Premio Racconti nella Rete 2010 “Il cuoco degli dei” di Ferdinando Tricarico
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Si sa, la città, a questi provinciali, prima li disorienta, li effemina, li deride, li ghettizza e poi li fa padroni se, costoro, mantengono il senso di se stessi.
Non si era fatto male cadendo dal trattore per il terreno impervio, lavorando sodo sotto il sole leonino per rendere meno arida la natura e la propria vita.
Era stato investito, mentre mangiava il gelato a Posillipo, da un figlio di papà fatto a cocaina.
Troppo paradossale lo scontro tra queste due realtà esistenziali: tra una macchina potente e il proprio corpo, tra la nocciola ed uno sballo, tra una lamiera e uno stomaco.
Rimase invalido e non accettò il trapianto per una sacralità del corpo di natura bucolico-ancestrale.
Un cafone sincero e generoso, pragmatico, si stava comportando col più disutile snobismo del coglione. Il contadino così attaccato all’essenziale preferì non mangiare più come dio comanda, ma di trascinarsi nella paura di un intervento a rischio e le frivolezze di un cospicuo quanto effimero risarcimento economico.
Una sera, per festeggiare il divorzio tra due amici ormai alla frutta che, come tante coppie affettuose, non nutrivano più appetiti comuni, si organizzò una bagattella giocosa.
Come ai vecchi tempi della goliardia universitaria.
Non si vedevano da anni.
Appuntamento al mitico bar degli scapocchioni.
Nel prepararsi ognuno di loro aveva rischiato di prendere la racchetta di ping-pong e la mazza da biliardo piuttosto che il bancomat o la valigetta da lavoro.
Però, il pallone, lo portarono tutti nel portabagagli, quello non crea mai inibizioni.
L’incontro fu imbarazzante. Ma a lui venne l’idea di cucinare.
Non voleva partecipare a quel gioioso grande freddo; non si voleva raccontare, non aveva nessuna intenzione di ricordare, non gli interessava l’autocoscienza a cavallo tra storia personale e politica, tra privato e sociale. Insomma non gliene fregava niente di bloccare il tempo per una serata, per fare il bilancio della propria vita. E proprio ora che, dalla perdita quasi totale della funzione digerente, la bilancia pendeva dal lato sbagliato.
Voleva andare avanti lui, per trovare nuove emozioni, nuove ragioni, un nuovo lavoro.
Capì quella sera di sapere cucinare.
Carmina non dant panem e le parole sono prima di tutto emissione di fiato.
La cultura è in conflitto con la natura se al suo posto diventa strutturale.
Insomma: datemi un pezzo di pane e sfamerò il mondo.
L’uomo é ciò che mangia, non altro. Stava decidendo di intraprendere un’attività atemporale.
Allora era diventato ristoratore.
Dal nulla aveva creato un delizioso ristorantino, un fiore di campagna nel degrado urbano, uno scoglio solare nella fuliggine metropolitana, una chiacchiera umana nell’abnorme della babele contemporanea.
E ben presto molti cominciarono a raccogliere quel messaggio di originalità, quella diversità autentica in quegli anni millantata dai plastificati McDonald’s, dai pezzottati ristornati cinesi e i manierati sushi bar.
Il suo locale divenne tra i più esclusivi della città`.
Del resto c’era così tanta euforia in quell’aria che rinfrancava il corpo e l’anima.
Intanto, dimenticava di farsi pagare il conto perché credeva di aver cucinato per se stesso e non per gli avventori.
E’ evidente, pensava, faccio quel che mi é sempre piaciuto fare. Questo lavoro é un’arte che non ho dovuto imparare, é la fortuna di chi ha un talento naturale, di chi per lavorare deve sempre e solamente giocare.
Tanto si faceva appagare dai complimenti per i suoi piatti sofisticatamente semplici. Non c’è niente di meglio per un cuoco che sentire dire di una pietanza totalmente improvvisata: ma è magnifica, che ci metti dentro? Come la cucini? Qual è il tuo segreto ? E poi i più curiosi a cercare di indovinare. E tu non puoi rispondere perché non lo sai, non ricordi più il raptus culinario, quell’unione spontanea di ingredienti naturali.
Ecco, forse, si fondava sulla certezza della capacità taumaturgica del cibo sano, della dipendenza violenta e transitoria dei loro corpi, del loro piacere, di quell’effimera voluttà ripetuta ogni giorno, quasi sempre alla stessa ora.
La fatica era tremenda, la spasmodica ricerca di emozione ed intelletto gastronomico lo consumavano restituendogli l’ineguagliabile riconoscimento di essere per un po’ lo chef delle vite degli avventori, sennò
scialbe e ordinarie in qualsiasi altro posto a quell’ora.
Fondamentale che nessuno cambiasse ristorante anche se quell’attività a quei ritmi lo rendevano sconvolto ed infelice.
Ma non sapeva fare in altro modo.
