Premio Racconti nella Rete 2018 “Il Clochard di Borgo San Frediano” di Marina Berti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Ero arrivata a Firenze per studiare arte. Non era stato facile lasciare la mia città, Monaco di Baviera, dove avevo tanti amici e la mia famiglia. Ma l’amore per l’arte italiana era stata una formidabile molla e a 19 anni mi ero trasferita a Firenze dove i miei genitori avevano affittato per me un appartamento in Borgo San Frediano, proprio dove un tempo c’erano le botteghe dei mastri artigiani. Era la fine degli anni ‘80 e non eravamo in molte ragazze a vivere fuori casa. Tante, tra le mie colleghe d’Accademia, venivano da altre città, e anche da altri Stati, ma la maggior parte di loro alloggiava presso famiglie che affittavano uno o due posti letto. Io invece abitavo da sola, in un bilocale molto carino, il cui arredamento avevo voluto personalizzare a mio gusto. La mia indipendenza era tanto grande quanto la fiducia che i miei genitori riponevano in me. Io lo sapevo e mi piaceva corrispondere alle loro aspettative, anche se non era facile. Fin da quando ero giunta in Italia, molti ragazzi mi avevano dichiarato il loro amore, ma io ero molto accorta a non farmi raggirare. Tante mia amiche che, ogni estate, venivano a trascorrere un paio di settimane in Italia, mi avevano avvisata: li chiamavano “pappagalli” quei bei ragazzi mori, abbronzati e sorridenti che le corteggiavano fino al giorno in cui loro cedevano e l’alba successiva sparivano. Mi era chiaro il pericolo e quindi non rispondevo mai alle avances, neanche dei più affascinanti, tra loro.
Ogni giorno raggiungevo l’Accademia a piedi. Mi piaceva camminare per le vie di Firenze, respirando l’aria che profumava d’arte. Sotto casa mi fermavo a comprare un bombolone appena sfornato; non lo mangiavo subito, aspettavo metà mattinata, ma mi divertiva comprarlo in quel forno dove il garzone era un giovane che mi faceva un monte di complimenti. Io ero dannatamente lusingata, ma non corrispondevo per niente quella simpatia. Lui insisteva e io restavo impassibile cosicché la sua padrona si accorse della situazione ed iniziò a prenderlo in giro. Alla fine io e lei diventammo amiche, ma gli appelli del giovane rimasero inascoltati e, maliziosamente, lo lasciai a bocca asciutta.
In Accademia eravamo tanti, maschi e femmine: anche lì i giovani studenti italiani sembravano capaci di corteggiare solo noi nordiche. Capelli biondi, occhi azzurri e la fama di essere piuttosto disinvolte in amore. Che non era per nulla vero. Ho conosciuto tante mie coetanee tedesche, ma anche svedesi e olandesi, piangere per essere state abbandonate da ragazzi che avevano promesso loro amore eterno ed essersi volatilizzati subito dopo che loro avevano ceduto. E così le mie amiche, innamorate, avevano sofferto le pene dell’inferno e loro, amanti dimentichi di ogni promessa, andavano in giro a raccontare della spudoratezza di noi straniere.
Io sapevo che non sarei finita così. Frequentavo poco i maschi, e pochissimo quelli che credevano di avere il mondo nelle loro mani. Mi vedevo invece con gli ultimi, ragazzi che sembravano non avere alcuna dote. E di uno di loro mi innamorai.
