Premio Racconti nella Rete 2018 “Sotto un trenino” di Maria Scoglio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Oggi sono cinque anni che Giovanni e io stiamo insieme. A festeggiare gli anniversari di fidanzamento siamo rimasti gli unici, tutti i nostri amici stanno su ben altri traguardi di coppia. Noi, però, una famiglia non possiamo ancora permettercela.
Faccio la social media manager e lavoro fino a mezzanotte tutti i giorni. Dietro ogni post di una persona famosa, c’è una ragazza come me. Camaleontica: sa trasformarsi in selfie stick, grandangolo, appendiabiti. Atletica: si arrampica su tavoli e muretti, perché l’inquadratura perfetta è dall’alto. Onnivora: è lei che mangia tutto il cibo delle foto, il VIP è sempre a dieta. Ubiqua: non si perde una prima, una festa, un evento, anche due o tre a sera. Poliziotta cattiva: scansa casalinghe arrapate di selfie e ragazzini miagolanti. Faccio grattini lì dove prude un po’ a tutti: la curiosità per la vita della gente famosa. Sono la prova vivente che la laurea in lettere ha ancora senso nel 2018: mai un errore di ortografia o un congiuntivo sbagliato nei post che scrivo per loro.
La Socialstar è un’agenzia che cura l’immagine digitale di quasi tutti “famosi” d’Italia: calciatori e veline, cuochi vip e dietologi dei vip, guru di tutto lo scibile, cantanti e figli di cantanti, vincitori di talent show. In ufficio di solito ci vado solo a ritirare gli oggetti che devono apparire accanto alle celebrity nei post sponsorizzati. Oggi però il capo mi vuole vedere. Forse stasera avremo anche un’altra cosa da festeggiare Giovanni ed io: la mia promozione. L’agenzia ha un nuovo cliente: Federica Riello, la pop star italiana più famosa al mondo. Ha più follower della Pausini e Bocelli messi insieme. Tra poche ore potrei essere io la sua social media manager e dire addio alla mediocrità dei personaggi con cui ho avuto a che fare fin ora. Gente che se la passa talmente male che quando uno stilista gli presta un vestito per una serata, il giorno dopo puntualmente ne subisce il furto e purtroppo non può restituirlo. Analfabeti di ritorno che se sul biglietto dell’anteprima hanno scritto fila 15, la scambiano sempre per la fila 1.
Mentre percorro i navigli in motorino verso l’ufficio, mi immagino come sarebbe far parte del favoloso entourage di Federica Riello. Eccomi impegnata a declinare l’invito alla sfilata di Armani: “Giorgio lo sai, Federica ti adora, ma non vuole sovraesposizione in questo momento”, mentre sorseggio un flûte di champagne su un aereo privato che ci porterà nell’isola di Richard Branson per un weekend di detox prima della serata dei Grammy. Entro in agenzia. La receptionist è nuova. Il suo ruolo ha un tasso di mortalità più alto dell’ebola. Le dico il mio nome e mi fa passare, ma non credo abbia idea di chi io sia. L’ufficio di Luigi Azzolini, per gli amici Azzo, proprietario e amministratore unico della Socialstar è in fondo al corridoio. Era la camera da letto quando quella era casa sua e la porta è ancora rivestita di ecopelle maculata. Prima di divenire lo stratega dell’immagine web dei VIP era un fotomodello. Su Google circolano ancora delle sue vecchie foto, gilet di pelle su torso nudo e capelli con la riga in mezzo. Ora veste come un uomo d’affari, ma c’è qualcosa di stonato nel suo modo di indossare quegli abiti. Sembra di vedere un calciatore ricevuto dal Presidente della Repubblica: ti figuri sempre la fatica che ha fatto a indossare quella giacca e quella cravatta.
