Premio Racconti nella Rete 2010 “Auto. Da sé” di Guido Negretti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Al raggiungimento della pubertà scoprii che nascere maschio non sempre porta grandi vantaggi. Nel caso della donna, infatti, si crea normalmente una rete di “mi hanno detto” e “ti dico” che aiuta ad una gestione della sfera sessuale, sia nella pulizia che nell’utilizzo. Nel caso dei ragazzi, sfortunatamente, questo non succede mai e siamo quindi lasciati in balia di mutazioni a noi previamente sconosciute.
Nessuno, ai tempi degli ultimi abbagli della repressione sessuale moralista, mi aveva insegnato a cosa sarei andato incontro durante quei giorni di caotico movimento degli ormoni. Se oggi è pur vero che ancora si è chiusi nel far accettare ai neosessuati che le pulsioni fisiche nei primi momenti siano rivolte sia agli opposti che agli stessi prima di una scelta finale, rimane innegabile che la facilità di acquisizione di informazioni grezze sul tema renda più semplice il passaggio all’età adulta.
Nel mio caso, piccolo bambino cresciuto in una società ancorata ai precetti cattolici, la sessualità era un tabù non tanto nel suo essere quanto nella sua decifrazione. C’era, ma non veniva spiegata scientificamente, e di esempi ne eravamo pieni, ma nessuno ci aiutava a metter bene in chiaro quelle informazioni.
Mi era perciò difficile non avere almeno qualche immagine freudiana, o meglio ancora labirinticamente minotaurica. La vita in campagna, precisamente in una fattoria, rende subito consci del fatto che gli animali si riproducono in determinati modi e quindi, a contatto con le vacche a quattro zampe (per quelle a due ci sarebbe voluto tempo e denaro), si stampa in fretta un sorriso sulla faccia, anche se tutto risulta comprensibilmente rarefatto.
I genitori ci intimavano di chiuderci nelle stanze, ma la bellezza dei giorni primaverili non lasciava scampo alla vista se non quello di nascondersi sul terrazzo del primo piano e guardare quella bestia nera salire in groppa con tutto il suo peso a quell’altra bestia dal colore marrone. Figli di centinaia di anni dedicati alle feste di Priapo, era difficile per noi soffocare quella risata di sbalorditiva epifania mentre il toro si gettava a capofitto verso l’unico obiettivo di una vita passata a ruminare erba (per gli uomini, invece, è un far tirare il carro ai buoi).
Al tempo avevo un’età di circa sei anni. Dico circa per un semplice motivo, l’assoluta certezza che lentamente la memoria ha iniziato a rarefarsi nelle date, sebbene non nelle immagini di un’infanzia di cui ho solo buoni ricordi. Vi porterò un esempio per farvi rendere conto, nel migliore modo, del tipo di reminiscenze che hanno messo radice nella mia testa: dei primi rudimenti scolastici ho un’immagine chiara della ragazzina di un anno più grande, quegli occhi freddi come il ghiaccio e i capelli neri come le camice su cui sputava mio nonno, e su cui sputo ancora oggi io.
Ho quindi il ricordo ben preciso di quella bambina di cui mi ero non solo innamorato, ma da cui dipendevano i miei primi istinti sessuali che mi hanno portato a fare scelte precise nella ricerca di un’altra persona con cui mimare il gioco del toro sotto le coperte: mai bionde, solo scure di capelli. Forse in questo sta la mia sfortuna, la scelta di quell’elemento della specie femminile che è riconosciuto per avere una maggiore intelligenza, o almeno così dice il detto per cui i capelli color miele sono sintomo di lesione celebrale (cosa che ho poi scoperto essere falsa, a mie spese).
Le donne avevano iniziato ad essere parte fondamentale della mia vita, come sarebbero state le artefici delle mie scelte, dal piano di studi universitario alla ricerca di un lavoro. A quel tempo il mio era solo un affetto emotivo con piccole punte di erotismo che tanto farebbero storcere il naso agli psicologi per la mancanza di un periodo di latenza.
Quello che però mi bloccava era la mia timidezza, e la paura recondita del maschio nei confronti della femmina, frutto di migliaia di anni evolutivi che hanno incastonato nel nostro sangue la frase che spesso dimentichiamo se non quando è troppo tardi: “le donne saranno la nostra rovina, ci ruberanno di tutto e ci lasceranno in mutande”.
Quando la mia pulsione sessuale si fece sempre più invadente, verso i sette anni, il mio cervello decise di indirizzare quelle energie acerbe verso giochi mentali meno lesivi per il corpo, e si instaurò così una ricerca della spiritualità, un’ascesi anticipata che mi avrebbe permesso di dimenticarmi del frutto proibito che ancora non potevo cogliere.
Fortuna volle che fossi nato cattolico, e la forte repressione dei piaceri carnali in questo filone del pensiero cristiano ebbe la capacità di calmarmi e farmi diventare un fervente fustigatore della lussuria, o almeno di quanto potevo immaginare che questa fosse. Dio, mi dicevo, ha superato la presenza dell’organo e della commistione delle secrezioni umorali attraverso lo spirito santo, e anziché lo spermatozoo è bastata la sua parola per mettere incinta una ragazzina di quattordici anni. A distanza di tempo, oggi mi dico che una simile lettera di Dio è stata il prototipo di quella mentalità maschilista, il machismo sessuale, incarnato da quel deprimente romagnolo che faceva avere orgasmi femminili con il solo utilizzo dello sguardo nel periodo prebellico degli anni ’30.