Il cuoco degli dei avrebbe dovuto scendere sulla terra per capire i gusti e i limiti degli uomini. Avrebbe dovuto cucinare e mangiare la pasta e patate, la pasta e fagioli, la trippa, i ceci e la carne alla pizzaiola nelle cucine col neon a ridosso della strada, nei bassi degli orrori della giungla napoletana, così strana perché é una lotta per la sopravvivenza nella quale quando si mangia é un fatto da signori. Nei quali le asprezze della privazione non riescono ad incidere troppo sulla sublimazione filosofica della pappatoria. Una di quelle retoriche su cui ancora nutrono dubbi i retorici, gli antiretorici e i retorici della retorica.
Avrebbe dovuto farsi servire le cene e i buffet freddi dei festini della città bene, le tartine nei salotti buoni, le insalate di frutta sulle terrazze, la caprese, sia essa la torta che mozzarella e pomodori, sulle barche dei circoli del mare privato.
Eh quante ne avrebbe dovuto vedere! Anche lo scempio della spesa fatta in farmacia, delle pillole al posto del basilico, delle palestre in cui la pasta sono carboidrati, la salsiccia lipidi, l’arrosto proteine, la marmellata glucidi.
Avrebbe dovuto ossessivamente guardarsi allo specchio per capire se quel millimetro di adipe o anche quei dieci centimetri ti differenziano tanto da Brad Pitt e Kate Moss.
Quanti problemi. Avrebbe dovuto combattere capendo di pubblicità, medicina, psicologia e altre cose ancora.
Si, ma lui ne conosceva tante. Così come era in grado di trasformare i pensieri dei mangiatori.
Io prendo il caffè senza zucchero. Ormai i caffè erano pronti. Ma signora, é già tanto amara la vita! Se lo zucchero é finito. La signora sì che se ne intende, il vero caffè si prende amaro, ne va dell’aroma!
E poi, niente pomodori? Le linguine con le vongole e con le cozze vanno mangiate con la salsa bianca, si deve sentire il mare!
Pomodori da consumare? Il sapore deve essere addolcito dal pomodorino e poi, suvvia, un po’ di colore mediterraneo!
Sa’ vanno molto di moda le forme rinascimentali! Per l’irrecuperabile silhouette della chiattona che non deve pensare ad altro che grasso é bello e simpatico.
Per la ragazza tutto yogurt e saccarina. Con taglia 40 puoi indossare tutti i vestiti! Si, come un attaccapanni. Così magra nel tempo avrai meno guai fisici! E niente spese per le radiografie.
E poi, le cozze al colera solo se crude, il vino al metanolo se non é docg, l’olio d’oliva troppo grasso se non é extravergine, quello di semi cancerogeno se non è di mais, il colesterolo, i trigliceridi, il sale e l’ipertensione.
Per tutti una parola, un po’ di buon senso, servito però con passione e salde giustificazioni ideologiche.
E se poi un giorno avesse ricordato che era solamente un uomo affamato, meno frizzante dell’acqua minerale troppo addizionata di anidride carbonica che c’era sui suoi tavoli leziosi e scarni, più grasso del vitellino cotto al vapore o scivolato nello spumante, più saggio e meno flambé, cosa si sarebbe raccontato?
E che imbecillità la perfezione pensata da solo! Come si fa a essere ideatore, braccia e regista, ricetta, piatto e galateo, gestore, cameriere e dessert; pensato agito e sognato; languore sazietà e digestione; succhi gastrici masticazione e rutto?
Ma come uscire adesso dalla cappa afosa dei vapori eterei e insopportabili di quella cucina? Nella quale era rinchiuso come un…
Quando aveva cominciato aveva gusto olfatto e fantasia. Ma la presunzione lo aveva nel tempo reso ignorante. Non distingueva più le fragole di bosco da quelle di serra, il pesce fresco da quello congelato, la carne di primo taglio dalle frattaglie.
Era un dilettante e le aspettative dei clienti erano aumentate.
Che strana cosa. Pensava di aver dato tutto ai clienti, di averli soddisfatti per sempre, ma questi continuavano a desiderare ogni giorno alla stessa ora. Cosa potevano volere di più da lui? Non aveva più niente. Avrebbe dovuto cominciare a ripetersi, ad organizzare una costanza e una progressività che non gli appartenevano.
Come si fa a scegliere e a scremare la clientela? Come si fissano i prezzi di pietanze inestimabili? Come si accetta di pagare il pizzo, o come si fa a non pagarlo sapendo che sarai un martire e per di più inutile? Come si vincola il proprio talento ad orari regolari, così noiosi? Ma soprattutto come si vince la paura di regole che potrebbero renderti mediocre?
Ormai bluffava, giocava costantemente al rialzo, spendeva cifre enormi per preservare l’estro scemante anzi scimunito; investì in arredamento barocco e la sua stessa dialettica divenne rococò e non roccocò.
A Natale cucinava l’agnello e confezionava l’uovo al cioccolato, a Pasqua il panettone e gli struffoli. I suoi sudditi protestavano, i suoi padroni lo contestavano. Ma come non comprendere un progetto così esclusivo, così alternativo?
Impopolare, troppo elitario forse, ma assolutamente eccitante: andare sempre controcorrente. Stavolta, forse, stava andando contro natura.