Era ormai arrivato l’inverno: Firenze era illuminata per l’arrivo imminente delle feste natalizie e io mi ammalai. Inizialmente non mi rivolsi a nessun medico, poi però le cose peggiorarono e mia madre, da Monaco, mi intimò di farmi visitare. Di malavoglia, mi infagottai nel mio cappottone pesante, indossai i guanti, mi fasciai in una sciarpa di lana ed uscii di casa. Raggiunsi a passo rapido lo studio del medico che mi aveva indicato la mia amica fornaia e mi sedetti in attesa che giungesse il dottore. Mentre ero seduta su una scomodissima panca, entrò un uomo che stimai un po’ più vecchio di me. Entrò in un ripostiglio, vi appese il suo giaccone, sudicio e lacero, ed estrasse una scopa, una paletta, un secchio e un cencio per lavare in terra. Mi chiese se mi dava fastidio che lui pulisse lo studio. Mi venne da ridere, ma risposi di no, che non doveva preoccuparsi della mia presenza, se non perché, con quel mio raffreddore, avrei potuto contagiarlo. Lui sorrise e mi rivelò che di quello non aveva paura. Dove viveva lui, i malati dormivano gomito a gomito con i sani. Credetti che fosse un infermiere, ma non mi spiegavo come mai stesse pulendo quello studio e allora glielo chiesi. Lui, con la ramazza in mano, mi rispose che si guadagnava due lire per comprare le sigarette e una bottiglia di vino, ogni tanto. Ma che no, non era davvero un infermiere. Dormiva e mangiava alla Caritas. Lo guardai meglio e mi parve che non potesse essere vero. Era un barbone che faceva le pulizie! Davvero era una storia incredibile e, curiosa, gli domandai da quando faceva quella vita. “Da quando mi sono stufato di sentirmi dire che cosa dovevo o non dovevo fare da mia moglie.” Sentenziò alterato. Poi si ricompose e mi guardò con aria dolce. “Io sono un uomo dalle poche pretese, ma lei era davvero insopportabile e così me ne sono venuto via.” Mi raccontò che prima, quando era sposato, stava in una bella cittadina sul mare: amava andare in spiaggia, nuotare, pescare, remare. Aveva abbandonato tutto, ma ora era finalmente libero. L’unico suo dovere era quel lavoretto che gli aveva trovato un prete che faceva assistenza alla Caritas.
Mi parlava, spolverando, scopando in terra, dando il cencio, senza interrompere mai il suo lavoro, neppure per farmi qualche complimento. Era il primo italiano che sembrava non accorgersi del mio fascino nordico. Ed era il primo italiano dall’aspetto poco affascinante che avevo incontrato da quando ero venuta a vivere a Firenze. Indossava un paio di pantaloni logori, di un colore indefinito, un maglione beige su cui campeggiavano diverse macchie, un paio di scarpe da ginnastica che avevano certamente visto giorni migliori. La pelle del volto era coperta da una peluria incolta, non lunga, ma decisamente non curata; anche i capelli, che sembravano poco puliti, non erano tagliati a garbo e parevano molto trascurati. Pensai che nessuna donna poteva innamorarsi di un uomo così, ma provai ad immaginarlo vestito a modino e ripulito da capo a piedi. Non doveva essere male, pensai. Ma mentre fantasticavo, lui stava uscendo, dicendomi che, ora che ci pensava, il dottore, quel pomeriggio, non sarebbe arrivato. Si chiese come io avessi fatto ad entrare. Gli dissi, seccata, che avrebbe potuto avvisarmi prima. Ma lui era ormai già andato.
Tornai a casa, furente con quell’uomo che mi aveva fatto perdere un monte di tempo. Mi sentivo presa in giro, ma poi ragionai e mi sembrò di poterlo comprendere, in fondo. Perché avrebbe dovuto dirmi che il dottore non sarebbe venuto? Io non ero che una tizia seduta lì. Ero stata io a porgli tutte quelle domande. A lui, di chi fossi e perché fossi lì non importava nulla.
Il giorno dopo avevo la febbre e dovetti, perciò, tornare in quell’ambulatorio; pregai di non rivedermelo davanti il clochard che faceva le pulizie. Le mie preghiere furono ascoltate e l’uomo non comparve, mentre invece arrivò il dottore che mi visitò, mi rassicurò e mi rispedì a casa con la raccomandazione di prendere le pastiglie che mi aveva prescritto e di restare un paio di giorni a casa, al caldo. Felice per le notizie rassicuranti sulla mia salute e per non essermi imbattuta in quel barbone, aprii la porta per uscire, ma rinculai. Lui era lì, davanti a me. Mi salutò e mi disse che sperava che la mia malattia non fosse peggiorata. Gli risposi che se fosse stato per lui, per l’attenzione che aveva posto nell’avvisarmi il giorno prima che il medico non sarebbe venuto, evitandomi di prendere freddo in quella sala d’aspetto gelata, sarei potuta essere finita in ospedale con la broncopolmonite. Lui sorrise e si scusò. Era sempre così distratto, disse. Poi riprese a lavare il pavimento dell’entrata del palazzo.
