Premio Racconti nella Rete 2018 “Il tempo di un bacio” di Elisabetta Innocenti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Sto tornando ad Abakan. Ho viaggiato tutta la notte per raggiungerla. La pelliccia mi protegge dal freddo. Cammino lungo la strada sterrata. Sono sicuro che sia quella giusta.
Sono stato addestrato a percepire i pericoli.
Quel giorno non mi aspettavo che il ghiaccio cedesse così facilmente. Ho visto Igor scomparire sotto il peso della slitta nella coltre bianca e fredda. Mi ha guardato per un attimo. Aveva uno sguardo di disperazione e riconoscenza negli occhi leggermente a mandorla. Come i miei.
Non posso credere che mi abbia lasciato solo. Sono anziano. Ho quindici anni.
E’ un traguardo per un Husky Siberiano.
Sono a casa. Riconosco le abitazioni in pietra dei vicini.
Abbaio, ululo, ma nessuno apre la porta. Mi chiedo perché.
Mi accascio a terra senza forze e mi addormento appoggiato alla porta. Sogno Igor che mi accarezza con le sue mani ruvide.
Il tempo passa: mattina, pomeriggio.
Alcuni ragazzi mi tirano dei sassi. Ridono.
Una voce dice:
- Sveglia, Zot! Vieni che ti porto in un posto.”
Faccio fatica ad aprire gli occhi. Apro il destro, quello marrone; poi il sinistro, quello azzurro.
E’ Anastasia, la vicina di casa.
Avrei voglia di morderla, ma in vita mia non ho mai morso nessuno e preferisco ubbidire.
Mi alzo a fatica.
Ho fame. Lei mi avvicina un pezzo di pane. Non è certo come l’aringa di Igor, ma è pur sempre qualcosa da mettere sotto i denti.
Ho sete. Bevo da una pozzanghera e la seguo.
Si avvia lungo la strada del cimitero, a pochi passi da lì. Non posso ancora credere che lui non ci sia più.
- No, non da quella parte! Seguimi…
Ubbidisco controvoglia. Faccio fatica a muovermi con agilità adesso.
Alla fine del viottolo vedo un grosso edificio con una croce rossa in alto.
Nel cortile, un uomo è seduto su una panchina. E’ ferito. Ha la testa e le braccia fasciate.
Si gira lentamente. Mi guarda con il sorriso negli occhi leggermente a mandorla. Come i miei.
Ho bisogno di radermi. Mi alzo dal letto con difficoltà.
Mi guardo per la prima volta dopo l’incidente. I miei occhi, scuri e leggermente a mandorla, sono cerchiati da un alone viola.
La bufera di neve era troppo forte. Mi chiedo se Zot ce l’avrà fatta.
Già mi manca. Mi manca il suo sguardo fiero – da lupo – fisso su di me: il suo padrone; da quindici anni ormai.
Vorrei tanto che fosse qui. Gli accarezzerei il pelo morbido sul petto e sulla schiena che diventa ispido solo verso la coda.
Vorrei tanto andarlo a cercare ma, per adesso, non mi posso allontanare; almeno finché non si sono rimarginate le ferite.
“Finalmente è uscito il sole!” commenta l’infermiera con la voce ruvida – le forme rotonde come una matrioska dentro il camice grigiastro.
“Chissà se ce l’avrà fatta in mezzo a tutta quella neve…” bisbiglio.
“Mi scusi … cosa sta dicendo… signor?”
“Il mio nome è Igor.” esclamo, come uno scolaretto di fronte alla maestra il primo giorno di scuola.
Io avevo la bussola con me, mentre lui no, poverino!
Certo, ho sentito parlare di storie strappalacrime, di cani che hanno ritrovato i loro padroni a miglia di distanza, con il solo fiuto come guida.
Ecco… sento che sto per piangere e… so che piangere non è roba da uomini.
Chiudo gli occhi cercando di pensare a qualcosa di bello.
Mi viene in mente la prima volta che ho visto Zot. Non so perché ho scelto proprio lui fra i dieci della cucciolata. Sarà stato per il colore diverso degli occhi: uno azzurro, uno marrone. Sarà stato per le orecchie grandi, una piegata all’insù e l’altra all’ingiù.
E’ stato amore a prima vista.
Col tempo, si è snellito e irrobustito.
Ieri non avrei dovuto portarlo fuori. Sapevo che c’era la bufera in arrivo. E poi, era… è troppo anziano per trainare una slitta.
Come farò senza di lui!
Mi è stato vicino in ogni momento, anche nell’ultimo periodo della malattia di Svitia, mia moglie. La mia unica luce.
Tante volte penso che sarei dovuto morire io al suo posto. Invece, lei mi amava troppo e ha preferito battermi sul tempo.
Non abbiamo avuto figli. Zot è stato l’unico a rimanere sempre al nostro fianco.
A quel tempo, poi, aveva lo sguardo triste; come se sentisse che lei, presto, ci avrebbe lasciato.
Da allora sono passati cinque lunghissimi anni; e da allora non esco più con una donna. Le occasioni non mi sono mancate ma… non ce la posso fare! Sarebbe come tradirla.
Certo, ultimamente Anastasia, la nuova vicina, sta facendo vacillare questa mia convinzione. I suoi occhi verdi, grandi e tristi, sono come i diamanti incastonati nella roccia.
Il marito l’ha abbandonata per un’altra tanto tempo fa e questo gesto le ha lasciato solo rabbia nel cuore. Ho cercato di avvicinarla, ma in ogni uomo vede solo un potenziale traditore.
Ultimamente credo di piacerle. Ogni volta che mi rivolgo a lei, anche se con un semplice saluto, arrossisce.
