Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “La gara più importante” di Paola De Donato

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

La pista è pronta, il pubblico è caldo, entusiasmato, scalpitante. La giuria è preparatissima e non perdonerà un singolo errore. È la gara più importante. Le altre partecipanti sono già tutte intorno alla pista, a respirare quell’adrenalina che ti fa volteggiare prima ancora di esibirti. Nello spogliatoio siamo rimaste solo io e te. Ci guardiamo allo specchio, contemporaneamente. Dal mio occhio sinistro si affaccia una lacrima, si aggrappa alle ciglia e si mette in posa per specchiarsi anche lei. Sapendo che la sua esistenza sarà breve vuole splendere il più possibile, quindi acquista luce man mano che scende sul viso, temporeggia qualche secondo sul mio mento e poi, anziché finire sul pavimento, viene raccolta da te, che col tuo vizio di accogliere ciò che perdo io, nascondi spicchi di sole. Sento affievolire il sentirmi morbida come pongo, dote essenziale per una pattinatrice, una fusione tra tecnica e bellezza che rende i suoi movimenti naturali come le onde del mare. Io sono un pezzo di pongo essiccato, per questo oggi la protagonista della gara sarai tu.

“Perché io sono un pezzo di pongo, morbido morbido” affermi con una voce che sembra il fischiettio di un bambino dispettoso. Sgrano gli occhi ascoltando queste tue parole e ti osservo startene tranquilla e paciosa. Non ti preoccupi di farti bella, ti piaci così come sei e l’agitazione non ti tocca. Sembra che tu ti senta già la vincitrice, la reginetta del pattinaggio. La sicurezza che ostenti mi da i nervi.

“Stai scherzando, spero. Tu sei un dannato pezzo di ferro, altroché pongo, più rigida di te non s’è mai vista nessuna” replico buttando fuori, senza ritegno, tutta l’antipatia che provo nei tuoi confronti.

“Secondo me sei un tantino gelosa” fai tu, provocandomi.

“Gelosa non credo proprio, semmai infastidita”. Cerco d’imitare il più possibile la tua voce di bambina. Perché tu sappia che non mi faccio di certo sovrastare da te.

“Però ti senti messa in secondo piano, ammettilo. Sennò non te ne staresti qua immobile e imbambolata mentre tutti si stanno godendo l’inizio della gara, una gara che hai preparato con fatica e sacrificio. Che diavolo ci stiamo a fare qui, mentre la festa è già iniziata, vorrei proprio saperlo”

“Tu non puoi sapere nulla, provi a comprendermi, a fare l’amica, ma non mi freghi, sei un’impostora che cerca solo di rubarmi la scena”. Mentre pronuncio queste parole penso di star esagerando. “Questa cattiveria non è da me, non la riconosco”.

“Sì, infatti non è da te” fai eco tu.

Per un attimo ho l’impressione che, fra le tue capacità, tu sia anche in grado di assorbire i miei pensieri e di portarli all’esterno, come una specie di pappagallo stregone. Se così fosse sarebbe davvero un bel problema, dato che, a quanto sembra, non mi libererò di te così facilmente.

“Che fai, spii anche i miei pensieri, adesso?”  Ti chiedo un po’ preoccupata e un po’ indispettita.

“Stai semplicemente pensando a voce alta”

Il tuo tono di voce, rispondendomi, cambia da quello di bambina dispettosa a quello di mamma comprensiva.

“Vedi, anche pazza mi stai facendo diventare, mi fai persino parlare da sola” Non mi farò fregare da questo tuo tono intenerito.

“La causa dei tuoi problemi non sono io, ma te stessa, chissà se ne prenderai mai coscienza”

Le tue parole sono come uno spintone, uno spintone che mi fa perdere l’equilibrio. Dallo specchio vedo la mia immagine cadere all’indietro, evitare quasi miracolosamente di sbattere la testa su una delle panche dello spogliatoio.

“Appoggiati a me, per rialzarti” mi proponi.

“No” ti rispondo io, seccamente. In quei pochi secondi che intercorrono fra la tua proposta di soccorso e il mio netto rifiuto il soffitto bianco dello spogliatoio diviene la pagina bianca di un libro e si materializza una mano, forse frutto di un’allucinazione provocata dalla botta che ho preso, che volta pagina, all’indietro.