Mi avvicino alla porta e sento la sua voce, sempre un tono sopra il necessario. Mi apre, è al telefono, sta parlando di qualcosa che è successo in un camerino al programma The Voice. Mi indica una sedia di legno laccato d’argento dove accomodarmi. C’è una giacca appoggiata sullo schienale, quando faccio per spostarla me la strappa di mano. Ora mi sta indicando un divano, vuole che mi sieda lì. Meglio. È più comodo. Per me e per la giacca, che riguadagna la sua posizione su quella specie di trono. Riesco a ingannare meglio l’attesa dal divano, perché ho davanti ai miei occhi, apparecchiati su un tavolino specchiato altezza ginocchia, una serie di cimeli del Luigi Azzolini che fu. La stessa faccia che avevo visto su Google me la ritrovo incorniciata accanto a Sly Stallone, che in confronto a lui ha il tono muscolare di un monaco vegano. Sparpagliate sul tavolino, riviste dal titolo classicheggiante come Vigor e Olympia’s News lo ritraggono in copertina in posa da dioscuro. Ci sono poi alcuni soprammobili, tra cui un fallo dorato posto su un piedistallo, un tapiro d’oro, un pupazzo di Cewbecca. Sul muro di fronte al divano è appesa una sua gigantografia a colori psichedelici coperta da un plexiglass che ha subito un tentativo di incendio. Atto vandalico o trovata dell’artista? Nell’indecisione, ascolto la sua conversazione che procede divertita. Si parla di un manager su di giri che l’altra sera non riconosceva più la sua cliente. A un certo punto il silenzio. Ipotizzo che sia caduta la linea e mi faccio trovare vigile accennando un mezzo sorriso. Invece il racconto riprende vita con nuovi dettagli. Finalmente saluta il suo interlocutore e si sintonizza su di me, ma lo fa come se fosse appena salito sul palco del Festivalbar per la finale all’Arena di Verona. “Alla grande, eh!!!” urla e mi abbraccia con energia, tanto che l’orecchino mi si conficca nella guancia. “Ma li hai visti, gli analytics? Che improvement pazzesco! Marika Perez era la concorrente più insulsa di sempre del GF…e guardala ora, come spacca. Stiamo facendo la storia del web! La Marika sarà un case study, questa roba finisce in Bocconi”. Mi sventola sotto il naso con entusiasmo un disegno: la curva di incremento del 7000% dei follower di questo nuovo fenomeno della rete. Il tutto grazie a un semplice ma efficace format, di cui non mi posso e nemmeno mi voglio attribuire il merito: fotografare il culo di Marika Perez ovunque nel mondo. Al mare e in montagna, ai concerti, al Colosseo, a una marcia della pace, in cabina elettorale, all’apertura di un nuovo locale, inginocchiata in chiesa con un quadro Caravaggio davanti (o dietro, questione di punti di vista). Quante polemiche dopo quella foto! Si erano scomodati sociologi e intellettuali. Il Corriere della Sera le aveva persino dedicato un editoriale, dal titolo “l’alto e il basso”, che denunciava che mischiare sacro e profano in quella maniera era offensivo per l’intera nazione. La risposta di Marika fu la foto del suo didietro accanto al giornale in questione e il seguente testo: “A voi sembra che il mio culo sia basso?”. Era il punto più infimo che avessi toccato in tutta la mia vita. Avevo pronta la lettera di dimissioni, quando altri opinionisti, quelli della controcultura, iniziarono a gridare al capolavoro della post ideologia! E gli sponsor impazzirono per Marika.
“Sai perché ti ho chiesto di venire”.
“Immagino di si” mento per timidezza, non ne ho idea, spero solo che abbia a che fare con Federica Riello.
“Sei una ragazza perspicace” si compiace “Questo mondo delle celebrities nostrane ti fa fatica, vero? A loro piace farsi chiamare influencer, ma l’unica influenza che hanno è quella che si cura con l’aspirina”.
Rido, cercando di non sembrare presuntuosa.
“Ti toccano ogni sera feste sfigatissime, del resto noi in Italia le feste non le sappiamo fare”.
“Già…”
“E le fidanzate gelose che pretendono sempre di starci anche loro nelle foto? Un incubo! Guarda che lo so che tu vali di più”. Annuisco con convinzione. Azzo è un genio, penso, è uno che sa riconoscere il talento. “Le celebrities non tirano più, c’è troppo trash, la gente non ci si identifica, e alla fine non si vende un cazzo con dei testimonial così. Con Marika Perez abbiamo fatto un miracolo, ma la musica sta cambiando: la generazione X vuole altro! In America vanno le donne comuni. E noi, che siamo avanti, porteremo per primi ai brand italiani delle meravigliose donne comuni. Sei carina, scrivi bene. D’ora in poi, la star dei social sarai tu”.