Le mie giornate scorrevano tranquille, ed ogni notte dieci minuti erano dedicati alla monotona pioggia di preghiere rivolte al padre unico, ingravidatore di una minorenne (erano tempi differenti, sia detto). E’ però vero che la cultura poco ha a che fare con la genetica, e se l’intelligenza si dice salti una generazione, lo stesso non funziona con le scariche sessuali.
Mia nonna, infatti, non si lasciava mai scappare la possibilità di fare battute a doppio senso (cosa che ho ereditato), e mi era quindi impossibile sottrarmi dall’ascoltarla e quindi intervenire attivamente. A differenza delle docili mummie che andavano a messa, la mia progenitrice, pur partecipando alla grande chiesa cattolica in qualità di credente, aveva un sano amore per tutto quanto girasse attorno alla più conosciuta rappresentazione priapesca.
La dolce Carolina (questo il suo nome, per chi avesse bisogno di aiuto nella lettura) passava le mattinate con le gambe aperte ed una gonna parcamente occultante, lasciando che lo smutandato infracosce si lasciasse cullare dal venticello frizzante, esattamente in quelle ore in cui dovevo andare a scuola. Questo è quanto mi dicono, e ad essere sinceri non ne ho alcun ricordo, ma credo non sia difficile pensare che la mia mente abbia voluto cancellare quella forma grafica (in caso contrario, dovrei veramente essere un maniaco).
Se l’amore per la risata grassa e la sessualità rivelata l’ho preso da lei, è invece al suo sposo, il buon nonnino bestemmiatore (tra le prime parole che ripetei, fanciullo, si annoverano mimesi delle sue parole), che si deve quella forza erotica capace di sradicare alberi e montagne, altrimenti detta, volgarmente, fame (di cosa, credo sia palese).
Il dolce vecchietto, alla veneranda età di anni ottanta inoltrati, la sera stessa in cui la sua dolce metà tornò a casa dall’ospedale dopo essere stata operata al seno, si rintanò sotto le coperte con lei e, saltando tutti quei preliminari petrarcheschi da dolce stil novo, si lasciò andare ad una sana schiettezza a metà strada tra il Boccaccio e l’Aretino.
Non c’era quindi da stupirsi il giorno in cui anche per me venne issata la bandiera. Inizialmente fu uno shock terribile, con il pensiero che quella parte di me sarebbe rimasta sempre così (pensiero tragico, allora, desiderato invece oggi nell’ottica di un impotente futuro che spero di aggirare). Quando mi accorsi che i vasi sanguinei si svuotano come si riempiono tirai un sospiro di sollievo, ma proprio allora inizia a chiedermi come funzionasse quella nuova abilità di metamorfosi kafkiana che trasformava un bruco in un serpente (o, ad essere sinceri, una pulce in un bruco).
Data l’età era ovvio che alcuni dei coetanei avessero anche loro subito questo cambiamento epocale, e fu uno di loro che mi confidò la tecnica segreta dei falegnami. Fu una rivelazione. Non solo ero in grado di allungarmi a piacere, ma addirittura riuscivo a sputare ad una distanza maggiore di quanto non potessi fare con la saliva. E da questo ne usciva piacere corporale.
Qui si instaurò la tragedia. Come potevo io, fervente seguace della parola del Dio cattolico, dare così tanta importanza al corpo non una bensì due volte al giorno, a cadenza diaria? L’angoscia prese possesso della mia mente, e spesso, quando sentivo il mio corpo allungarsi orizzontalmente, chiedevo scusa a Gesù, rovinandomi anche questi pochi momenti di gestione autonoma del mio tempo. Nulla di peggio esiste al mondo di un Geppetto lavorante depresso.
Straziato e sull’orlo del pianto, mi gettai una sera in un cataclisma di preghiere, un turbinio di auto da fè che scuotevano i fondamenti ultimi della mia fede. Da una parte il desiderio di essere l’uomo allungabile e sputacchiare in santa pace, dall’altra la volontà di seguire i dettami di quei santi uomini che mai e poi mai si lasciano andare al piacere corporale (tranne nel caso di minorenni, ma questa è un’altra storia). E fu così che Gesù mi apparve agli occhi, in una scena degna di Santa Teresa d’Avila.
“Gesù,” dissi, “dolce Gesù, tu che ti sei immolato per noi, tu che hai donato il tuo corpo e la tua vita per la nostra salvezza, tu che con la tua morte ci hai mondato dai peccati, ti prego, aiutami, togli da me questi pensieri impuri e fai in modo che torni nella tua grazia e che mio sia un posto nel regno dei cieli.”
Gesù mi guardò sorridendo, alzò un attimo gli occhi al cielo e scuotendo la socchiusa mano destra a mo’ di saluto, quasi andandosene da me per sempre, disse: “Figliolo caro, che dirti, se te l’ho fatto, sarebbe un peccato non usarlo.”
Testo ironico e scritto molto bene. Bello!