Premio Racconti nella Rete 2018 “Come in un film di Godard” di Nicolò Zaffino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018L’orologio scandiva impazientemente i secondi. Aveva evidentemente fretta.
Il signor xxx era spiaggiato in un acquitrino del suo sangue al centro del salotto. Qualche schivo raggio di luce provava arditamente a far breccia tra quel ruvido paio di tende che nascondeva la finestra. Una mosca sembrava avvicinarsi incuriosita al cadavere, quasi a volerne assaporare un buon calice di sangue. Il minimalismo metafisico dell’arredamento e delle decorazioni conferiva alla stanza una straziante similitudine con un quadro di De Chirico. Assorta, straniante, asciutta.
L’orologio scandiva impazientemente i secondi. Non amava attendere, credo.
Un bicchiere, a prima vista di Armagnac, vegliava la situazione dall’alto di un pallido scaffale in vetro opaco, accompagnato, come un navigato marinaio dal giovane mozzo, da un posacenere. Vuoto. La televisione passava Pierrot le Fou, per la sola attenzione di un rigido divano squadrato, color mattone e appena macchiato da qualche sputo di sangue.
L’orologio scandiva impazientemente i secondi.
Attendere. Essere schiaffeggiati dai ticchetii delle lancette, essere presi a pugni dal pendolo del cucù. Respirare il vuoto tossico dell’inconstistenza. L’esistere inquinato dall’idea del non esistere.
L’arredamento più strettamente decorativo era essenziale e transavanguardista. Una scopiazzatura del Modigliani della prima ora ritraente una scarna donna creola ma dai lineamenti asiatici, un mezzobusto neoclassicheggiante che non avrebbe necessariamente reso orgoglioso Prassitele, un vinile autografato di Herbie Hancock e un volume rilegato in cuoio dell’opera omnia di Karl Raymond Popper.
Le lancette continuavano il loro imperterrito incedere. Nervoso.
Conoscevo, in realtà, ben poco sul conto del signor XXX.
Quando quella mattina rientrò in casa era di ritorno da un viaggio di lavoro. Era un mercante d’arte. Scelta di comodo.
Famiglia alto-borghese, ampia disponibilità di capitali, scarsa attitudine al lavoro fisico e fine capacità dialettica, fondamentale nelle più serrate discussioni di carattere mercantile. Esacerbante conoscitore del principio popperiano della falsificazione, adattato, secondo un modello di efficienza personale non strettamente paretiano, al suo raggio d’azione: un quadro, così come una scultura, sono originali solo qualora possano essere falsificati.
Un approccio soffocante nei confronti dell’arte che malcelava però una visione estremamente estetica dell’esistenza umana.
Nulla ethica sine aesthetica.
L’orologio continuava il suo moto browniano, ma la televisione trasmettendo Pierrot le Fou sembrava non accorgersene minimamente.
Viaggiava molto per lavoro. Lavorare viaggiando gli provocava un piacere estremamente autentico. Quel piacere che provi ascoltando Miles Davis, guardando un Botticelli o un Raffaello agli Uffizi, o ammirando i raggi del sole fare irruzione dalle vetrate dalla cattedrale di Chartres.
Era solito scattare istantanee delle strade meno battute, dei vicoli meno noti e degli scorci meno frequentati dei posti che visitava. Era affascinato dall’ignoto e, ancor di più, da ciò che ai più era ignoto. Raccoglieva poi, tutti i suoi scatti, in un libro di memorie in cui si appuntava anche ricordi, dettagliatamente analizzati, scansionati, razionalizzati. Athazagorafobia: paura di essere dimenticati o di dimenticare.
Non era, dunque, uno di quegli aridi, avidi, acerbi mercanti d’arte che vedono monete nei barocchismi dorati di Klimt o nei girasoli di Van Gogh, così come non vedeva banconote nelle bande verdi di Cèzanne. Ricercava, quasi spasmodicamente, l’arte anche solo per quel puro ed eccitante piacere visivo, che è solo uno tra i nobili compiti dell’arte.
La lancetta continuava a innervosire l’ambiente.
Amava per esempio ricordarsi in ginocchio e con gli occhi visibilmente inumiditi dalle lacrime guardando per la prima volta La Vocazione di San Matteo, in San Luigi dei Francesi a Roma. Si emozionava nel rivedersi, eccitato dalle più infantili tra le pulsioni emotive, scoprendo per la prima volta l’arte di Hyeronimus Bosch al Prado di Madrid.
Lo stesso salotto, di fatto, ne evidenziava, nella sua asciuttezza, il tatto estetico. Non michelangiolesco, ma essenziale e quasi piacevole.
La televisione continuava a trasmettere Pierrot le Fou. Nel frattempo un consistente nugolo di moschini si era accalcato attorno al cadavere del signor XXX. Lo annusavano, lo scrutavano, sembravano interessarsi anch’essi ad un personaggio poliedrico, contraddittorio, ma per certi versi affascinante.
Musicalmente era piuttosto monotematico. Amava alla follia il jazz, non disprezzava il blues e la classica ma non nutriva eccessive simpatie per la musica leggera. Impazziva per i virtuosismi di Charlie Parker, i cambi di ritmo di Thelonious Monk e lo sperimentalismo di Herbie Hancock. Adorava l’idea di un’arte soffiata, fuggente, schiva e creata ogni volta dal nulla del genio.
Amava il buon vestire, aveva la passione per gli orologi, per i quali era solito spendere cifre considerevoli neanche troppo di rado, adorava i mocassini e le giacche bianche. A livello di scelta dei colori non era necessariamente un Mondrian, ma l’eccentricità con la quale era abbigliato steso nella piscina artificiale del suo sangue gli conferiva, comunque, un certo sapere anche nell’ambito della moda.
Non amava particolarmente mangiare o bere bene.
L’orologio era sfinito.
Non conoscevo personalmente il signor xxx. Mi aveva parlato di lui sua moglie. Una donna estremamente interessante che avevo incontrato la sera prima ad una festa. Fisico slanciato avvinghiato da un vestito di un rosso estremamente acceso, capello castano ciondolante, occhi profondi come il sole che si spalma all’orizzonte in un tramonto sull’oceano e labbra magnetiche dello stesso rosso del vestito. Amante del cinema di Kieslowski, profonda conoscitrice dell’opera di Sartre e fanatica del vino del sud della Toscana.
Quella mattina, la donna era affianco a me, in piedi nella sala del signor xxx.
– Cosa facciamo ora? – sussurrai.
– Scappiamo, come in un film di Godard.
L’orologio mi metteva fretta, ma non volevo accelerare i tempi. Dovevamo cancellare le tracce.