Premio Racconti nella Rete 2018 “Il mare oscuro” di Massimo Navarra
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018L’acqua è fredda, a tratti gelida. Non dovrebbe essere così, siamo quasi in estate e l’aria lì fuori è mite. Il sole qui al Sud picchia, sopratutto adesso che è mezzogiorno.
La prima nuotata della stagione. Di solito sempre alla fine di Maggio, o al massimo nei primi di Giugno, quando si marinavano gli ultimi inutili giorni di scuola, ormai certi di non poter cambiare il proprio destino scolastico. Si andava tutti insieme con i compagni di scuola o al massimo con qualche amico anch’egli con poca voglia di sudare dentro le orribili mura scolastiche. E’ capitato anche me, ma col tempo ho iniziato ad andare per conto mio. Affrontare il mare da solo mi riusciva bene. Senza inutili schiamazzi, senza giochi cretini da spiaggia, senza tutto quel banale romanticismo che aleggia quando si parla di adolescenti in estate.
Mi manca il respiro, e non so per quanto tempo potrò continuare a trattenerlo. Ma voglio proseguire. Non mi sto godendo la nuotata, anzi a dire il vero non mi interessa per nulla. Non so quanto ho percorso; se la spiaggia è lì appena dietro di me oppure a chilometri di distanza. Non mi importa. Non guardo il cielo sopra la mia testa o l’orizzonte davanti a me, continuo e basta. Anche se adesso non posso fare a meno di notare che sono davvero stanco. Vorrei riposarmi, magari facendo il morto a galla e non pensando a nulla, ma non appena provo a distendere la schiena e a lasciarmi trasportare dalle onde non mi sento a mio agio. Forse è per via dell’acqua gelida che mi punzecchia la pelle. Dannata pelle! Non riesco a rilassarmi, non riesco a chiudere gli occhi, non riesco a smettere di pensare.
Tuttavia provare a far funzionare il cervello ora mi provoca dolore e mal di testa. Avrei bisogno di qualche farmaco. Porto sempre con me degli antidolorifici. Ne abuso fin da quando ne ho memoria e adesso sono così abituato alla mia pillola giornaliera che fatico a separarmene anche dopo l’ultima visita dal medico: “Sano come pesce”, mi ha detto. Ma un pesce in mare non sente freddo come lo sento io adesso. Fanculo il medico! Dovrei andare in spiaggia, prendere lo zaino e aprire quella scatolina porta pillole che è sempre stata una mia fedele compagna di viaggio. Ma non ne ho voglia.
Forse è meglio proseguire. Trovare nuovi stimoli. Ma le dolci armonie dell’oceano cristallino non mi interessano. Forse una volta, tanto tempo fa, quando facevo il bagno da piccolo, insieme ai miei genitori. Ma con loro nuotavo in piscina. Qui sono all’aperto. Al largo, lontano dai bordi sicuri da afferrare se vedi che le gambe non riescono più a tenerti a galla. Ma poco importa. Oggi, mentre lasciavo i segni dei piedi nudi sulla sabbia, ho deciso che la mia prima nuotata dell’anno sarebbe stata diversa dal solito. Non sono mai stato bravissimo a nuotare, questo devo confessarlo. Posso sbracciare, dimenare i piedi, seguire le giuste norme di respirazione e tutte le regole del nuoto perfetto, ma non mi riesce mai di risultare efficace, di lanciarmi a pelo sull’acqua con eleganza e stile. Oggi riesco a muovermi, faccio qualche metro in poco tempo, ma è più per forza di volontà che per vero talento. E questo mi è sempre pesato. Se ti piace il mare devi saperlo dominare, ed io non ci sono mai realmente riuscito. Inoltre non posso definirmi una persona coraggiosa, quindi mi son sempre privato di quelle sfide che andassero al di là delle mie ragionevoli capacità. Ma questa mattina ho deciso di andare più lontano possibile, oltre ciò che ritenevo per me irraggiungibile. E adesso che sono qui, in mezzo al vuoto dell’oceano, mi accorgo che non sono più in grado di gestire la situazione. E’ chiaro che mi sono spinto troppo a largo. Ma non mi importa. Mi lascerò trascinare dalla corrente, deciderà lei per me.
Chissà quanto tempo è passato? Ormai non agito più le gambe, e le braccia sono sempre più pesanti. Forse è l’ora di mettere la faccia dentro l’acqua per vedere quanto è profondo. Spingo timidamente il naso verso il basso, ne sento la punta bagnarsi a contatto con le onde. Le prossime ad assaporare il sale marino sono le labbra. Poi con un spinta di coraggio affondo anche la fronte e gli occhi (rigorosamente chiusi). Una volta dentro non senti più niente di definito: ogni suono è sopraffatto dal rumore denso e fastidioso dell’acqua che ti riempie le orecchie e che spinge verso i timpani quasi per entrarti dentro. Schiudo timidamente le palpebre e vedo ciò che sta sotto i miei piedi. Sembra profondo. Le braccia ormai intorpidite dal freddo hanno smesso di muoversi. Le gambe hanno già abbandonato la loro funzione motoria da tempo. Non posso che sommergere.