Andandomene, gli chiesi, sarcastica, se era un altro lavoretto per guadagnare due lire e comprarsi un pacchetto di sigarette o una bottiglia di vinaccio. Mi disse che era il giorno in cui lavorava per comprare i preservativi, visto che c’erano un sacco di malattie che si trasmettevano per via sessuale. Divenni rossa e quasi fuggii. Quell’uomo aveva la capacità di irritarmi. Perché mi aveva detto che avrebbe comprato dei preservativi? Non era certo un discorso da fare ad una ragazza giovane e sconosciuta. Rientrai in casa e non potei smettere di pensare a quell’uomo, che non mi piaceva fisicamente, ma che sembrava avere il potere di entrarmi nella mente.
Dopo due giorni, il raffreddore sembrava essere passato e io decisi di rimettere il naso fuori di casa. Non dovevo andare in Accademia, ma non avevo più voglia di rimanere rintanata. Senza avere una meta precisa, mi misi a camminare e, come se fossi stata presa per mano da uno spiritello d’amore, mi ritrovai davanti al portone del dottore. Lui era lì, mi guardò, mi salutò e mi chiese se avessi bisogno ancora delle cure del medico, perché in quel caso era necessario che sapessi che il dottore non sarebbe arrivato. Me lo disse con fare gentile, come per farsi perdonare della dimenticanza della prima volta in cui mi aveva incontrata; poi mi offrì una caramella: gliele aveva regalate una senzatetto che si era innamorata di lui, ma che a lui non piaceva. Gli feci notare che in quel caso non avrebbe dovuto accettarle, quelle caramelle, ma lui replicò che per quella donna sarebbe stato peggio se lui avesse rifiutato quell’omaggio. Non risposi. Conoscevo poco i meccanismi di questo genere di relazione.
Ci sedemmo su una panchina, in un giardino poco distante. Mi chiese di raccontargli di me e io lo feci, senza alcun imbarazzo e senza alcun pudore. Non capivo cosa mi stesse succedendo. Io sfuggivo da ogni uomo che attaccasse bottone per strada. Avevo rifiutato di parlare persino con giovani bellissimi e ben vestiti, che le mie amiche mi dicevano essere persone perbene. Ora, invece, stavo raccontando a quest’uomo, più grande di me, la mia storia, ma soprattutto le mie paure e i miei sogni; lui ascoltava e ogni tanto mi spiegava qualcosa di me come se mi avesse conosciuta da sempre.
Di fronte alla panchina, c’era un bar. Quando calò la sera, ci rifugiammo là dentro e continuammo a parlare. Sembrava che i nostri cuori avessero aspettato da sempre quell’incontro per raccontarsi ed essere ascoltati. Io ordinai due bicchieri di vino: ci portarono delle olive verdi e nere e delle noccioline americane con cui cenammo. Alle undici il proprietario del bar ci disse che voleva chiudere. Il mio amico mi disse che non aveva dove andare a dormire, poiché l’ospizio dove si rifugiava la notte chiudeva i battenti alle nove di sera. Gli dissi che non c’era problema: poteva dormire da me. Io vivevo da sola e nessuno poteva impedirmi di ospitarlo. Lui precisò che non garantiva sulla sua capacità di resistere al mio fascino e che, se lo sentiva chiaramente, non sarebbe stato capace di controllarsi e rinunciare a fare l’amore con me. Io risi e risposi che poteva provare, ma solo dopo aver fatto una doccia.
