Premio Racconti nella Rete 2010 “L’odore del mare” di Francesca Pellicano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010<<La miglior giornata che ci sia, a tutti i lor signori della compagnia!>>, ripeté con il solito inchino profondo ed il gesto ampio del braccio. Vestiti buffi- troppo larghi per un fisico una volta imponente- cappellaccio, barba bianca e lunga, occhi luminosissimi. Sulla nave era un simbolo di buona fortuna. Turisti e pendolari si lasciavano volentieri intrattenere da lui.
La mattina portava spesso ore incerte di sole pallido e onde violacee ed un po’ crespe. La gente arrivava lo stesso a riempire la vecchia imbarcazione, arrivava allegra e chiassosa, con la voglia di ridere e di scoprire. Lui era sempre là, a baloccarsi con i bambini e con i grandi. Raccontava a tutti di essere figlio del mare, del mare grande che rapisce ed innamora e raccontava le storie meravigliose di quelle acque, che a tratti si incupivano e diventavano grigie da far paura e a tratti si rasserenavano e diventavano piatte ed azzurre. Diceva che i principi del mare avevano le loro turbolenze e si irritavano al vedere la gente che non sorrideva. Così, bisognava accontentarli e meritare in premio quella pace che solo loro regalavano.
Per qualcuno folle, per altri saggio, era un uomo fuori dal tempo, che catturava tutti con la sua aria leggera e divertita.
Quasi all’arrivo si accomiatava da “lor signori”, raccomandando di lasciarsi incantare dai misteri dell’isola, senza pensare ad altro.
Lui si fermava al porticciolo, cercava il solito grande albero e vi si accomodava sotto, con lo sguardo verso il mare. Trascorreva alcune ore in silenzio; sembrava assente, mentre rispolverava i ricordi e sembrava anche intristito, mentre i suoi occhi diventavano due piccole ampolle traboccanti. All’ora di pranzo si rialzava e risaliva sulla nave per consumare il pasto in compagnia dei naviganti, dentro la cambusa sempre odorosa di cipolla fritta. Erano come la sua famiglia quei ragazzi, forti ed abbronzati dall’aria.
Verso sera la gente risaliva a bordo gioiosa, a raccontare le avventure della giornata. Lui ascoltava felice e ripercorreva col pensiero le vie che da molti anni non visitava più. Quando si cominciavano ad intravedere le rive, il suo cuore si inteneriva all’idea di abbandonare la compagnia. Allora si celava dietro le ombre della sera, per dire arrivederci.
Poi, ritirati gli avanzi della cambusa, si rifugiava nella sua piccola tana nei pressi dell’imbarcadero. Un lettuccio, un tavolo, una sedia, pochi ricordi: era tutto ciò che possedeva e che la sera annusava per ritrovare un po’ d’intimità domestica. Seduto, con gli occhi fissi sulla fiamma della candela, riviveva il passato a memoria. La solitudine gli divorava le ossa. Ma c’era il mare nella sua vita di prima, tantissimo mare che un giorno sognava di attraversare all’incontrario per tornare a casa. Quell’odore intenso di mare gli cullava un po’ il cuore.
<<Suor Elvira, troverà i libretti per il Vespro sul tavolino, provveda lei, per cortesia!>. <<Certo, Suor Amelia! Non abbia preoccupazione!>>. Lenta si avviò verso la cappella. Era l’ora della preghiera serale, le consorelle stavano per arrivare e toccava a lei, quella settimana, sistemare i libretti sui banchi e tutto il resto per la celebrazione. Era un momento solenne, come anche le lodi mattutine. Per molto tempo, il ritmo delle preghiere alle ore fissate le era sembrato un fastidio, una privazione, come ogni altro rito comunitario. Lo spazio per sé era troppo poco.
<<O Dio, vieni a salvarmi!>>
<<Signore, vieni presto in mio aiuto!>>
<<Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, Amen!>>
Un’ora dopo, la preghiera era finita. Suor Elvira si fermò per qualche minuto nel chiostro con le consorelle, poi decise di trascorrere da sola la mezz’ora che precedeva la cena. Chiuse alle sue spalle la porta della piccola biblioteca del convento, dove era conservata una discreta quantità di volumi di argomento religioso, per lo più vite di santi. Qualche volta il cigolìo della porta le ricordava i giorni della fuga, quando aveva preso coraggio per vedere com’era ancora il mondo fuori. Cercava il mare, ma si ritrovò in un paesotto dove non seppe muoversi. Rimase lì, quasi nascosta, per un giorno ed una notte. Rientrò, poi, al convento. <<Nostra Madre, mi perdoni!>>. La superiora la tirò su con affetto, mentre lei in ginocchio le baciava la mano. E la perdonò. In seguito gli anni si ripeterono sempre uguali e piano piano le portarono la pace dentro.
Quella sera scelse di rileggere la vita di Santa Teresa del Bambin Gesù, morta giovanissima e proclamata Dottore della Chiesa.
Lui non era un barbone qualunque, gli dicevano spesso. E forse allora gli venivano in mente certe cose che non rivelava mai, ma alle quali pensava spesso accoccolato sotto l’albero.
Si risaliva appena sulla collina per giungere a casa sua e da lì, in lontananza, non si perdevano di vista l’azzurro ed il viola delle acque sotto il cielo. L’aveva voluta costruire con cura insieme agli amici del paese, dandosi una mano, secondo le usanze. Ne era orgoglioso e man mano che con gli anni la sua anima si legava di più a quelle mura, sempre più desiderava morirci dentro.