Mi ero leggermente abbandonata alle rotondità del divano, ma quest’ultima frase mi fa scattare dritta come lo schienale di un aereo low cost prima dell’atterraggio.
“Potrei farti scegliere chi vuoi essere. Ma vorrei prima metterti alla prova. Analizzando i trend del momento, quello che tira veramente è la maternità. Ho bisogno che tu diventi una di quelle instagram moms, mamme che postano come pazze dalla mattina alla sera”.
Donne comuni? Io una star? Io una mamma? Cosa sta dicendo? Questo non è un genio, è un coglione! Dove si stacca la cintura che mi lancio giù da questo aereo low cost?
Ma dalla bocca mi esce solo uno stonato “Non…”.
“Sì, lo so, tu ora mi dirai che non sei mamma. Ma che importanza ha? Ogni mamma prima di avere figli non era mamma e poi diventa mamma, la cosa che unisce tutte le mamme del mondo è che gli tocca fare una cosa che non sanno fare. Tu sarai il loro specchio e proprio il non essere mamma ti renderà reale e credibile!“.
“Ma, il bambino? Che faccio, lo affitto? Lo rapisco?”
“Quello non serve,” dice lui, con il tono dell’ovvio “nessuno con un minimo di senso del pudore mette online le foto dei propri figli.”
Il pudore, già…
***
“Stasera abbiamo un’altra cosa da festeggiare!” urlo al telefono a Giovanni appena uscita dall’ufficio di Azzo.
“Devo sedermi?” è da qualche mese che abbondano le frecciatine sul fatto che si aspetterebbe una vera sorpresa da me.
“Non vivrò più al seguito delle celebrities!”. Conosco Giovanni, meglio prenderla un po’ alla larga.
“Finalmente tornerai a casa a un’ora decente”.
“Dovrò inventarmi una nuova identità digitale e diventare una mamma social” cerco di fare finta che non ci sia nulla di strano nel compito che mi ha assegnato.
“Voi siete matti. O forse siete dei criminali, non ho ancora capito”.
“È un’idea di Azzo! E’ un visionario, lo sai”.
“Basta che non ti faccia passare definitivamente la voglia che già non hai”.
Non cadere in facili provocazioni, mi dico. “Ti amo! A stasera!”.
***
Se devo costruirmi un’identità, la prima da cosa da fare è: ricerca. Online ci sono tantissime mamme blogger: quelle bio, quelle giramondo, quelle romantiche, quelle giocherellone. Mamma perfetta, mamma imperfetta, andiamomamma, yummimummy, travelmummy. Ne sanno una più del diavolo. Fanno mille cose, vanno dappertutto, hanno soluzioni ad ogni problema. Sono belle e sorridenti a tutte le ore, capelli perfetti, la casa sempre in ordine, le merendine e i succhi sono fatti in casa, con prodotti del loro orto anche quando non hanno un terrazzo, i loro figli fanno yoga e ascoltano musica classica, parlano tre lingue e hanno già girato un paio di continenti. La mia ricerca offline arriva a delle conclusioni un po’ diverse. Mi accorgo che tutte le mie amiche con figli non le vedo da…forse proprio da quando hanno partorito. Ogni volta che proviamo ad organizzare un incontro, succede qualcosa dal sapore tragico che ce lo impedisce: “Diego ha il raffreddore, siamo al pronto soccorso“. “Non mi esce più il latte dalla tetta, stasera mi tocca la spremitura manuale”, “Devo andare a letto presto, Manfredi domani ha la gara di nuoto e sono troppo nervosa”. Non sono pazze, sono sfinite. Parlano solo di epidemie. Sono ossessionate dalle maestre. La loro vita sociale è ridotta alle feste dei bambini nei weekend. Sono invecchiate dieci anni. Ai loro occhi io sono ciò che loro non sono più e per questo mi odiano. L’unica mamma che vedo è Ramona, la mia vicina di casa. Ha un figlio, Luca, che ha due anni. Farò ricerca su campo con lei.
