ciccone guardò la foto, furono queste le uniche parole che pronunciò. Lo fece senza apparente commozione. Ma lo studente che aveva fatto scivolare il ritratto sul tavolo aveva visto brillare gli occhi dell’uomo che aveva di fronte.
Alle poche parole seguì il silenzio, immobile, tranne che per il movimento del pollice con cui Stefano Ciccone carezzava il volto della madre a distanza di venticinque anni.
“Adesso dov’è?”, domandò con gli occhi fissi negli occhi che lo guardavano da dentro la foto.
“In aereo, in viaggio verso Ciampino con i miei colleghi”, rispose lo studente.
La vista dei divanetti dell’aeroporto in stile anni Settanta liberò un ricordo che riemerse improvviso come un pallone dall’acqua. Lui e sua madre, da soli, in cucina. Il tavolo di formica verde coi piedi di metallo, le sedie in coordinato, le tende a onde arancio e marroni. Lui si era appena alzato e si era seduto davanti alla tazza di latte già pronta. Sua madre, di spalle, con un vestitino nero a grandi fiori rossi, stava asciugando una pentola. Restò così a guardarla, senza parlare, finché non si accorse di un sussulto che le scuoteva le spalle. La vide strusciarsi una mano sugli occhi e voltarsi verso di lui.
“Zio Mario ha avuto un incidente. Se n’è andato. Devo partire a Pechino”, gli disse.
Zio Mario: il più simpatico, il più colto, il più amato dei cinque fratelli di sua madre. L’ingegnere al lavoro in Cina per conto dell’Eni. Morto. I suoi occhi di bambino si riempirono di lacrime. A dieci anni si piange ancora per il dolore degli altri e lui piangeva per quello di sua madre.
Scese dalla sedia e corse ad abbracciarla. Fu l’ultima volta.
L’aveva cercata per anni. Prima con l’aiuto degli zii, una volta maggiorenne, da solo. Aveva inoltrato domande su domande, per ottenere che la polizia locale se ne occupasse. Poi, attraverso il consolato italiano, aveva fatto circolare centinaia di foto. Ma non era mai riuscito ad avere notizie. Solo una volta, dal Wang Tong, era arrivata una segnalazione. Ma poi più niente. I suoi viaggi in Cina si erano succeduti mese dopo mese, anno dopo anno, con cadenza sempre ridotta. Fino a spegnersi, quindici anni dopo la scomparsa, come la speranza di ritrovarla.
In tutto quel tempo la vita di Stefano Ciccone era continuata. Ma solo ora che stava per incontrare di nuovo sua madre, guardandola dal punto in cui si trovava, sentiva che questo non era vero. In realtà era rimasta ferma. Certo lui si era sposato, aveva ora due figlie, un lavoro. Ma tutto si era svolto come in un sogno. La realtà vera era un’altra. Ed era puntuale, senza estensione, senza uno sviluppo. Come una puntina su un disco graffiato, la sua vita era inceppata in un punto. Era bloccata al tredici giugno di venticinque anni prima, il giorno in cui aveva visto sua madre partire.
Per chi rimane, in qualche modo, la morte è un punto fermo. Lui, invece, Stefano Ciccone, quel punto fermo non ce l’aveva, perché a lui mancava la certezza che dà la morte.
Lo scosse l’annuncio del volo in arrivo. Per un attimo vide se stesso, minuscolo, riflesso nell’immensa vetrata convessa che dava sulle piste. Poi l’aereo entrò nel suo campo visivo. Lo seguì con lo sguardo finché toccò terra scomparendo oltre gli hangar. Fu allora che affiorò un altro ricordo. Era con sua madre, in quello stesso aeroporto. Aspettavano che lo zio Mario arrivasse. L’aereo traversò la stessa porzione di cielo. Poi sua madre lo trascinò via correndo fino agli arrivi internazionali. Quando zio Mario si affacciò i due si corsero incontro. Un abbraccio ed un bacio.
Zio Mario era bello. Alto, prestante, occhi neri e profondi. Sua madre ne parlava spesso anche quando era dall’altra parte del mondo a lavorare. Lo faceva per contrasto: per sottolineare l’inettitudine del marito, morto alcolizzato qualche anno prima.
Per Stefano Ciccone era difficile pensare che la madre fosse rimasta in silenzio per venticinque anni. Ma era questo che gli avevano detto gli studenti dell’università di lingue orientali di Napoli, quelli che l’avevano trovata. Raccontavano che nella fattoria che l’ospitava tutti la credevano muta. D’altronde nessuno aveva cercato più di tanto di parlare con “Ba”. Da sempre era lì e da sempre le sue uniche parole erano quel monosillabo. Ad un tratto Stefano Ciccone si rese conto che la sua sofferenza, il suo personale dolore di figlio erano tutti lì, concentrati in quella espressione da ebete. Non concepiva che sua madre, un tempo donna spigliata e attraente per il modo limpido e naturale che aveva di esprimersi, fosse ridotta così. Cercava una ragione. Ma in realtà lo faceva da sempre. Da quando lei, quarantacinquenne, era scomparsa dall’hotel Bejing per non farvi più ritorno. L’usciere era l’ultimo che l’aveva vista. Vestita di nero, aveva pagato la camera e fatto chiamare un risciò. Era salita e si era immersa nel traffico pechinese d’inizio sera, globulo rosso nel sangue della città. Le sue tracce erano continuate flebili, ancora per un’ora: il tempo di arrivare all’obitorio, firmare qualche carta e far caricare il corpo del fratello su un’auto mortuaria. Poi il nulla. Persa ogni traccia. Venticinque anni di assenza che a lui bambino, a lui adolescente e infine adulto, avevano lasciato solo un profumo, che si aggirava come un fantasma dentro ad un vecchio maglione.