Pochi chilometri in più per arrivare alla sua bottega di falegname, dove si mescolavano altri odori, la colla, la vernice, il legno. Era l’unica della zona quella bottega e i suoi lavori erano apprezzati in tutto il circondario. Era contento delle sue mani, per quello che riuscivano a fare, le considerava una vera ricchezza. Questo aveva scelto, una vita semplice.
Sua moglie era una donna bella, che arrivava da un paese vicino. Lui l’aveva amata subito e ne era felice. Lei aveva a volte un’ombra sul viso, che poi se ne andava via. Tanti anni erano rimasti accanto, poi la fine e la partenza nel buio profondo di quella notte maledetta.
Gli occhi scurissimi, profondi ed avvolgenti come il velluto fine. La pelle dorata, il filo di rossetto rosso che le contornava le labbra e che lei rinnovava spesso, specie dopo i pasti scarni con cui iniziava e finiva la giornata.
Il vento del mare, in tutte le stagioni, le levigava l’anima e alleviava il pungolo di un rimorso inestinguibile.
Nei giorni caldi l’acqua lieve le sfiorava le gambe, che rimanevano a lungo inerti. Il silenzio contrappuntava tutte le sue ore. I pensieri si erano fermati a quel giorno disgraziato, quando l’aveva visto davvero. Era l’uomo che aveva voluto portare nel cuore al posto di suo marito, era lui che abusava di sua figlia. Ora ne era finalmente certa. Ma della ferita che le lacerava l’anima, più doloroso era stato il pensiero della separazione da lui. In una notte aveva deciso e subito aveva accusato il marito, incredulo, inebetito. Neanche quell’estate era finita, che il cappio della menzogna già gli serrava la gola da non farlo respirare. Gli sguardi di condanna sempre addosso e il vuoto negli occhi della figlia bambina lo spinsero ad andarsene. Di notte uscì di casa. Guardò a lungo la moglie che, sdraiata sul letto, lo evitava e poi andò.
Quello che aveva preso il posto di suo marito aveva baffetti gentili che contrastavano con le mani ruvide da operaio. Vent’anni di un amore “clandestino” di cui tutti sapevano. Poi lo avevano trovato morto sull’auto schiantata, insieme all’amante, l’ultima dopo tante. Lei era rimasta impietrita, aggiungendo dolore al dolore. Un doppio smacco la vita le aveva riservato.
Una volta aveva chiesto della figlia, aveva chiesto al parroco, perché lui sapeva. Ma lui l’aveva guardata con sguardo indulgente ed aveva taciuto. Poi erano passati gli anni ed era morto, portando con sé il segreto. Allora lei non aveva avuto più nessuno a cui chiedere ancora ed in fondo certe domande le facevano paura. Così cercava di non pensarci. Si alzava triste, si sbrigava e andava verso il mare per sentirne il conforto. Nessuno in paese la condannava veramente, anzi qualche donna di carità le portava spesso una pietanza, sapendo che si trascurava.
Elvira non era il suo vero nome . Il suo nome era Agnese. Era diventata Elvira, moltissimi anni prima, la notte dell’arrivo in convento. Era partita segretamente dal suo paese con l’aiuto del parroco, per espiare- di quei tempi- la colpa dell’uomo di cui si era innamorata. L’aveva violata e poi l’aveva mortificata raccontandole di suo padre. Era arrivata piangendo in silenzio, l’odore del mare ancora addosso. E lì il tempo era diventato immobile, sempre uguale, come le stagioni, solo intraviste dal quadrato del chiostro durante la ricreazione. Da allora, continuamente aveva vissuto la clausura come un castigo e non come una grazia. Per lei era stata una fuga senza tregua, ed era ancora una prigione senz’aria e senza luce. Lentamente, però, coltivando fragole nel giardino, aveva imparato a vivere il tempo senza tormento. E si era anche affezionata al puzzo acre di fiori stantii nelle stanze chiuse.
Un giorno la vide sbarcare dalla nave, insieme all’altra gente. Le farfalle che aveva nel cuore si misero a turbinare e non la finivano più. Il cuore risalì fino alla gola e un’onda di sangue gli invase la testa. Era lei, lei sicuramente. Riconosceva le mani. Le si fece vicino, ma, mentre lei si girava verso di lui, lui abbassò lo sguardo come a cercare qualcosa. Rimase ancora vicino, poi fece alcuni passi per andarsene, ma si voltò svelto e disse: <<Agnese!>>. Lei non si mosse e lui ripeté: <<Agnese!>>, poi di nuovo più sommessamente: <<Agnese!>>. Finalmente lei girò il capo e stupita rispose: <<Parla con me? Il mio nome non è Agnese!>>. E si allontanò salutandolo col sorriso. Allora lui si mise a ridere, a ridere forte, mentre le lacrime gli si infilavano dentro la barba. Rideva e camminava di nuovo verso il molo, dove ormai non c’era più nessuno, solo la nave vuota.
Qualche giorno dopo, all’alba, prima della partenza, i ragazzi dell’equipaggio lo trovarono là, disteso e immobile, con gli occhi rivolti al mare.
bello Francesca. in particolare il finale.
grazie
stefano