Premio Racconti nella Rete 2010 “Ancora neve al Bulleye Pass” di Stefano Paolo Giussani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Jane si riteneva una persona onesta. Onesta come si può essere nel west, con un buon fucile, un cavallo veloce e qualche puttana ogni tanto. Campava grazie alla sua conoscenza della contea. Anche quella parte che si spingeva su, fino alla catena montuosa. Era uno scout. Lavorava per l’esercito e per la compagnia mineraria.
Gli avevano chiesto di accompagnare gli ingegneri a trovare nuovi giacimenti a ovest. Le montagne erano enormi onde di roccia sul mare calmo della prateria. Sospese, lì. Pronte a infrangersi. Dal paese dove finiva la ferrovia sembravano un ostacolo insormontabile.
Non era neppure un confine, pensava. Su un confine ti aspetti che dall’altra parte ci sia qualcosa. Oltre quel profilo seghettato, invece, non c’era nulla. Nulla che si conoscesse, almeno. La vista si perdeva verso le creste dove dovevi smontare da cavallo e aggrapparti con mani e piedi per andar su. E vedevi ancora solo miglia di rocce e neve, senza donne e whisky per scaldarti. Quando non potevi salire oltre, eri arrivato al Bulleye Pass. Era una sella, chiamata così perchè le sue pareti si curvavano in alto fino a toccarsi. Dicevano che quando fissavi il cielo imprigionato tra le rocce vedevi la voglia di morte del toro che sta per caricarti.
Era là che doveva andare, quella volta. L’ingegnere sarebbe arrivato col treno delle 9. Era uno nuovo, di quelli che stavano in città. Faccia da bravo ragazzo. Cappello immacolato. Vestito pulito. Due valigie squadrate in pelle marrone. Non sarebbe durato una settimana.
Che cazzo di nome era Henry Schiapparelli? Gli si era presentato tendendogli la mano. Mentre si avvicinava, il getto bollente della locomotiva lo colpì in pieno, scottandolo la faccia e quasi soffocandolo. Si era sbagliato. Sarebbe durato meno di una settimana.
Partirono il giorno dopo. In poche ore di sella il paese era già diventato una chiazza scura al margine della pianura sotto di loro. Il verde della prateria ondeggiava nella brezza che portava su il profumo dell’erba fresca. Una lunga linea grigia di binari puntava verso est. Si trovarono entrambi a fissare la colonna di fumo che si allontanava all’orizzonte.
Il tuo treno se ne è andato, mormorò lo scout.
Non ne avrò bisogno per un po’, gli rispose.
Jane aveva deciso che lo avrebbe chiamato cleanface. Lo aveva battezzato quando alla sera prima gli si presentò sbarbato e profumato come una delle puttane di Molly al saloon.
Un uomo che si profuma, pensò. In città erano strani, glielo avevano detto.
Ripresero la marcia verso ovest. Al passo ci sarebbero arrivati in due giorni, neve permettendo. Con quel vento la scia profumata di cleanface era già arrivata ai puma di tutte le valli attorno, il cow boy ci avrebbe giurato. Dovevano fare attenzione.
Appena raggiunsero il crinale la barriera di roccia li sovrastò all’improvviso. La respiravano. Li avvolgeva nell’odore freddo di neve. Si accamparono lì.
Al mattino seguente ripresero il cammino. Sembravano due esseri sputati lì da due mondi diversi. Lo scout uguale al giorno precedente. Cleanface aveva l’aspetto di uno masticato da una notte insonne, nella tenda spalmata incessantemente dalle raffiche sul terreno sassoso.
Erano in sella da un po’ quando quattro uomini scesero silenziosi dal crinale. Indiani. Comanche. Henry cleanface Schiapparelli non ne aveva mai visti dal vero. Si avvicinarono.
Qualsiasi cosa succeda non dire niente… e nessun movimento brusco gli biascicò Jane.
Nessuno parlò, solo il cow boy e quello che sembrava il loro capo si scambiarono dei cenni. Con le mani gesticolavano verso un unico punto. Quello dove tutte le linee delle montagne sembravano convergere. Una conca lontana, in alto, con una spaccatura blu scura nel mezzo. Il Bulleye Pass. L’indiano mimò un suono. Tre rumori. Sembravano un misto tra un tuono e un lontano muggito seguito da un sibilo prolungato fino a smorzarsi.