A casa lo ripulii da capo a piedi. Gli sfilai di dosso quegli abiti indecenti e lo spinsi verso il bagno, invitandolo ad infilarsi sotto la doccia. I vestiti, avevo preteso, li lasciasse nell’entrata: non avevo il tempo di lavarli, il loro odore era nauseabondo e in camera, immaginavo, non gli sarebbero certamente serviti. Rimase sotto l’acqua corrente un tempo che mi parve eterno. Avevo voglia di lui. Quando finalmente uscì dalla cabina doccia, gli porsi un telo da bagno morbido e profumato che lui sembrò apprezzare. Poi lo condussi nella mia camera. Io ancora vestita, lui con il solo telo a coprire il corpo vigoroso. Gli dissi che l’amavo infinitamente e che con lui avrei fatto qualsiasi cosa. Mi abbracciò e mi spogliò; poi ci rifugiammo l’uno nelle braccia dell’altra, senza pudore, persi nel nostro sogno. Feci l’amore per la prima volta con un clochard a cui mi ero dimenticata di chiedere il nome, ma che mi pareva l’uomo più amorevole della terra. Mi addormentai felice tra quelle braccia forti, che ora sapevano di pulito.
La mattina dopo mi svegliai e cercai immediatamente il suo corpo accanto al mio. Il desiderio di lui non mi aveva abbandonata, ma il mio clochard non c’era più, se n’era andato dal mio letto e dalla mia casa e io non conoscevo neppure il suo nome. Pensai che lo avrei ritrovato andando all’ambulatorio. Mi vestii veloce, rinunciai alla lezione in Accademia e, a passo rapido, raggiunsi il palazzo dove faceva le pulizie. Attesi seduta sulla panchina l’intera giornata, ma lui non comparve. E non comparve più.
Piansi per quell’abbandono. Come potevo essere stata così stupida da innamorarmi di un uomo così? Di un clochard di cui non conoscevo neppure il nome? Non raccontai a nessuno la mia avventura. Raccattai i cocci del mio cuore infranto e ripresi i ritmi della mia vita da studentessa modello. Terminai i miei studi a Firenze, rientrai in Germania e presto cominciai ad insegnare storia dell’arte in un liceo di Ulm.
Due mesi fa il direttore della scuola mi ha chiesto di accompagnare a Firenze gli studenti dell’ultimo anno. Dopo tanto tempo, ho deciso che fosse arrivato il momento di tornare nella città toscana che mi aveva accolta da studentessa. Ieri siamo arrivati. Alloggiamo in Borgo San Frediano, in un albergo scelto da me, poco distante da dove vivevo. Dopo pranzo, mentre i miei studenti stavano riposando in hotel, ho raggiunto il palazzo del dottore. Mi sono seduta sulla panchina del giardino vicino e ho provato a ricordare il volto di quell’uomo che ho amato tanti anni fa. Mentre ero persa nei miei pensieri, mi si è avvicinato un clochard che mi ha guardato e mi ha chiesto scusa. Non ci credevo, ma era davvero lui. Il suo sguardo mi ha avvolto come in un sogno.
“Sarebbe stato bello, ma avrei cambiato la tua vita. Tu non saresti stata più quell’essere che viveva libero e io non ti avrei più amata.” Ora capivo il senso di quell’abbandono. “Io sono rimasto qui, a Borgo San Frediano, con il ricordo di te che mi scaldava il cuore e la certezza che l’amore possa esistere davvero, anche quando l’oggetto dell’amore non c’è”. L’ho baciato e ho ripreso a raccontargli di me, come se tutti quegli anni non fossero trascorsi; come se accanto a me, ora, non ci fosse un uomo che mi dorme accanto in un seguito di giorni tutti uguali; come se io e lui fossimo eterni. Poi mi sono alzata da quella panchina e me ne sono andata con il ricordo di noi che mi avrebbe scaldato il cuore per sempre, certa che l’amore possa esistere davvero.
MI è piaciuto, un bel racconto sulla capacità di vivere le emozioni vere, senza pregiudizi. Un po’ confuso il finale.