Dopo qualche giorno, decido di andare a trovarla. Mi apre e ho la netta sensazione che non aspettasse visite. Mi sembra di avere davanti la protagonista di un disaster movie nel bel mezzo dell’uragano. Maglia infilata all’incontrario, decorata con macchie biancastre rapprese, capelli divisi in ciocche unte che le ricadono sulla faccia e sulle spalle.
“Ciao, volevo sapere come stavi, è da un po’ che non ti vedo” è solo la prima di una lunga serie di menzogne, penso.
“Da schifo! Luca è malato, di nuovo. Mia mamma non mi può dare una mano perché ha il colpo della strega, io non esco da 4 giorni. Per fortuna qualcuno si chiede se sono ancora viva”.
Mi invita ad entrare nel suo soggiorno postatomico: ci sono panni da stirare sul divano, un apparecchio per l’aerosol accanto al camino, tazze sporche sul fasciatoio, scatole di pannolini e fazzoletti sopra la televisione e Luca lì per terra che mi sorride in un modo perfetto. A differenza della mamma, è pulito e ben vestito. Starnutisce. Calcolo la traiettoria dei bacilli dal bambino al mio naso e capisco che non avrò scampo. Poi Luca mi mostra un trenino e una pista da montare. E mi ritrovo immediatamente seduta per terra accanto a lui, ubbidiente. Mentre incastro i binari di legno con una certa soddisfazione, sento che c’è qualcosa sotto a quella fila di rotaie. È un anello, dentro c’è scritto Ramona, 15 settembre 2006. “Ramo, tuo marito deve aver perso la fede”. Ramona non sembra sollevata per il ritrovamento. “Dammela. Se la trova Luca, ci si strozza” Me la strappa dalle mani e la infila nel primo cassetto che trova, quello delle posate. “Ti spiace rimanere qualche minuto con Luca mentre scendo a fare una commissione?”. Ce la posso fare, penso, è tutta ricerca per il mio nuovo personaggio. E sparisce, per un’ora.
Chissà se le segue, le mamme su Instagram. Chissà se ci ritrova qualcosa di utile per la sua vita. I suoi problemi non sono i lavoretti con la pasta di sale, come decorare la cameretta del figlio o le migliori mete per weekend con bambini, ma il fatto che il marito non ci sia mai, o peggio non ci sia più. Chissà se su Facebook qualcuna di loro ti spiega come cavartela quando sei rimasta da sola, con l’ansia che non ti fa addormentare prima delle 3 di notte, sapendo che dovrai in qualche modo trascinarti al lavoro dopo poche ore?
***
Ramona non si è domandata il perché da quel giorno io le abbia offerto totale disponibilità ad aiutarla con Luca. Non si è stupita che io sia diventata una grandissima esperta di montaggio giocattoli e di crisis management, ovvero la gestione delle crisi di pianto improvvise e immotivate che colpiscono i bambini, specialmente fuori casa, specialmente davanti agli altri, specialmente quando hai fretta. Non ha nemmeno notato come io abbia in poche settimane sviluppato quella capacità che hanno le mamme di accantonare i propri bisogni per far spazio a quelli dei figli.
E non è divenuta sospettosa nel vedermi prendere così tanti appunti sul mio taccuino verde. In questi mesi mi ha aperto il suo cuore su tutto: le mille emozioni contrastanti della maternità, la depressione, il sesso, il rapporto con la madre, la separazione con un figlio piccolo. Non mi spiegavo perché lei non pronunciasse mai una parola di amarezza nei confronti del marito. “Fai uscire la rabbia, se tieni tutto dentro ti verrà la pancia gonfia”, avevo provato a scherzare. In verità ero io quella che sentiva il bisogno di sfogare il proprio livore per quell’uomo. E lo facevo la sera a casa, con il mio Giovanni: “Quel bastardo se la starà spassando con una ventenne. Cos’è che non gli andava più bene, la misura del girovita? O che ci fosse un altro a cui lei dicesse bravo a ogni scureggia?”,“Ha sbattuto la fede per terra e se ne è andato. Nemmeno si è preoccupato di raccoglierla, Luca ci si sarebbe potuto strozzare”, “Certo che voi uomini siete proprio delle merde” concludevo mentre Giovanni scuoteva la testa.
