Premio Racconti nella Rete 2018 “Quattro colori” di Federica Baggio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Quando era bambino Otoniel Montejo sognava di fare l’artista. Moro, rotondo e paffuto come un biscotto al cacao – Otoniel trotterellava su e giù per le stradine sterrate di San Pedro la Laguna, nello zainetto di tela un blocco da disegno e quattro pastelli a cera. Se li era comprati lui stesso, con gli spiccioli guadagnati vendendo manghi insieme a suo padre al mercado municipal. Quattro colori, in fondo, gli bastavano per dipingere tutto il suo mondo: il marrone, per le persone, le strade, le case; il giallo, per i tuc tuc che popolavano le vie di San Pedro, chiassosi come uccelli e forse più numerosi degli abitanti stessi; il verde, per colorare la selva, che ricopriva come un ispido mantello le sponde scoscese del grande lago di Atitlán; il blu per ricreare il cielo e l’acqua sacra del lago. Il blu soprattutto per gli occhi della gente.
“Perché dipingi gli occhi di blu Otoniel? Nessun Maya ha gli occhi blu,” gli chiese un giorno Juan José, il suo migliore amico.
Otoniel alzó le spalle. “É il mio stile,” rispose. In realtà il motivo era un altro. “Marlena ha gli occhi blu”, avrebbe voluto dire Otoniel. Ma Marlena non era una Maya. Era la nipote di un italiano, che era sbarcato a San Pedro dieci anni prima con un fagottino disperato in braccio e qualche quetzal in tasca, e aveva aperto un piccolo ristorante vicino al molo. Il loro arrivo aveva creato un gran trambusto nel villaggio. “Se lasciamo che lui s’installi qui, ne arriveranno altri,” dicevano alcuni. “Se arrivano i turisti, arrivano i soldi,” dicevano altri. “Almeno non sono spagnoli,” pensò allora il padre di Otoniel.
C’era solo una scuola a San Pedro la Laguna e così Otoniel e Marlena erano stati compagni di classe fin da piccoli. Anno dopo anno, Otoniel guardava quei grandi occhi azzurri crescere sotto le sopracciglia bionde di Marlena. Finché un giorno non riuscì più a resistere alla curiosità e le chiese: “Perché i tuoi occhi sono così diversi?”
“Quando sono nata,” rispose Marlena, “mia madre non mi voleva. Allora mi ha avvolta in una coperta e mi ha portata in mezzo a un campo. E sono rimasta lì per tre giorni, piangendo e guardando il cielo. E a furia di guardarlo, i miei occhi hanno preso il suo colore.”
A Otoniel non importava se fosse la verità o meno. Più quegli occhi si facevano grandi, più lui se ne innamorava.
Poi un giorno arrivò a San Pedro un certo señor Francisco López da Città del Guatemala. López convocò tutti gli adulti del villaggio nella piazza della chiesa. Era un mercoledì d’inizio giugno. Il cielo era color dell’asfalto, carico delle piogge che avrebbero inzuppato il paese per i tre mesi successivi. Per vedere meglio, Otoniel e gli altri bambini si arrampicarono sulla grossa statua di San Pedro che dominava il piazzale della chiesa.
“Il governo ritiene che questo posto abbia un grande potenziale per lo sviluppo del turismo nel nostro paese,” stava dicendo López. “Vogliamo investire in tutta la zona del lago. C’è bisogno di ristoranti, hotel, negozi…”
Dalla folla si levò un brusio contrariato.
“So che detta così può suonare come una minaccia,” continuò Lopez. “Ma dovete pensarla come un’opportunità di valorizzare San Pedro. E vi do la mia parola che tutto avverrà nel pieno rispetto delle vostre tradizioni e della vostra comunità.”
Poi López fece segno di avvicinarsi a qualcuno tra la folla.
“Vieni Augusto, vieni qui.” Lo zio di Marlena salì con titubanza i gradini della chiesa e raggiunse López che gli cinse le spalle: “Tutti conoscete Augusto, qui. Lui può darvi qualche consiglio su come aprire un’attività.” Augusto teneva lo sguardo fisso per terra, imbarazzato. Il brusio della folla si fece più sonoro.
