Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Mitsindo” di Valeria Giglioli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Il mio nome è la mia storia. Il mio nome è la coscienza addormentata di un Paese che fioriva e cresceva giorno per giorno nelle mani di Dio, splendente e fiducioso nell’avvenire come quella donna splendente e fiduciosa nell’avvenire che ero io. L’immagine incarnata del mio Rwanda. Una donna sposata, colta, ricca e caparbia, con quattro figli e voglia di farne altri per essere viva, dinamica e giovane fino alla vecchiaia. Fino all’ultimo dei miei giorni, che mi immaginavo si sarebbe consumato lì, sotto lo sguardo materno e allo stesso tempo maestosamente indifferente della verde catena dei monti Virunga.

Il mio nome è la mia forza e la mia rabbia. Quella rabbia che mi spegne e al tempo stesso mi dà la forza di sostenere il peso del mondo, ogni volta che il mondo sembra crollarmi addosso. Cammino in bilico sui miei pensieri che oscillano continuamente tra passato e presente. Mi muovo in questo Paese sconosciuto ad occhi chiusi, seguendo le tracce dei miei ricordi che mi portano sempre nella direzione sbagliata.

Ho fallito. Ce l’ho fatta. Non lo so.

Lascio correre il mio sguardo lungo i binari del futuro, e mi accorgo che il mio passato è un binario morto. Finito così, in mezzo a un deserto. Ho cambiato treno, ho cambiato percorso, ma mi addolora vedere quel binario finito in mezzo al nulla. Quel progetto di vita che avrebbe potuto portarmi ovunque io volessi.

Provo invidia e compassione per queste donne che sono le mie nuove compagne di viaggio. Invidio la loro condizione di donne che vivono in un Paese in pace; compatisco la loro assuefazione alla normalità, l’assenza di quella rabbia che spinge a lottare per aggiungere vita ai giorni.

Ho avuto tutto. Ho perso tutto.

Mi è rimasto solo il mio nome.

Il mio nome sono io. La mia identità è tutta lì. Ed è bloccata, a volte, da una lingua che non conosco e che non mi permette di esprimermi; da una cultura che non capisco, e che non mi permette di espormi.

Sogno il mio Paese come si sognano i defunti. Mi tiene a distanza mentre io vorrei tuffarmi nel suo caldo abbraccio: nell’odore di polvere dei giorni di pioggia, nei profumi intensi dei fiori e della frutta, nei rumori del mercato, nell’eco di voci familiari che non sentirò mai più.

Mi chiedo a cosa sia servito tanto dolore.

In questo Paese non mi riconosco neppure io. L’immagine di me che vedo disegnarsi nella mente degli altri, è un personaggio che non riesco ad incarnare. Sono un libro dalle pagine bianche che giorno per giorno è riscritto da altri. Con le loro parole, con il loro immaginario, con le loro aspettative, con le loro paure, con le loro frustrazioni e le loro cattive informazioni.

Combatto tutti i giorni la mia battaglia con me stessa, per risvegliare il guerriero addormentato che giace ancora nella foresta equatoriale incantata. Ogni giorno faccio sempre più fatica.

Mitsindo assomiglia sempre di più a quell’immagine ridisegnata da zero che altri vogliono regalarmi per evitare la fatica di dovermi ascoltare, capire e conoscere davvero.

Quando racconto la mia storia, ho sempre la sensazione di intervenire in un discorso già chiuso. Tutto quel che c’è dire tutti già lo sanno.

Credono di saperlo.

Per questo non mi ascoltano, non mi capiscono, non mi conoscono davvero.

La mia guerra non è finita. Le guerre di un rifugiato non hanno mai fine. Per i diritti negati da una burocrazia ottusa. Per la verità e la giustizia negate da un mondo in cui vince sempre il più forte o il più vigliacco. Per gli stereotopi duri a morire.

Mitsindo è un guerriero dall’aria ormai stanca. Gli chiedo solo di sostenermi ancora per qualche anno, per arrivare ad un punto che mi consenta di non dover arrendermi spontaneamente, ma allo stesso tempo che non mi permetta di continuare questa inutile ed estenuante guerra tra il passato e il presente.

Il futuro lo guardo con rispetto, e forse con un po’ di soggezione. E’ una strada ancora lunga, che si perde in un orizzonte apparentemente imperscrutabile. Io mi trovo in un punto in cui sono troppo avanti per tornare indietro, e troppo indietro per rimanere ferma. Se voglio raggiungere un riparo prima di sera, dovrò per forza camminare ancora.

Strada facendo lascio cadere i ricordi più pesanti, per evitare che mi trascinino indietro con loro. Ogni ricordo è un pezzo di vita che dolorosamente lascio andar via per sempre dal cuore, dalla mente. E intanto continuo a camminare con gli occhi chiusi verso il passato, con gli occhi aperti verso il futuro, velati di lacrime invisibili che cadono nel cuore, goccia dopo goccia, e scavano scavano.

Ho amato il rumore della pioggia sui tetti di lamiera, la compagnia chiassosa dei bambini del quartiere, l’euforia delle grandi rivoluzioni. Ora amo il silenzio, la solitudine, la noia e la malinconia di giornate monotone e regolari.

Forse ho avuto addirittura fede nella guerra, speranza di un cambiamento che avrebbe lanciato il mio Paese verso un progresso umano e sociale, senza più scheletri nell’armadio. O forse l’ho odiata da subito.

Non me lo ricordo più. Non ha più importanza, ormai.

Mitsindo, il guerriero addormentato, sogna la pace senza armi. Ma è un guerriero, e il suo destino è di lottare. Lotterà sempre, in qualche modo.

Il mio nome è Mitsindo. Il mio nome è il mio destino. Il destino di un Paese che ritroverà la forza di guardare fiducioso verso l’avvenire. Nelle mani di Dio, tutto è possibile. Tutto ha un senso.

Tutto tornerà a ricomporsi.

Dopotutto, in Rwanda si dice che “Dio di giorno va in giro per il mondo, e di notte torna qui a riposarsi”.

Ogni giorno aspetto fiduciosa che Dio venga a prendermi, per riportarmi a casa.

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