Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Amore mio adorato” di Lucia Masetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Quasi, ma non proprio.

Sempre a un pelo da tutto.

Questo era il destino di Ugo Fascolo. Almeno avesse avuto il nome giusto! Sarebbe stato, certo, un nome pomposo, pesante da portare, considerato il poeta a cui era appartenuto; ma almeno sarebbe stato un Nome. Invece no: c’era andato vicino, ma no. E ogni volta che le persone per distrazione si confondevano, lui le correggeva piagnucolando: “Fascolo, Fascolo, con la A.” Sembrava che se ne facesse una colpa, d’avere quel nome sbagliato. Peggio che sbagliato: quasi giusto.

Fascolo era ricco di famiglia, non era sposato, e non aveva vincoli di sorta che lo distraessero dal suo lavoro prediletto: studiare. In effetti studiare era l’unica cosa in cui fosse veramente bravo, l’unica che gli desse la sensazione d’avere uno scopo nella vita; e per questo ci si era attaccato come una cozza, tanto che in paese lo chiamavano “il mai abbastanza laureato.” Cosa poi se ne facesse di tutto quel sapere, nessuno se lo sapeva spiegare. Era come quelle persone che mangiano tanto e non ingrassano mai: lui divorava libri, ma di fuori restava lo sciocco di sempre.

Tutti i giorni passava ore in università a fare ricerca. Cosa ricercasse poi, chissà. Era lì, a sbirciare libroni polverosi e a scambiare qualche parola coi colleghi che, gentili, lo tolleravano. I primi tempi il suo sguardo li seguiva ansioso e compiacente, come a cercare la loro amicizia. Ma perché poi? I colleghi sono colleghi. E del resto avevano poco in comune: forse nulla a parte lo studio, o comunque nulla che loro tenessero a condividere.

A poco a poco anche Fascolo ci si era abituato, e ora non cercava più niente. Ricercava e basta.

 

Una sera però gli accadde un fatto curioso. Da un vecchio librone che stava sfogliando cadde un foglio, di una carta da lettere ingiallita e sciupata. Non c’era scritto nulla se non, proprio all’inizio, una frase:

Amore mio adorato,

Proprio così, con la virgola finale.

Era, o sembrava proprio, l’inizio di una lettera. Ma non c’era destinatario, mittente, nulla. Non c’era neppure la lettera. Solo quella frase sospesa sul niente, e quella virgola che come un ponte troncato non arrivava da nessuna parte.

Amore mio adorato. Fascolo ripeté le parole tra sé, voluttuosamente: gli sembrava di affondare i denti in pastosi biscotti di mandorle.

Poi un pensiero lo sorprese. Però, che tristezza. Qualcuno, da qualche parte, forse aveva atteso quella lettera. E qualcuno l’aveva progettata, l’aveva magari scritta per intero con la mente. E poi, per chissà quale motivo, l’aveva abbandonata. Ed era rimasta solo un’attestazione d’amore, senza destinatario: un inizio senza un seguito.

Fascolo si sentì quasi in colpa per quell’imperfezione, come se l’avesse causata lui. O come se, in qualche modo, fosse responsabile della rovina che certo doveva aver interrotto quella mano, partita con una dichiarazione tanto ardente. Quali eventi straordinari le avevano impedito di esprimersi, di compiere quell’amore che tanto sembrava promettere? O forse si era trattato piuttosto di faccende d’ordinaria amministrazione: una serie di giornate opache, che avevano interrotto il primo slancio e continuamente l’avevano rimandato, fino a spegnerlo…

Ma soprattutto: che cosa avrebbe voluto comunicare, l’autore della lettera? Questa domanda tormentava Fascolo più di tutte le altre. Chi scrivesse a chi, poco importava. Ma cosa?

Di nuovo Fascolo sentì quel prurito alle mani che a volte lo prendeva: come se dovesse fare, o dire, o scrivere qualcosa, ma senza avere idea di che cosa. Con uno scatto prese in mano la penna, e se la dondolò un po’ tra le dita.

Infine attaccò a scrivere sul vecchio foglio, un pochino sotto la frase che apriva la lettera. La scrittura originale era curva, slanciata, elegante: una di quelle grafie all’antica che sembrano compiacersi di se stesse nel procedere. La sua scrittura invece era piccola e nervosa come le zampine di un topo, e spiccava in ridicolo contrasto. Ma non importava.

Scrisse con una lentezza pensosa, dapprima, poi sempre più veloce come se le parole schizzassero da sole fuori dalla penna.

“Amore mio adorato,

Non so cosa dirti esattamente. La vita mi sembra alle volte un fiume indistinto di cose, e non so fermarne una per parlartene. Eppure ho bisogno di scriverti, perché tu sei l’amore che ad ogni istante mi fa respirare. Se soltanto potessi mettere una tregua nei miei pensieri, forse troverei il modo di dirti, non semplicemente qualcosa, perché per quello ogni chiacchiera è buona, ma la cosa. Ci sarà una cosa che sta sotto, intorno, no che sta dentro a tutte le altre. Una cosa che veramente importa, al di là di tutti i fatti, i pensieri, le parole. Una cosa che tenga insieme tutti i frammenti che ora la memoria mi deposita sulla porta, e che io ti potrei mandare, come tanti pezzetti di vetro dall’incomprensibile forma. Amore mio, quanto tempo che siamo lontani.”