“Vedete!” “Lo avevo detto io!” “Stranieri invasori!”
Otoniel guardò Marlena. Con un braccio stretto intorno alla statua di San Pedro, la bambina fissava la scena con aria assente.
“Stai bene?” le chiese Otoniel. Marlena dapprima non rispose. Poi, senza distogliere lo sguardo dallo zio, mormorò: “Tanto, anche se facciamo finta, non saremo mai come voi.”
La settimana seguente, Francisco López si presentò a scuola per scambiare due chiacchiere con i bambini del villaggio. Volle parlare con loro uno per uno. Quando fu il suo turno, Otoniel raggiunse López nel cortile, lo zainetto di tela sulle spalle.
“Buongiorno Otoniel,” lo salutò López. “Hola señor,” rispose il bimbo.
“Siediti caro, siediti,” López sorrise indicando la seggiola di fronte a lui. “Dimmi Otoniel, tuo padre che lavoro fa?”
“Vende frutta al mercato,” rispose Otoniel.
“E tua madre?”
“Non c’è più, señor.”
“Oh, mi dispiace Otoniel. Quando è successo?” domandò López con voce pacata.
“Non so bene. Da quando sono nato, è sempre stata così, credo.”
“É morta nel darti alla luce, vuoi dire?”
“Oh no, no. Non è morta. Està loca. Matta.”
López si accigliò. Poi con tono asciutto disse: “Capisco.”
“Vive in una comunità, lontano da qui,” spiegò Otoniel guardandosi i piedi impolverati.
“Senti caro, e tu che cosa pensi di fare quando finirai la scuola? Aiuterai tuo padre al mercato?” domandò l’uomo sorridendo e mettendogli una mano sul ginocchio. “Perché sai, ci sono un paio di idee a cui potremmo lavorare insieme, se vuoi, su come… diciamo, sviluppare il business di tuo padre…”
Otoniel scosse la testa. “No, no, io andrò alla scuola d’arte ad Antigua Guatemala. Per diventare artista.”
Francisco López incrociò le braccia e osservò il bambino per qualche istante. Otoniel gli sorrideva, imbarazzato e rotondo, stringendo il suo prezioso zainetto.
“Artista eh?” L’uomo fece una pausa. “Sai, io sono un collezionista d’arte.”
“Davvero?” domandò Otoniel in preda a un improvviso interesse per quell’uomo bizzarro e imprevedibile.
“Sì. Da quando ero giovane, sono sempre stato appassionato d’arte, specialmente di pittura. Ho girato in lungo e in largo tutto il Centro America, e ho incontrato tantissimi artisti Maya.”
Otoniel lo ascoltava rapito, captando ogni movimento delle sue labbra, ogni oscillazione dei suoi lunghi baffi neri.
“Hai dei disegni qui con te?” domandò López.
Preso alla sprovvista, Otoniel strinse più forte il suo zainetto.
“Se vuoi posso darci un’occhiata e darti qualche consiglio? Che dici?”
Con mani tremanti, Otoniel fece scorrere la cerniera dello zaino e ne estrasse il blocco da disegno. Lo aprì sulla prima pagina e lo porse a López.
“Marlena sul tuc tuc,” lesse López ad alta voce. Otoniel provò un po’ di vergogna nel sentire qualcun altro pronunciare quel titolo. Non aveva mai mostrato i suoi disegni a un adulto.
López si mise a sfogliare l’album, spendendo qualche secondo su ogni disegno prima di passare a quello successivo.
“Bueno…” disse quando arrivò in fondo all’album. “Vuoi che ti dica quello che penso?” chiese guardando Otoniel con aria seria.
Il bambino si stropicciò le mani. Sentiva caldo. Percepiva le gocce di sudore scendergli giù sulle tempie, lungo la schiena, dall’incavo delle ascelle giù per le braccia paffute…
“Non prenderla male ragazzo, ma non credo tu abbia il talento necessario per diventare un artista,” disse López senza mutare di espressione o tono di voce, asciutto come un taco che è stato troppo a lungo sulla piastra. “Ne ho visti tanti, credimi. So quello che dico. Mi dispiace.” López fece per restituirgli il blocco da disegno. Otoniel rimase immobile. Allora l’uomo gli appoggiò l’album sulle gambe. Una grossa goccia piombò in un occhio del bambino, offuscandogli la vista.
