Premio Racconti nella Rete 2018 “L’arbra” di Romano Vola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018All’imbocco della strada, che dal paese porta alla Robilia, c’era una vecchia pianta che in dialetto chiamavamo “arbra”. Apparteneva alla famiglia dei pioppi, ma più che un pioppo appariva un enorme cespuglio che si sviluppava verso l’alto. Irta di rami più o meno grossi fin dalla base s’innalzava nel cielo per venti e più metri ed era rifugio di numerosi uccelli, di gatti e persino di una volpe che si era ricavata una tana proprio sulla cima. Ma era per noi ragazzi soprattutto una palestra di arrampicamento. Gareggiavamo a chi arrivava primo in cima. Il più veloce era sempre un certo Pierluigi che andava su come un gatto e arrivato lassù alzava le braccia in segno di vittoria. Qualche volta portava con sé la merenda e si sedeva proprio lassù a spizzicare pane e robiola, ostentando piena e totale padronanza della situazione. Noi lo guardavamo da sotto con tanta invidia ma anche con un po’ di apprensione per il timore che cadesse per eccessiva confidenza. Invece lui scendeva con la stessa facilità con cui era salito e se ne andava senza spiccicare parola, pervaso che tutto quello che aveva da dire lui l’aveva già detto con la sua arrampicata. Per noi quella era superbia o per lo meno vanteria esagerata.
Venne un giorno che in cielo si rincorrevano un sacco di nubi minacciose e noi tutti decidemmo che quel giorno non era il caso di cimentarsi con l’arbra. Sebbene da noi ci fosse ancora il sole, in lontananza s’intravvedevano già diversi lampi fendere il cielo, con seguito di sordi rimbombi di tuono. Stavamo tutti seduti poco più sopra all’ombra dei tigli posti all’ingresso del paese. C’erano oltre a me, Ezio, Renzo, Sergio, Luciano, Francesco, Liliana, Marisa e Pierluigi, tutti un po’ annoiati perché quel tempo incerto ci condizionava nel da farsi, ma tutti ugualmente convinti che l’arbra quel giorno non doveva essere scalata. L’arbra, data la sua altezza, col temporale poteva divenire facile bersaglio dei fulmini. Così almeno ci dicevano i grandi, genitori in testa. Pierluigi aveva un padre molto severo che varie volte l’aveva già rapato a zero per molto meno. Ma proprio per questo sembrava che egli avesse ingaggiato con lui una sfida senza confini. Per cui ad un certo punto senza proferire parola si alzò e si avviò verso l’arbra. Tutti rimanemmo lì a fissarci perplessi, ma nessuno osò dirgli nulla perché tanto sapevamo già quale sarebbe stata la risposta: “Fifoni! Non siete altro che fifoni!”. Così lui tirò avanti dritto verso l’arbra e noi restammo a guardarci.
L’arbra era già stata colpita dal fulmine più volte e risultava mutilata in varie sue parti. Si raccontava che una volta alcuni suoi pezzi fossero stati ritrovati ad oltre cento metri, ma noi tutti eravamo convinti che i grandi esagerassero per metterci paura e così qualche volta avevamo comunque azzardato. Quel giorno però le nubi erano veramente minacciose, per cui a un certo punto Luciano, che era il suo più prossimo di casa, azzardò: “Piero, non farlo, non fare il testone come sempre! Non vedi che tempo che fa!? È pericoloso!”. Pierluigi fece finta di non sentire o non sentì e continuò ad andare. Allora Luciano si girò verso di noi dicendo stizzito: ”Ditegli qualcosa anche voi, porca miseria!”. Si levò Sergio che sprezzante gli rispose: “Non serve parlare con quel testone. Lui si crede più furbo di tutti e non ascolta nessuno.”. A quel punto “Io vado a chiamare suo padre” disse Marisa. La guardammo tutti sconcertati. Per tutti noi il padre di Pierluigi era peggio del fulmine. Avrebbe caricato di botte Pierluigi e noi ci avrebbe consegnati ad uno ad uno ai nostri genitori, presi per i capelli. Sicché Marisa si dissuase e noi rimanemmo tutti là a guardare senza parlare. Pierluigi arrivò ai piedi dell’arbra, la squadrò da capo a piedi e dopo essersi rivolto a noi con le braccia spalancate come a dirci: “Visto che non è successo niente, fifoni!” prese a salire, mentre Luciano approfittava ancora di quell’istante per dirgli: “Non salire, per favore! Non vedi che tempo!”.
In effetti nel frattempo le nubi si erano ancora più addensate, i lampi erano praticamente incessanti e il rombo del tuono da sordo s’era fatto assordante. “Non salire!” gridò ancora Luciano, ma Pierluigi stava già salendo e ogni tanto gli sbucava la testa tra i rami. Lo vedemmo per un attimo quando era circa a metà dell’arbra. Ci guardammo tutti impressionati e Marisa mi prese la mano. Poi fecero uguale tutti gli altri e venne a formarsi tra noi come un cerchio. Inutile dire che avevamo paura, ma non facemmo in tempo a dircelo che un lampo accecante con botto assordante ci lasciò tramortiti. Pierluigi non lo vedevamo più e l’arbra oscillava in modo impressionante. Ma era ancora in piedi intatta e quindi forse l’ineluttabile non era accaduto. Riprendemmo fiato e cercammo qualcosa di Pierluigi tra i rami. Finalmente rispuntò e ci sentimmo tutti più sollevati. Ma il testone continuava a salire mentre il temporale si faceva sempre più incalzante. Sergio a questo punto si alzò stizzito dicendo: “Vado giù e lo tiro giù a sassate quella testa di cazzo:” “Chi ti credi di essere, coglione? Vuoi morire?” gridò. “Sì, sì, andiamo giù tutti” disse Liliana e stavamo per avviarci quando arrivarono un altro lampo e un’altra botta tremenda. Ci portammo tutti le mani agli occhi e alle orecchie per non vedere e non sentire. Quando le abbassammo, non so quanto tempo dopo, l’arbra non c’era più. Intorno era pieno di foglie e di rami, e pioveva, pioveva a dirotto. E noi eravamo del tutto paralizzati. Non riuscivamo più né a muoverci, né a parlare. Completamente bloccati, con gli occhi sbarrati sul vuoto lasciato dall’arbra che non c’era più.