“Vuoi rimanere lì per terra?”

La tua voce mi giunge lontana, lontanissima. La mano immaginaria ha voltato pagina e mi ha riportato a un momento passato che è un marchio di fuoco bruciante l’essenza della mia mente.

“Sì, fammi rimanere sdraiata qui, che sono stanca”

Il pavimento freddo e inospitale dello spogliatoio si fa, ora, materasso caldo ma scomodo. Sono sdraiata e seduto accanto a me c’è un uomo che conosco bene. L’indice della sua mano destra sta scivolando sulla mia coscia sinistra. Posso avvertirne il tocco deciso e ogni singola parte di me desidera sentirlo scendere sull’intera gamba, come un corpo assettato che si accontenta di alzare lo sguardo a un cielo annunciante un temporale e spalanca la bocca alle prime minuscole gocce di pioggia. Ma la sua sicurezza vacilla quasi subito e il suo dito viene catturato dall’amo dell’incertezza, che lo allontana da me, dipingendo sul suo volto l’espressione spaventata e addolorata di un animale caduto in una trappola crudele e imprevista.

“Prova ad accarezzare arrivando fino al piede” lo esorto, illudendomi di poter sentire il calore della sua mando risvegliare quella parte di me che so essersi irreversibilmente spenta.

“Non ce la faccio” mi risponde lui con lo sguardo inerte di chi ti sta dicendo che la paura gli ha risucchiato tutte le energie.

“Fai uno sforzo” lo supplico io.

“Non ce la faccio” ripete lui, come un registratore rotto che non sa più continuare la sua narrazione.

“È stato un incidente, sai quanto vorrei anche io tornare indietro”. Gli dico bagnando il cuscino del letto di lacrime che il mio viso non sente. Ripenso a quella sera, a quella ubriacatura di cui mi pentirò sempre. Guardavo il bancone del bar in cui mi trovavo e il cameriere che miscelava cocktails: visto attraverso l’alcool contenuto nei bicchieri che mi ero scolata, il mondo mi sembrava più allegro, più interessante. Ho seguito quest’illusione per le strade della notte, finché si è infranta, lasciandomi addosso segni indelebili.

“Fai uno sforzo” provo a chiedergli nuovamente.

Ma lui non risponde. Lascia la stanza, mi lascia.

“Non mi lasciare” grido a una stanza ormai vuota.

“Non mi lasciare”

La mia voce fa sussultare la mia schiena che si scopre a disagio sulle piastrelle anonime di un pavimento. Sono nello spogliatoio della pista di pattinaggio. Ricordo di avere una gara. La gara più importante.

“Appoggiati a me”

Di nuovo la tua voce.

“Tu non puoi capire” Ora le mie parole sono scevre di ogni ostilità, ma cariche del dolore di una ferita ancora aperta, che so per certo non si rimarginerà, né oggi, né mai. Un vuoto che ha reso assente tutto il mio sentire. Mi tocco la coscia e non sento nulla. Mi tocco ventre, braccia, viso. Non sento nulla. È un’infezione che mi ha contagiata totalmente. Sono prigioniera di quella sera, di quell’incidente causato dalla mia superficialità. “Se fossi stata un po’ più attenta non ti troveresti in questa situazione”, questa è la frase, l’ammonizione, che ho letto, dopo, negli sguardi di tutti.

“Fino a quanto hai intenzione di torturarti?” mi fai tu che, no, non ti arrendi, vuoi a tutti i costi che mi ritiri su.

“Fino a quando non sentirò”

“Non sentirai che?”

“Me stessa”

“Allora alzati. Alzati e andiamo. C’è una gara, la gara più importante. La pista ci aspetta”

“Non fare l’amica. È tua la colpa di questo mio non sentirmi, di questo mio non emozionarmi. Pensa alle prove per la gara, tutti a guardare te, con un misto di ammirazione e timore. Tu, con la tua mania di protagonismo, con la consapevolezza della tua particolarità che attrae. Quando mai s’è vista una pattinatrice gareggiare in questo modo. E non ti vergogni di avere tutti gli sguardi puntati addosso. Non ti vergogni che nessuno noti me”

“Qui l’unica che si vergogna di te sei tu” mi rispondi, sfacciata.

