Premio Racconti nella Rete 2018 “Da tempo immemore” di Davide Antoniolli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Le prime luci del mattino trafilano attraverso la persiana fino a colorare il buio dei miei occhi serrati di un rosso vivo. È giorno, non so da quanto, e ormai non posso fare altro che alzarmi. La sveglia non è suonata ma la spengo comunque, così non disturberà Clara. Sono le 6.45 del mattino e dormono tutti. Ciondolo per la casa buia senza fare rumore. Mi piace questo momento della giornata e non voglio svegliare nessuno, così da potermelo godere solo con me stesso. Alzo delicatamente le persiane e apro le finestre, attento a non sbatterle. Chiudo gli occhi con la faccia rivolta verso il sole, per sentire il suo calore. È diverso dal solito, è più intenso, più avvolgente. Il mio sguardo cade sul calendario e mi ricorda che è il primo giorno di primavera. Questa piccola consapevolezza aiuta ad accrescere il mio buon umore. Sulla data di oggi c’è scritto inoltre, con un grosso pennarello rosso e una calligrafia incerta, svelandone l’artefice, “MONTAGNAAA!”. Preparo il caffè e sveglio tutti, uno per uno: prima Clara, poi Marco e infine Sofia. Clara si mette subito ai fornelli, avvolta nel suo silenzio scontroso; Marco e Sofia scendono le scale due gradini alla volta e con un sorriso stampato in volto, ma con vivacità moderata, conoscendo bene la fragilità mattutina della madre. Clara prepara le solite uova strapazzate e mette in tavola le fette biscottate con la marmellata fatta in casa dalla nonna. Il piatto con le differenti porzioni aspetta ognuno al solito posto. Iniziamo a mangiare senza aspettare Clara che ci raggiunge sempre qualche minuto dopo aver lavato pentole e terrine. Oramai siamo abituati alla colazione americana; ho portato questa abitudine dai miei viaggi all’estero e sia Clara che i piccoli hanno adottato presto e di buon grado il piacere di una colazione abbondante.
Clara è concentrata alla guida e i bambini giocano sul sedile posteriore, la radio suona una sinfonia al pianoforte che mi ricorda qualcosa, anche se non riesco a metterla a fuoco. Riesco però ad afferrarne l’emozione: una malinconia mescolata a senso di colpa. Ora tutto mi torna in mente. Dico con fermezza a Clara “Passiamo da Carlo”. Lei esita qualche istante senza dirmi nulla e poi dice “D’accordo”. Sono visibilmente scosso e cerco di ricompormi, la sinfonia non mi aiuta e cambio stazione radio. Guardo fisso fuori dal finestrino per il resto del viaggio.
Fermiamo davanti una casa vecchia ed evidentemente trascurata: l’erba del giardino antistante arriverà all’altezza delle ginocchia, il muro adornato da rampicanti che nascondono la vernice scrostata dal tempo e le intemperie. Mentre guardo mia moglie, Sofia, senza interrompere il suo bellissimo sorriso, chiede “Come mai ci siamo fermati qui?”. Immediatamente Clara risponde “Papà deve salutare un vecchio amico, torna subito”. “Ok”, dice Sofia con una vocina stridula. Guardo Clara con un senso di gratitudine che sa cogliere e che restituisce stringendomi la mano. Gliela lascio delicatamente e scendo dall’auto. Cammino sulla passerella di pietre ormai scurite dallo sporco mentre i lunghi fili d’erba mi sfiorano le gambe. Arrivo alla porta d’entrata e suono il campanello. Dopo qualche secondo non ricevo nessuna risposta e allora busso con energia. Attendo ancora, questa volta un po’ di più, per non mostrarmi troppo insistente e interrompere con prepotenza qualsiasi cosa Carlo stia facendo. Ancora nulla. Nessun rumore mi fa pensare che ci sia qualcuno in casa. Afferro la maniglia come ultimo tentativo e la porta si apre. Mi accingo ad entrare con passi piccoli e rumorosi a causa del parquet datato, immergendomi in un’umida penombra. Chiudo la porta alle mie spalle e vedo una fonte di luce dietro una porta. Non dico una parola, come se volessi conservare la possibilità di potermene andare con la stessa furtività con cui sono entrato. Giro l’angolo e la luce che penetra attraverso la grande parete vetrata mi acceca per un attimo. Recupero la vista e vedo Carlo seduto su una poltrona di pelle, di profilo, rivolto verso una televisione spenta. Dico senza pensare “Perdonami se sono entrato così, ho suonato ma forse non mi hai sentito.” Lui, sorridendo, con una voce affaticata e sottile, o forse non così tanto, ma sicuramente lontana da quella che conoscevo, mi dice “Ormai non ci sento più tanto bene”, ridacchia con gli occhi semichiusi e continua. “C’è qualcosa di nobile nel perdere l’udito per un musicista non trovi? C’è sempre qualcosa di nobile nelle disgrazie, o forse è solo un trucco per rendercele accettabili.” Continua a ridacchiare. Parla e ride al rallentatore, e questo senso di attesa per ogni sua parola rende il suo discorso meritevole della mia completa attenzione, facendomi dimenticare tutto il resto: la mia posizione rigida al centro della stanza, Clara, Marco e Sofia fuori che aspettano, ma soprattutto tutti gli anni passati lontani a nascondermi dal suo sguardo dopo che – “che cosa cerca, signor?”