Proprio in quel mentre, dalla piazza, poco a ridosso del viale dove stavamo sbucò Carlin, tutto avviluppato in un telo, che vistici là immobili sotto la pioggia ci gridò: “Ehi cretini, vi siete accorti che sta piovendo?”.
Carlin era un semplicione senza famiglia che spesso si univa a giocare con noi e visto che nessuno rispondeva prese ad avvicinarsi dicendo: “State inventando un altro stupido gioco?”. Così dicendo però arrivò in un punto da cui vedeva quello che vedevamo noi e si bloccò sbiancato. Guardò il vuoto e poi noi. Poi di nuovo il vuoto e di nuovo noi. Infine sbiascicando chiese: “Chi c’era la sopra?”.
Nessuno rispose.
Allora di nuovo più secco: “Chi c’era la sopra?”
“Pierluigi” sbiascicò Marisa.
“Pierluigi!” ripetemmo subito dopo tutti con voci tremanti. Piombò un silenzio così assordante che copriva lo scroscio della pioggia, le sferzate dei lampi e il rimbombo dei tuoni. Fu come se in quel preciso momento si fosse appalesato l’inimmaginabile e l’invisibile. Liliana e Marisa incominciarono a piangere. Sergio prese a imprecare e bestemmiare. Tutti gli altri, Ezio, Renzo, Luciano e Francesco si abbracciarono disfatti. Intanto continuava a lampeggiare, a piovere, a tuonare. Un finimondo! Ma niente era incommensurabile come quel vuoto che ci sbarrava la vista e ci toglieva la voce.
“Bisogna fare qualcosa, chiamare qualcuno” disse Carlin.
Silenzio.
“Cristo!” disse Carlin “Ci fate o siete completamente rimbecilliti!?”.
Si alzò Luciano e disse: “Io vado a suonare le campane.
“Cosa!?” esclamò Sergio
“Sì, sì” disse Marisa “le campane sono l’unica cosa”.
“Brava! Brava!” replicò Sergio “così in un amen ci troviamo qui tutto il paese a far baccano e basta”.
“E allora!?” disse Luciano “tu cosa proponi? Ci vai tu a raccogliere i pezzi di Pierluigi?”.
“Ma quali pezzi! ma quali pezzi!” sbottò Sergio “magari non si è fatto niente. Magari è da qualche parte solo un po’ stordito. Sì, vado proprio io cercarlo, quel testone.”:
“Piero!” chiamò in quel momento Liliana con voce strozzata. Poi più forte: “Piero! Pieroo! Pieroooo!!”.
A Liliana si unirono Marisa, Renzo, Ezio e tutti gli altri. In breve l’intera valle fu pervasa da un unico grido che invocava, Piero! Pieroo! Pieroooo! A quel grido accorse tutto il paese e quel grido a poco a poco divenne un gemito disperato di gente che arrancava sotto la pioggia, spostando trochi, sollevando frasche maciullate, rovistando tra le foglie. Tutt’intorno aleggiava un intenso odore di bruciato. E pioveva e lampeggiava e tuonava. La puzza era addirittura insopportabile vicino al vuoto lasciato dall’arbra fulminata. E pioveva e lampeggiava e tuonava. E su tutto quel grido, quell’invocazione, quel grugnito, quel ruggito: “Pierooo! Pierooo!! Pieroooooo!!!
Fu in quel momento che avvertii un forte rumore e grugnendo mi sollevai dal letto. Tesi l’orecchio assonnato e dopo un po’ compresi che era il telefono che suonava. “Chi cavolo può essere” mi dissi “a quest’ora?”. Poi guardato l’orologio vidi che era mezzogiorno passato, ma tuttavia mi avviai verso il telefono con forte disappunto perché dormivo troppo bene. “Dormivo? Sì dormivo! Dunque era tutto un sogno” mi dissi prima di sollevare la cornetta. “Pronto!” dissi con la cornetta all’orecchio ”Chi parla?”
Qualcosa mi giunse dall’altra parte, ma non capii nulla perché la voce era fievole, fievole e si sarebbe detto trattenuta.
“Chi parla?” ripetei più forte.
“Sono Marisa” mi giunse questa volta chiaro.
“Ah sì! A quest’ora?”.
“è mezzogiorno passato!” disse lei.
“Embè, io dormivo! E sognavo! A proposito come sta Pierluigi? Quel cazzone che è tutta la notte che lo sogno?”.
Silenzio.
“Marisa!”
Silenzio
“Marisa!?
Silenzio.
“Marisa! MARISAAA!!”.
Giunse un click metallico e poi il tu tu tu del telefono staccato o della linea caduta.
Pierluigi anni addietro era emigrato in Ecuador e poche ore dopo venni a sapere, dal mormorio che si stava diffondendo in paese, che era stato trovato morto dopo un violento temporale.
A chi eventualmente mi leggerà sarò molto grato se mi lascerà anche un commento. Grazie!