Non credo di star annegando. Se fosse così proverei fastidio, cercherei di divincolarmi da una sorte terribile. Invece mi sento calmo e discretamente sereno, come non lo ero da parecchio tempo. Perfino l’acqua, prima gelida, adesso sembra finalmente più tiepida. Più capace di abbracciarmi. A tratti mi chiedo come farò a risalire, ma è una domanda alla quale non ho la forza, né la voglia di rispondere. Adesso sono un sommozzatore e questo ruolo non mi dispiace affatto. Sott’acqua il mare è calmo, non devi più combattere con le onde, non devi lottare per restare a galla, tutto diventa più rilassante e intimamente vuoto. E proseguendo verso il fondo non vedi più coralli e armonie, pesci colorati che sembrano usciti da un film di disneyana memoria, non più la luce del sole che si rifrange attraverso l’acqua e che ti guida verso percorsi sicuri.
Il mare quando scendi giù, diventa scuro. Diventa nero.
All’inizio ti fa paura. Non accetti che il blu vivido dell’orizzonte lasci il posto al buio delle profondità. Eppure andando a fondo, sempre più a fondo, non ti importa più. Le onde colorate diventano lontane, e perdi le forze, ma continui a nuotare. E così che fanno i sub. Ed è così che farò io.
Mi lascio cadere nella speranza di mettere i piedi su uno spoglio fondale marino fatto di sabbia e rifiuti gettati giù da chissà quale nave di passaggio. Ma il fondale non arriva mai e mi sento sempre più sospeso nel vuoto. A questo punto dubito che ci possa essere anche un fondale. Se c’è, ci metterò comunque troppo tempo per raggiungerlo. Probabilmente morirò prima. Solo in mezzo a questa oscurità.
Già, solo…
Ho dolori dappertutto, senso di nausea, fatico a concentrarmi, ma sopratutto mi sento solo. Non cerco aiuto, ma vorrei che qualcuno provasse ad offrirmelo. Ma sarei comunque troppo orgoglioso per accettarlo. E poi è colpa mia: ho deciso io di andare in spiaggia, di mettermi a nuotare nonostante sentissi l’acqua gelida che bagnava le caviglie, di andare tanto a largo da non poter tornare indietro, di guardare il fondo del mare e trovarlo affascinante.
Ma è davvero colpa mia? Erano sempre gli altri a proporre queste gite ed io mi accodavo. E così ho sempre fatto fino a convincermi che mi piaceva…
Ma io la spiaggia la odio! Il mare puzza ed è sporco!
Voglio tornare indietro. Voglio farcela con le mie forze. Torno ad muovere braccia e gambe. Mi agito. mi allungo, mi sforzo, mi infiammo, mi dispero. Ormai sono troppo in profondità per poter risalire fino alla superficie. Chiudo gli occhi.
Una sottile scheggia vibrante di luce, si insinua tra le palpebre e la pupilla e mi costringe a tornare a vedere anche contro la mia volontà. Forme di luce viventi si stagliano discrete e silenti in quello strano aere marino. Sono pesci abissali. Piccoli e illuminati, si muovono solitari incuranti di quel buio. Sono tantissimi, ognuno con forme tanto sgradevoli quanto affascinanti. Non si preoccupano della mia presenza e continuano a muoversi voraci di cibo tanto piccolo da essere invisibile. Sembrano sereni. Probabilmente a loro piace stare in quel limbo fatto di oscura indifferenza. La loro presenza in qualche modo mi rasserena. Eppure non posso chiedermi se ogni tanto anche loro volgono lo sguardo verso l’alto, magari col sogno di risalire verso la superficie.
Infine sento qualcosa di duro sotto i piedi. Nuda roccia, spigolosa ma non abbastanza appuntita da farmi del male. E’ il fondale. Finalmente ho completato la mia immersione. Mi guardo intorno, non c’è nient’altro di interessante oltre il mio traguardo. Poi alzo lo sguardo, e vedo una luce più forte delle altre. Si muove spedita e veloce, come se sapesse dove sta andando. Spalanco gli occhi non più bruciati dal sale marino, e vedo il Pesce Diavolo Nero delle profondità abissali. Brutto come solo una creatura solitaria sa essere, col suo lanternino davanti alle enormi fauci mi passa accanto senza curarsi di me. Io lo ammiro cercando di carpirne i segreti, vorrei comprendere come si può vivere sereni laggiù. Ma adesso sento che l’aria nei polmoni è finita e che di rimanere laggiù non mi importa più. Piego le gambe e le allungo in uno slancio vigoroso. Riaffioro dall’acqua. Vedo la spiaggia. Non è lontana. Qualcuno mi sta salutando.