Fascolo si fermò, sorpreso di se stesso. Non capiva come potesse averci messo tanta foga, parlando ad un amore che non esisteva, che non era il suo, che lui non aveva mai neppure provato. Non se l’immaginava nemmeno, come pure tante volte aveva fatto: non gli dava un volto, una voce, nulla. Si beava soltanto di quelle parole, “Amore mio adorato”, come il bambino che ripete mille volte “mamma”, solo per il gusto di sentire quel nome nella bocca. E dentro a quelle parole c’erano tutte le cose che aveva scritto… e ce n’erano anche altre, sicuramente.

Abbassò la penna con lentezza. All’improvviso aveva paura.

 

La sera dopo tornò alla scrivania. Nell’appartamento buio e deserto, il rumore della penna si diffuse come il raschio di un piccolo topo.

“Amore mio adorato…”

Scrisse di tutto, e di niente. E continuò a scrivere fino a notte fonda, mentre la lampada sul tavolo lanciava strane ombre sulle pareti.

Scrisse di quando, da piccolo, la nonna lo portava sul prato della collina, da dove si vedevano passare i treni. E insieme li salutavano, come se fossero persone conosciute.

Chissà poi dove andavano, quei treni. Se lo chiese seriamente, sebbene sapesse benissimo che erano i treni per il capoluogo, e anche quali fermate intermedie facevano. Ma dove, veramente, andavano? Non le persone a bordo, proprio i treni. Verso dove andavano, così correndo? Più che una destinazione, sembravano muoversi verso un destino.

Scrisse anche di quando, da ragazzino, passeggiava sulla spiaggia, e gli pareva che il mare dicesse un sacco di cose. O meglio una cosa, sempre la stessa: forse anche la stessa verso cui correvano i treni. Ma non c’era modo di capire cosa fosse.

Poi il foglio finì, e lui ne cominciò un altro. E poi un altro, e un altro ancora. E i fogli continuarono ad accumularsi nei giorni successivi, finché il cassetto non riuscì più a contenerli. Allora lui tirò fuori una vecchia scatola, e ce li impilò ordinatamente; poi chiuse la scatola nell’armadio, e cominciò un nuovo foglio.

Nel frattempo, attorno a lui, le cose cambiavano. Era un mutamento così impercettibile che all’inizio non se ne accorse, ma dopo un po’ diventò innegabile. Sembrava che ogni cosa, adesso, avesse un suo scopo, solo perché la sera lui poteva andare a casa e scrivere: “Amore mio adorato…”

E poteva raccontare di cosa aveva fatto durante il giorno: le cose belle, le cose brutte, la serenità e la tristezza. Anche i pensieri troppo stupidi per essere espressi, e persino per essere pensati; nulla era più insignificante, quando lo consegnava alla sua lettera.

Ogni tanto si rendeva conto che tutto ciò era irrazionale. Si ricordava che quell’amore non esisteva, o che comunque non era per lui. Però andava avanti a scrivere.

Iniziò persino a portare dei doni a quell’amore senza nome. Una foglia, magari, o una fotografia, che lui allegava alle lettere. Talvolta erano doni più evanescenti, che nessuno oltre a lui poteva vedere: un sospiro di malinconia, un sorriso di tenerezza. Diligentemente li inseriva in una busta, stando attento che non ne restasse fuori un pezzetto; e poi, con grande attenzione, li sigillava.

Infine anche l’armadio non fu più sufficiente: Fascolo cominciò a mettere le scatole sotto il letto, e poi nel soggiorno, in cucina, e in ogni angolo possibile. E il cartolaio all’angolo si domandava cosa se ne facesse un vecchio di tutta quella carta.

Persino quando fu costretto in un letto d’ospedale Fascolo non disse a nessuno delle lettere. Solo, ogni tanto gli brillava negli occhi una luce strana, e gli compariva un sorriso che sembrava salire dalle profondità. Pensava al suo amore senza nome, e vedeva le cose attorno a lui attraverso la lettera che avrebbe scritto. Poi, per non sbagliare, mentalmente la incominciava: “Amore mio adorato…” E le infermiere si chiedevano perché quel paziente sorridesse così.

Quando morì non c’era nessuno. L’infermiera di notte sentì suonare le apparecchiature e corse a vedere, ma arrivò troppo tardi. Fece in tempo solo a sentirlo dire, in un ultimo sorriso: “…adorato”. Pochi giorni dopo la casa venne aperta, le scatole trovate. Ciò destò scalpore, perché certo l’ultima cosa che si poteva pensare del signor Fascolo era che nascondesse un’amante: ma invano si cercò un indirizzo, un nome.

Alla fine le scatole vennero bruciate, e il vento si portò via subito il fumo come se volesse giocarci. Ma in lontananza suonava una campana, e nell’aria gelida spandeva un canto che cominciava così: Amore mio, amore mio adorato.

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