Si era prosciugata la fonte delle sue imprese: la continua e frenetica dimenticanza della sorte instabile. La giovinezza delle sue grandi speranze si era seccata. Quelle fresche idee nelle zucchine bambine e alla scapece erano cresciute. I suoi complici avevano scelto il proprio piatto preferito; quasi non importava troppo quale. Essenziale che fosse la sostanza della loro vita, l’inderogabile riserva per soffrire il meno possibile, per premere il booster quando c’è da succhiarsi il nettare.
Era fottuto, ma non lasciava trasparire niente.
Un giorno credette di aver trovato una soluzione.
Era semplicemente una questione di look. Doveva rinnovarsi, attenersi ad un nuovo schema: il cibo non serve a nutrirsi ma solo a guardarsi nutrito.
Polpetta non è carne macinata ma solo una parola, anche meno bella di altre se, ad esempio, si pensa che gli scugnizzi la usano per indicare quelle terribili palline di muco essiccato nel naso che fanno perché è divertente, perché é schifoso, perché é la strage del galateo, perché è una condizione animale, perché è meglio così in mezzo a tanti stronzi rincoglioniti dalle forme.
Però é anche una questione di sensibilità: babà e sciù possono sembrare melensi, ma hanno una tale forza onomatopeica!
E’ vero, pensava, la storia cambia a seconda di come la racconti. La mousse di cioccolato non é mica la crema di cioccolato, la crema pasticciera non é mica quella gialla che sembra sperma carico di urina.
Insomma, da una visione romantica doveva solo passare ad una semantico-simbolica di quelle molecole che garantiscono la sussistenza, di quella materia che si unisce alla materia perché la materia duri il più a lungo possibile.
In fondo, poi, siamo semplicemente un otre d’acqua che uno spillino qualsiasi può bucare. Glielo diceva sempre quell’anatomo-patologo che scriveva poesie nel suo locale ogni volta che usciva dalla sala mortuaria del policlinico.
La prima cosa che fece fu cambiare l’arredamento. Creò una sorta di labirinto a specchi in modo tale da garantire una ambigua intimità ai vari tavoli; gli incontri divenivano tutti irriconoscibili immagini riflesse. Montò dei faretti con modulazione dell’intensità luminosa così poteva, una volta chiuse porte e finestre, avere tantissime atmosfere. Assemblò il tutto con materiali dalle linee all’avanguardia, murò la cucina.
Era stranamente alla moda, grunge e multimediale. Cosa si pretendeva di più?
Assunse una schiera di barboni attinti dal mitico esercito di riserva della disoccupazione, quello che tiene i salari bassi; li finse camerieri prestigiosi e si barricò in cucina per nuove creazioni. Fissò i prezzi delle pietanze con una banda di oscillazione a seconda del gradimento.
I sapori delle pietanze erano di molto cambiati, erano strani, irriconoscibili. Per la verità, lo erano sempre stati, ma dall’ultimo cambiamento le perplessità si facevano strada.
Gli avventori più usuali e affezionati ebbero dei dubbi, ma non approfondirono.
In fondo andava bene lo stesso: quel ristorante, in ogni caso, rimaneva esclusivo e questo era l’importante, per loro e per il proprietario.
Un giorno, però, nella cucina divampò un incendio spaventoso, dal quale si disse che lo chef era uscito gravemente ustionato ma vivo.
Sedate le fiamme, ai vigili del fuoco si presentò uno spettacolo sconcertante: furono trovate siringhe e bisturi, tamponi, libri di anatomia , anestetici.
Era tutto chiaro per gli indagatori: quel sanguinaccio rosso fuoco, le interiora più brodose, la carne più fresca ma callosa, il cervello fritto più animato a forma di cavolfiore.
Aveva macellato uomini per non cambiare emozione.
Ci si mise subito alla ricerca del terribile chirurgo della gastronomia, ma non fu trovato.
Si cercò negli ambienti in cui avrebbe potuto attingere merce a buon mercato.
Ma tra i barboni si scoprì semplicemente che qualcuno era morto assiderato, qualcun altro era diventato il falò di giovani con forte disagio personal-generazionale.
Si cercò anche tra la merce importata: gli extracomunitari.
Ma l’indagine era difficile in un mondo che si arravoglia tra vergogna e clandestinità.
Nessuna puttana di Porta Nolana, nessun vu’ cumprà del corso, nessuno spacciatore, nessun bracciante sfruttato avrebbe mai denunciato una scomparsa rischiando le ire della criminalità locale.
Agli investigatori non rimase che il mistero di un delitto certo e dalle modalità chiare ma senza vittima né carnefice.
Di sicuro qualcuno era stato sezionato in quella cucina, alla quale, senza un imperativo, ma per tacita convenzione, non aveva accesso nessuno.
Il cuoco degli dei non avrebbe mica potuto servirsi di ingredienti mortali per quell’ultima cena!
Era proprio lui, in persona, nelle coscienze e negli stomaci dei suoi avventori.
Loro malgrado un peso da espellere in qualche modo.
Niente di più sublime che sacrificare se stessi alla propria Arte… complimenti 🙂