Credo che Zot sia geloso. Ogni volta che la vede, abbaia a più non posso. Sembra quasi che voglia morderla. Poi, improvvisamente, si calma.
E’ piuttosto alta e robusta. Si veste in modo semplice, come una donna di campagna. Porta vestiti ampi e gonne sotto il ginocchio che non rivelano le sue forme. Da qualche tempo, di notte, la immagino seminuda in una camicia da notte di lino bianca, che lascia intravedere il grande seno, il ventre piatto e le braccia tornite, che mi stringono forte e mi fanno dimenticare il dolore.
Tante volte, ho pensato di invitarla a prendere una vodka oppure un kvas ai frutti di bosco, un po’ meno alcolico; ma non trovo il coraggio.
Sono ancora legato al ricordo di mia moglie e, poi, mi sono abituato a stare da solo; anzi, con il mio Zot.
Respiro con difficoltà. L’infermiera mi guarda con sguardo compassionevole.
Ha ragione. Sono un uomo solo.
Anche adesso, ho solo voglia di uscire a prendere un po’ d’aria, così posso respirare meglio e piangere in pace senza essere disturbato o, peggio ancora, compatito.
“E va ben, signor Igor…” – mi legge nel pensiero – “… può andare fuori … ma solo per una mezz’ora. Si ricordi che non si deve stancare! Si metta in tasca questa sveglia. Fra poco passeranno per il controllo. Appena suona, rientri subito in camera, mi raccomando! Sennò chi lo sente il dottor Sergej!
Mi allontano zoppicando. La testa e le braccia mi fanno ancora male sotto le fasciature.
Il sole dalle mie parti non è abbastanza forte. Solo adesso che è pomeriggio riesce a riscaldare a malapena il terreno a tratti ghiacciato.
Per un attimo rimpiango il calore della miniera.
Finalmente raggiungo la panchina. E’ dura e fredda, ma mi siedo ugualmente. Metto la testa fra le mani. Vorrei riuscire a esternare tutta la mia tristezza, ma non ci riesco.
Mi avvolgo nel plaid. Passa un po’ di tempo e mi addormento.
Sogno una spiaggia bianca. La sabbia dorata luccica sotto il sole di mezzogiorno. Zot saltella allegramente con un legno levigato fra i denti. Vuole giocare. Il mare cristallino risplende lì a pochi passi.
Eppure provo un’angoscia profonda. L’angoscia che nasce da una mancanza.
Una figura di donna appare, all’improvviso, fra le onde. E’ una sirena, ne sono sicuro. Assomiglia a Svitia, solo più giovane. I lunghi capelli biondi bagnati le coprono le spalle fino alla schiena. Il suo sguardo silenzioso è più loquace di mille parole. Vorrei tuffarmi per raggiungerla, ma non riesco a muovermi. Zot abbaia, un po’ verso di me, un po’ verso di lei, per avvisarmi che è ritornata, finalmente! Invece, l’affascinante creatura fa un cenno di saluto con la pinna e, senza aspettare oltre, si allontana verso il largo con un tuffo vigoroso finché non scompare tra i flutti.
Non so perché, ma sento l’angoscia allontanarsi e, piano piano, trasformarsi. Una calma profonda, quasi irreale, mi riempie il corpo e l’anima, finché non mi sveglio e mi ritrovo qui, su questa panchina dura e fredda.
Tremo. Mi sa che ho la febbre.
Una leggera brezza proveniente da oriente mi raggiunge d’un tratto. Sembra un richiamo. Un brivido mi percorre la schiena.
Mi volto in quella direzione, verso il fiume Akaban, e vedo Anastasia – mirabilmente incorniciata dal cancello di entrata – che si avvicina a grandi passi verso di me.
Certo, è così bella quando arrossisce!
Mi sorride appena, ma io non riesco a ricambiare il sorriso, perché penso al mio amico perduto. Lei mi legge nel pensiero, si sposta delicatamente e indica un bellissimo Husky Siberiano che la segue con passo stanco.
Appena mi riconosce, raddrizza le orecchie e socchiude gli occhi a mandorla come se avvertisse un pericolo.
“Lo sapevo!”
La mia gioia adesso è davvero incontenibile e – stranamente – non sento più alcun dolore, come se le ferite si fossero miracolosamente rimarginate.
Prima di essere assalito da Zot – che ha già preso la rincorsa per esprimere la sua di felicità – grido verso Anastasia, con un tono che non ammette repliche:
“Ehi, bambina … una di queste sere… ti va di andare a bere una Vodka?”
Lei non risponde e il suo sguardo diventa improvvisamente cupo.
“Oppure… un kvas, un po’ meno alcolico… ai frutti di bosco!”
A questo punto, trattiene a malapena un sorriso e mormora un debole “Okay!” arrossendo di nuovo.
Zot mi raggiunge. Finalmente siamo di nuovo insieme.
Gli accarezzo il pelo morbido. Lui scodinzola e abbaia.
La sveglia che ho in tasca risuona nell’aria fresca del tramonto, per ricordarmi che è ora di rientrare.
Senza pensarci due volte, la spengo in tutta fretta e la lancio verso il cespuglio più vicino.
“Forza Zot, vai a cercarla!”
Senza farselo dire due volte, corre verso il cespuglio. Sa che ogni volta che ubbidisce, riceve una piccola ricompensa: un pezzo di pane o di aringa oppure una semplice coccola.
Senza parlare, Anastasia si avvicina alla panchina.
Si siede accanto a me; mi guarda e mi accarezza il viso sfiorando delicatamente le ferite.
Mi dispiace, ma il dottor Sergej dovrà aspettare ancora un po’.
Non molto.
Il tempo di un bacio.
Ciao Elisabetta, un racconto di struggente tenerezza! Brava!
Igor e Zot un’amore senza fine. Molto tenero.