Ramona non si accorgeva che, come un cecchino, con un cellulare al posto del kalashnikov, sparavo fotografie sulla sua vita, senza mai mirare al volto. Mi piacevano i ritratti della sua mano, senza fede, che accarezza i capelli del bambino, le sue tette svuotate e la pancia sblusata, le nature morte con pastiglie e goccine disposte sul comodino, pronte a fornirle l’aiuto necessario per affrontare la notte, e quel vibratore, che ogni tanto Luca scambiava per un suo giocattolo.
Nelle nostre lunghe passeggiate al parco, che noi chiamavamo “la gabbia”, Ramona e io osservavamo le puerpere sprofondate sulle panchine e alienate sul proprio telefonino, cullando il passeggino con un piede, per un istante libere dai sensi di colpa. Noi ridevamo e parlavamo di sesso. E mentre lei trovava un po’ di sollievo alla pressione di quella vita, io trovavo la mia identità digitale e la storia che volevo raccontare.
Così è nata la mamma meno convenzionale della rete. Il suo nickname è Sottountrenino ed è una celebrity. A chi la definisce una “mamma disfunzionale” lei replica dichiarandosi una postfemminista collaborazionista. Nessuno conosce la sua vera identità. Ha vinto premi di giornalismo, e questa è la prova che il giornalismo è davvero morto. Sono veramente felice, mentre per Azzo l’operazione è un disastro perché nessuno sponsor ha mai investito un euro sul progetto. I premi li ritira tutti Ramona, a cui ho dovuto confessare la mia attività clandestina. Quando ho fatto outing e le ho raccontato quello che stavo facendo mi ha dato uno schiaffo. “Ti ammazzo, hai preso per il culo me e soprattutto un bambino di 2 anni”. Poi ha letto tutti i post di questi ultimi due anni di Sottountrenino, e ha capito. Parlano di depressione, separazione, isolamento, a volte di pannolini in sconto e raccolte punti, di amore per i figli e impotenza. Parlano di incertezze. Parlano di come non vogliamo essere e come non vogliamo crescere i nostri figli. Parlano di abusi. Recensiscono gli antidepressivi in commercio e ne propongono di naturali, spiegano gli esercizi da fare quando l’ansia diventa troppo forte e propongono delle soluzioni per riconnetterti con il tuo bambino, anche quando tutto sembra stare per esplodere. Parlano di tradimenti, come quelli di Ramona. Il marito l’ha lasciata quando ha scoperto che aveva un’amante e non si è ancora capito chi sia il vero padre di Luca. Parlano di sbagli e come volersi bene quando se ne fanno.
In questi due anni, ho scoperto tante cose dell’essere mamma e lo sono un po’ diventata. Contemporaneamente, ho scoperto di non poter avere figli. E’ una questione fisica, non più economica, a determinarlo. Per Giovanni è stato un duro colpo. Ci amiamo ancora, ma non credo che la nostra storia reggerà.
WHAU, complimenti per la scrittura; sul tema avrei da aggiungere un mio parere e cioè che ritengo la maternità un impegno che va preso al di là della prestazione del proprio fisico; cioè essere mamma, o comunque sia essere un genitore perché il discorso vale anche per gli uomini, non è mettere al mondo un figlio in senso fisico, ma è crescerlo, scoprirlo giorno per giorno nelle sue esperienze e accompagnarlo. Il compito di un genitore è quello di dargli gli strumenti giusti per affermare la propria personalità, ma credo che le protagoniste del tuo racconto, e molte persone oggigiorno, hanno perso di vista questa prerogativa dell’essere madre e continuano a misurarsi solo con i canoni dell’esteriorità.
Sei proprio brava! Hai una scrittura ironica, descrittiva e brillante che sa essere al tempo stesso affettuosa e impietosa con chi si merita l’una o l’altra cosa. E il racconto è una perfetta fotografia “morale” (scusate la parolaccia) di come si sono trasformati il linguaggio e il mondo del lavoro, e di quanta dignità hanno perso entrambi, e forse intorno ad essi anche noi. Però attenzione: c’è una via di uscita, una strada secondaria che si può percorrere senza tradirsi (troppo). Complimenti!