Gli studenti l’avevano avvertito:” Non si aspetti qualche reazione quando la vedrà”. E lui, Stefano Ciccone, si era aggrappato a questa affermazione come un naufrago ad un tronco di legno. Con la mente aveva vissuto quel momento migliaia, milioni di volte. Ora aveva paura. Paura di ricordare.
Il primo che uscì lo riconobbe subito. Era Antonio, lo studente barbuto con cui aveva parlato in videoconferenza: lo stesso che gli aveva raccontato ciò che aveva saputo alla fattoria. Chi ancora possedeva memoria dell’accaduto, diceva che Ba era apparsa una sera sotto il grande albero che delimita il confine nord della proprietà. Se ne stava seduta con le gambe incrociate, zuppa di pioggia. Muoveva ritmicamente il busto avanti e indietro e ritmicamente pronunciava quel monosillabo: come una preghiera, come un tantra indiano, all’infinito. Le rivolsero qualche parola che restò senza effetto. Poi l’aiutarono ad alzarsi e lei, docilmente, si fece sostenere mentre le sue gambe esili tentavano di reggere il peso del busto. Pesava poco più di trentacinque chili. Il mattino dopo, tornando a cercare qualcosa, qualsiasi cosa che potesse darle un’identità, a poca distanza dall’albero trovarono un corpo, ormai decomposto, adagiato dentro a quello che era stato un lenzuolo. Chi l’aveva accolta affermava di aver informato le autorità senza che questo sortisse alcun effetto. Così, passati sei, otto, dieci mesi, Ba iniziò a far parte del paesaggio domestico della fattoria. Fino a mimetizzarsi. Totalmente. Fino a scomparire agli occhi di tutti.
Antonio gli fece un cenno con la testa, indefinito, che poteva significare da: “Ehi, come va!”, a “Coraggio, ce la puoi fare…”, fino a “Andiamo, dai, che aspetti!”. Ma Stefano Ciccone non si dette pena di trovare un’interpretazione attendibile: per quanto lo interessava in quel momento, poteva essere stato un movimento inconsulto del capo. E difatti non si curò neanche di rispondere, eventualmente. Il suo sguardo era fisso sul portellone antipanico richiusosi alle spalle dello studente. Sapeva che da lì, un attimo dopo, avrebbe visto affacciarsi un volto noto, amato, e al tempo stesso sconosciuto.
L’apertura della porta non gli fece vedere: il sole radente di quel pomeriggio d’estate penetrava come una lama fin dentro i suoi occhi. Poi, procedendo verso di lui, al pari di una Sibilla Cumana, qualcosa prese forma in mezzo al bagliore. Stefano Ciccone pensò di trovarsi faccia a faccia con una figura mitologica. Ma subito dopo gli venne in mente Ben Hur: una biga e il suo condottiero. La porta si richiuse e tutto fu chiaro. Il terzo studente, Lorenzo, un perticone che aveva già visto in foto, spingeva una carrozzella. Sopra c’era sua madre.
Nessuna reazione. Nessun sussulto. Nessun abbraccio. Solo uno sguardo. Intenso come un altro che aveva già visto, molti anni prima, fissarsi negli occhi dello zio Mario. E un movimento, inconsulto, ritmato, ossessivo, della spalla. Finché l’audio di quella scena non riprese, inceppato sul monosillabo.
Solo allora, Stefano Ciccione, tornò bambino.
L’immobile dopopranzo di una domenica estiva. Il suo sonno interrotto da una musica ormai consueta: un disco regalo di zio Mario, infine rovinato da mesi e mesi di ascolto della madre. Silenzioso lui si alza e si affaccia alla porta del soggiorno. La madre balla abbracciata al fratello, mentre una sua spalla oscilla su e giù al rimo della musica. Poi il volto della donna si solleva, lento, indolente finché la bocca non incontra quella del fratello. Il disco continua a cantare fino a incepparsi…
Ba, ba, baciami piccina
sulla bo, bo, bocca piccolina,
dammi tanti, tanti baci in quantità,
la ralla ralla ralla ralla rà.
Ba, ba… ba… ba… ba… ba…
Il finale è inaspettato, sorprendente. E’ una storia lunga decenni condensata in un monosillabo.
Una storia molto bella.