“Sta iniziando a piovere, ragazzo, è meglio che torni dentro,” gl’intimò López. Otoniel raccolse le sue cose, ma non tornò in classe. Invece uscì in strada e fermò un tuc tuc. A guidarlo era Miguel Ángel, l’amico d’infanzia di suo padre.
“Otoniel, que te pasa? Dovresti essere a scuola.”
Il bambino non rispose, gli fece solo cenno di andare. Vedendolo scosso, Miguel Ángel decise di non replicare e accompagnò Otoniel al molo.
“Papà poi ti dà i soldi,” disse il bambino scendendo dal veicolo e usando lo zaino per ripararsi la testa dalla pioggia.
“Non preoccuparti,” rispose Miguel Ángel. Prima che Otoniel sfrecciasse via, l’uomo lo richiamò. “Otoniel.” Il bambino si voltò a guardarlo. “Sai qual’è il bello dei giorni di pioggia?” Otoniel scosse la testa. “Che se hai voglia di piangere, puoi farlo, e nessuno lo nota.”
Otoniel cercò il barchino con cui il padre del suo amico Juan José consegnava la posta. Era ormeggiato al suo posto. Vi saltò a bordo sotto lo sguardo confuso dei pescatori che erano appena rientrati per via del brutto tempo. Una volta lontano da riva, Otoniel aprì lo zaino di tela e tenendolo per la base lo svuotò nel lago. “Non sono pazzo come mia madre,” urlò il bambino al suo riflesso, scomposto dalla pioggia. “Capito?” Urlò. A se stesso, ai vulcani tutt’intorno, agli spiriti del lago.
Il giorno seguente, Francisco López lo venne a cercare a scuola.
“Otoniel, cariño, spero tu non te la sia presa per quello che ho detto ieri,” disse López cingendogli le spalle, come aveva fatto con il padre di Marlena la sera della riunione. “Claro que no,” rispose Otoniel senza guardarlo in faccia.
“Sai, ho ripensato ai tuoi disegni…” proseguì López. “Pensavo che in fondo, un modo di usare il tuo interesse per l’arte ci sarebbe.”
Otoniel sollevò uno sguardo pieno di confusione verso quell’uomo incomprensibile.
“Tipo?” domandò il bambino.
López gli sorrise, le punte dei lunghi baffi piegate all’insù che quasi gli entravano nelle narici.
–
Molti anni dopo, Otoniel Montejo è seduto dietro a una piccola scrivania macchiata di pittura, su una seggiolina di paglia che cigola sotto i suoi chili di troppo. In una mano cinge un pennellino spennacchiato, nell’altra la tavolozza dei colori. La minuscola galleria d’arte Maya è silenziosa. É bassa stagione. I pochi turisti sono ormai tornati ai loro ostelli, e dalla strada provengono solo il rumore della pioggia e quello dei tuc tuc che riportano gli abitanti di San Pedro la Laguna a casa, dopo la chiusura del mercato.
Otoniel guarda la piccola tela su cui ha appena finito di dipingere tre donne durante la raccolta delle banane. Alza lo sguardo verso la parete di fronte a sé, ragionando su dove appenderlo. I quadri che ricoprono i muri della galleria sono tutti simili a quello che ha appena terminato. Tutti ritraggono donne durante la cosecha, il raccolto della frutta o della verdura. E le donne sono sempre ritratte dall’alto, come se l’artista le avesse dipinte guardando giù da un elicottero. Le teste nascoste sotto le forme rotonde dei sombreros, le braccia strette attorno a ceste ricolme di frutti colorati. Ogni mese, Otoniel riceve un grosso scatolone contenente cento tele, su cui il motivo è già disegnato a matita e pre-colorato. Nella scatola ci sono sempre anche le istruzioni su come terminare con la pittura ciascuna tela. Una volta finito di dipingerle, Otoniel può mettere la sua sigla in un angolo: O.M. É piuttosto semplice come lavoro. Ci sono solo due regole fondamentali: mostrarsi sempre all’opera di fronte ai turisti che entrano nella galleria e non dire mai la verità sull’origine dei dipinti, anche quando i più curiosi domandano: “Ma li ha davvero fatti tutti lei?”