“Ripeti se hai coraggio”

Sento la rabbia annebbiarmi il cervello.

“Lo sai benissimo. Sei tu la prima a vergognarti di te stessa. Tu la prima a non accettarti. Tu che ti rifiuti di sentirti. Se non ti ami tu, non puoi pretendere che lo facciano gli altri. È per questo che lui ti ha lasciata”

Questo troppo, penso, troppo da sopportare.

“Ora ti faccio fuori, a costo di rimetterci io”

Senza accorgermene, presa dalla furia momentanea, faccio leva su di te per alzarmi. Diamine che idiota che sono.

“Ora me la paghi” urlo mentre sono in procinto di afferrarti desiderosa di danneggiarti. Proprio in quel momento, però, entra l’allenatore che ci ha preparate. Dice di sbrigarsi, che bisogna salire in pista. Mentre andiamo abbasso lo sguardo e ti osservo, con aria minacciosa, per dirti che le tue parole non me le scordo, che dopo faremo i conti. Ma tu non rispondi alla mia provocazione, ora brilli sotto le luci della pista di pattinaggio, che sembrano esser state pensate apposta per darti risalto. Tutti gli occhi sono puntati su di noi. Anche il suo volto, il volto di colui che mi ha lasciata, che scorgo tra il pubblico, ci osserva. Sono sorpresa da un prurito alla gamba sinistra. Un lieve dolore che è come il sole del mattino che coglie impreparati gli occhi immersi nelle tenebre. Tocco la mia coscia sinistra e lo sento, sento il caldo della mia mano, sento me stessa, di nuovo. Poi tocco te, per la prima volta e guardando il completo nero che indosso mi rendo conto che brilla degli stessi spicchi di sole che nascondi tu. Nonostante l’odio che nutro nei tuoi confronti devo ammettere che sei stata un’eccellente pezzetto di pongo, ti sei modellata a me, sfidando il mio dispettoso destino e mi hai portata sin qui. È arrivato il nostro momento. Infilo i pattini ed ecco che stiamo per iniziare. Faccio un primo passo in pista, mettendo avanti la gamba sinistra, in attesa che l’altoparlante ci annunci.

“La pattinatrice che gareggia assieme alla protesi che sostituisce la sua gamba sinistra, amputata a seguito di un incidente”

La pista è pronta, il pubblico è caldo, entusiasmato, scalpitante. La giuria è preparatissima e non perdonerà un singolo errore.

È la gara più importante.

 

 

 

 

 

 

 

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6 commenti »

  1. Cara Paola, grazie. Mi sono commossa. E’ una storia che non è fantasia, ma un dramma di vita, purtroppo comune. Perdonarsi per aver cambiato le carte del destino… quanta forza ci vuole. Disperarsi, vedere solo il buio intorno, ma poi all’improvviso ritrovarsi e amarsi. E’ così che si torna a brillare, forse più di prima… Di stelle e spicchi di sole ne ho visti tanti e ogni volta ho imparato qualcosa.

  2. Esattamente Ester. “La gara più importante” è proprio questa, trovare la forza per brillare nel buio. Grazie per aver compreso e grazie per le tue parole.

  3. Ed è un racconto importante. Emozionante. Complimenti all’autrice.

  4. La gara più importante è la vita e tutti devono “salire in pista”. Il racconto di Paola ci suggerisce che per partecipare alla vita l’unica chiave valida è amarsi, nonostante tutto.

  5. Il racconto fa ben conprendere come “la gara piú importante” può essere gareggiata anche dopo le ferite e le drammaticitá piú forti, l’importante è ritrovare il sentimento che ti spinge interiormente e ti fa sentire vivo, il di fuori è solo un guscio.
    Grazie

  6. La “gara più importante” è quella contro noi stessi, le nostre fragilità e i nostri fantasmi. Racconto incalzante e commovente: bravissima l’autrice!

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