. Ignoravo potesse non riconoscermi, in effetti sono passati quasi 10 anni dall’ultima volta che ci siamo visti. “Matteo, mi chiamo Matteo”, dico un po’ impacciato. “E cosa desidera signor Matteo?”, mi chiede rimanendo immobile; il suo sguardo non incrocia mai il mio, e mi dà il coraggio di rispondere come non avrei fatto altrimenti. “Sono venuto a trovarla perché so che è un grande pianista e ho sempre desiderato conoscere l’uomo dietro il musicista di una così rinomata fama”, gli dico con tono leggero, quasi fuori luogo. Lui, sempre sorridendo, dice “Spero sia più rinomato il mio lavoro che la fama che ne deriva”. Io sorrido per un momento, distraendomi dalla consapevolezza della morte del nostro rapporto e dell’assenza di un amico durata anni, che sembrano secoli. Mi si spegne il sorriso fra le labbra quando noto una scatola di donepezil sul mobiletto in fianco al divano. “Si sieda pure signor Matteo”, mi dice Carlo con un aria da uomo d’altri tempi. Lo ringrazio mentre affondo nel divano troppo morbido. Mi chiedo cosa ci faccia tutto solo, abbandonato a se stesso, e mi condanno per il tempo perso in cui potevo essere io a prendermi cura di lui. Ritorno al presente e, in modo così diretto che stupisce anche me, gli dico “Non sapevo soffrissi di Alzheimer”. Carlo dice “Eh, purtroppo non è una malattia così nobile per il mestiere che faccio. Che facevo”. Sono rattristato e stupito di quanto sia consapevole del suo passato glorioso. Mi chiedo quanto altro si ricordi della sua vita. Noto un pianoforte a parete ricoperto da uno spesso strato di polvere e subito in fianco, sul ripiano più alto della libreria, la foto di sua moglie e sua figlia in una giornata di sole al lago. Erano su una piccola barca e doveva esserci lui dall’altra parte dell’obiettivo. A questo punto non penso sia più il caso di continuare la commedia e sono disposto ad accettare anche un dramma pur di ripulirmi, almeno in parte, dal pesante senso di colpa che mi porto sulle spalle da così tanto tempo. Sto raccogliendo il coraggio e le parole adeguate quando Carlo si accascia su un fianco, con un movimento sofferente. Allora mi avvicino e lo afferro per accertarmi che stia bene. Lui sbatte gli occhi ripetutamente e ritorna dritto sulla poltrona, aggrappandosi alle mie braccia. Mi dice” Grazie, Matteo”. Lo guardo fisso negli occhi, per la prima volta dopo molto tempo il nostro sguardo si incrocia e siamo così vicini che ho quasi paura di emettere suono. Continuiamo a guardarci, per alcuni istanti o forse minuti, non saprei dirlo. Il suo sorriso si smorza e il suo sguardo diventa serio, imperturbabile. Una lacrima mi tradisce e corre lungo la mia guancia, il respiro si accorcia e sento il mio corpo protrarsi verso di lui; lo abbraccio forte. Piango tutte le lacrime che ho e sento le sue braccia avvolgermi, il calore del suo corpo accudirmi fino a farmi singhiozzare come un bambino. Trovo un po’ di fiato per sussurrargli all’orecchio “Perdonami amico mio. Perdonami ti prego!”. Carlo dice “L’ho già fatto, molti anni fa”. Lascio che le mie forze si esauriscono nell’abbraccio prima di alzarmi e asciugarmi gli occhi con la manica della giacca e un po’ di vergogna. Mi volto verso il pianoforte e mi avvicino allo sgabello, libero la tastiera e inizio a suonare. Non suonavo da anni ma le dita è come se si muovessero senza il mio controllo. Beethoven’s Silence di Ernesto Cortazar mi fuoriesce dalla punta delle dita come una magia, come se non avessi smesso di suonare nemmeno per un solo giorno finito il conservatorio, come se l’amicizia con Carlo non si fosse mai interrotta. Quella stessa sinfonia che riempiva l’auto di Clara poco prima, la stessa che suonava Carlo davanti a migliaia di persone mentre si chiedeva che fine avessero fatto le sue donne. Lo stesso momento in cui, invece di essere lì a godermi il concerto, vedevo morire tra le lamiere tutto ciò per cui viveva Carlo, più del pianoforte, più del suo talento. Suono l’ultima nota e lascio che il propagarsi di quella vibrazione armonica porti con sé l’ultimo granello di odio verso me stesso e tutti i rimpianti della notte in cui non fui in grado di evitare quell’auto. Mi sento esausto ma leggero, il mio viso è asciutto, ormai le lacrime sono terminate. Carlo fissa il pianoforte, anche dopo essermi alzato. Lo lascio aperto. Afferro la foto dalla libreria e la appoggio in cima allo strumento. Guardo Carlo un’ultima volta e me ne vado.
Entro in macchina e mi siedo in silenzio, guardando fisso davanti a me. Percepisco la voce di Clara dire “Amore? Amore?! Roberto!”. Mi sveglio dal mio stato di trans, inondato da un fluire di pace e silenzio interiore. La calma dopo la tempesta. Giro il capo verso Clara e le dico “Dimmi amore”. “Com’è andata?” chiede lei. “Meglio di quanto mi aspettassi. Possiamo andare”, le dico con lo sguardo ancora perso nel vuoto. Clara mi osserva cercando di leggere i miei pensieri attraverso i miei occhi senza riuscirci; mette in moto l’auto mentre i bambini non hanno smesso per un secondo di giocare. Prima che parta le poggio una mano sulla gamba e le dico a bassa voce: “Grazie”. Lei tende gli angoli della bocca e si apre in un sorriso, guardandomi negli occhi. Riporta lo sguardo sulla strada e partiamo verso la nostra gita in montagna. Dopotutto, è il primo giorno di primavera.