Da quando Francisco López lo aveva dissuaso dal perseguire una carriera d’artista, Otoniel aveva semplicemente accantonato l’idea. Anzi, l’aveva affogata nel profondo del lago. E non ci aveva pensato più. Poi López gli aveva proposto di entrare nel business dei ‘coloratori’. E da allora Otoniel aveva colorato sombreros, una pennellata all’ora, una tela al giorno, anno dopo anno. Non aveva mai più dipinto occhi d’azzurro, ma non era importante. E gli affari andavano bene. Si era anche sposato, non con Marlena, purtroppo, perché quando avevano tredici anni, suo zio aveva venduto il ristorante ed erano ritornati a vivere in Europa. Otoniel non aveva mai più saputo niente di lei.
“Hola,” una voce maschile dal forte accento straniero lo fa trasalire. Otoniel si sporge per guardare oltre il cavalletto che tiene aperto di fronte alla scrivania, con sopra appoggiata la stessa tela da diverse settimane.
“Hola, adelante,” risponde Otoniel, mettendosi in piedi per accogliere il cliente. Un signore alto, biondo e completamente fradicio, gli si avvicina sorridendo.
“Come posso aiutarla?”
“Lei è il signor Otoniel?” gli domanda il turista, scuotendosi la pioggia di dosso.
“Sí, esatto, sono io. Perché me lo domanda?”
“Ho una richiesta speciale per lei,” prosegue il signore gocciolante. “Vede, io ho una figliola a casa, in Europa, a cui ho promesso di portare in regalo un ritratto.”
Otoniel trattiene con fatica un sussulto. “Mi scusi, ma io non faccio ritratti.”
“Ah no? Perché vede, mia moglie ci raccontava sempre di lei… É cresciuta qui, Marlena, prima di trasferirsi in Europa.”
Otoniel si risiede sulla seggiola pericolante, tenendosi con le mani al bordo della scrivania.
“Mi ha sempre parlato di questo posto,” prosegue il turista. “San Pedro. E raccontava sempre di lei, e dei ritratti che le faceva quando eravate ragazzi. Ho pensato che sarebbe bello portarne uno in regalo a nostra figlia.”
“Marlena…” mormora Otoniel, “Come sta?”
“Non c’è più,” risponde il signore, la voce velata di tristezza.
Otoniel annuisce, deglutendo con fatica.
“Guardi, ho qui una foto di mia figlia,” dice l’uomo tirando fuori dalla tasca il portafoglio. Dopo averci rovistato dentro un momento, gli porge la fotografia.
Marlena.
Otoniel gliela restituisce scuotendo la testa.
“Ho anche un disegno qui con me,” insiste l’uomo. Estrae dallo zaino un foglio di carta spesso e leggermente ingiallito che Otoniel riconosce subito. “É un ritratto che le ha fatto lei nel… 1978,” dice puntando alla data sul retro del disegno.
Otoniel prende il foglio con mani tremanti. La sua Marlena: bella, bionda, gli occhi pieni di cielo.
“É un bellissimo ritratto,” dice l’uomo sorridendo. “Assomiglia moltissimo a nostra figlia.” Cade il silenzio. L’uomo si guarda intorno. “Mi piacciono molto anche questi suoi lavori, però è un peccato che non faccia più ritratti… Magari per questa volta può fare un’eccezione?”
Otoniel appoggia il disegno sulla scrivania. Si alza e si dirige verso la porta.
“Signor Otoniel?” domanda il marito di Marlena.
“Sì. Sì. Va bene. Solo un momento…” mormora Otoniel. “Un momento.” Ed esce fuori in strada, dove le sue lacrime possono confondersi con la pioggia.
Ciao Federica, piu’ leggevo il tuo racconto piu’ pensavo che sarebbe perfetto per una sceneggiatura… poi mi ci sono immersa completamente.. In questo tempo di lettura in me c’era solo un piccolo moro paffuto e nient’altro! Grazie
Grazie Anna Maria per averlo letto e per il tuo commento!