Cosa vi siete detti? Chiese Henry dopo un po’ che avevano ripreso la marcia.
Niente – rispose Jane – ma per oggi non si va oltre, gli disse smontando da cavallo.
Ma è appena mezzogiorno, gli rispose.
Si guardarono. Poi un rumore uscì dalla gola. Improvviso. Come quando sparavano le mine per tirar giù i pezzi di montagne. Poi una specie di sibilo. Infine di nuovo silenzio.
Cos’era?
Per oggi ci fermiamo qui.
Ma abbiam davanti ancora ore di luce!
Per oggi basta così. Lapidario. Senza appello. Come discutere con un muro.
Cosa diavolo c’era lassù, si domandava il giovane fissando la spaccatura tra le rocce.
Jane iniziò a montare la tenda e a raccogliere pezzi di legno per il fuoco. Henry si mise a disegnare. Il profilo delle montagne, le colline, la traccia del torrente. Non sapeva se sarebbe servito. Intanto era un modo per studiare quel che vedeva. Disegnò tutto. Quando ebbe finito iniziò con la figura del cow boy, appoggiato a un masso. Il cappello sugli occhi, le gambe distese, il coltello in mano. Stava scolpendo un bastone grande quanto la sua mano.
Arrivò la sera, il fuoco e tutte quelle cose che ti aspetti da un campo ai confini del west. Avevano mangiato. Le loro facce e le mani erano le uniche forme a raccogliere il bagliore arancione della fiamma. Cleanface gli diede il disegno. Stando zitto. Jane non era mai stato ritratto. Aveva visto la sua immagine solo nello specchio. E mai più del tempo necessario a controllare se l’ultima sparatoria lo aveva segnato. Perfino la barba se la faceva senza guardarsi. Ma ora si vedeva, fermo su un foglio. Il damerino di città lo aveva fissato sulla carta. Teneva in mano il lavoro sospendendolo tra indici e pollici, quasi temendo di sgualcirlo da tanto che era sottile. Inclinava la testa come se cercasse di vederci qualcosa attraverso.
Puoi tenerlo, se vuoi.
Silenzio. Poi un grazie, quasi mugugnato. La prima parola che ricordava vagamente qualcosa di gentile dopo tre giorni di sella, vento e fagioli bolliti.
Lo piegò e lo mise nel taschino della camicia. Non era abituato ai regali. Perfino per le donne doveva pagare. Ora quella faccia pulita gli stava dando il suo primo e unico ritratto.
Andarono in tenda. Soffiava un’aria freddissima. Henry era sveglio e tremante. Jane russava come una segheria impazzita.
Ma come fa a dormire tanto sodo, si chiese Henry. Poi un rumore felpato. E un brontolio. Come un ruggito, ma più silenzioso. Cupo. Un’ombra vicinissima alla tenda, appena oltre il telo.
Non fece in tempo a finire il verso che Jane era in piedi con in mano il winchester e il colpo in canna. A fianco all’ingresso. Mise la testa fuori. Nulla. Fece tre passi verso i cavalli. Lento come un gatto in caccia. Era scalzo. Poi d’improvviso due fiammate e due spari nel buio. E un porcatroia urlato a squarciagola. Lanciato alla sagoma scura che correva verso la prateria.
Nello sparare al puma Jane si era tagliato un piede con una pietra aguzza.
Rientrò in tenda, sanguinante. Con addosso l’incazzautra dei colpi mancati e lo sguardo di cleanface, raccolto in un angolo. Non tremava più per il freddo. Adesso era paura.
Se n’è andato, tranquillo, gli disse leggendo nei suoi occhi la voglia di tornare in città.
Guardarono entrambi la ferita.
Cleanface frugò nella borsa. Prese una camicia. La squarciò in due usando i denti. Il rumore dello strappo lacerò la quiete della montagna e dei loro respiri. Avanzando sulle ginocchia si avvicinò al taglio e iniziò a pulirlo. Jane lo guardava come se il piede non fosse il suo. Lo fissava seduto in silenzio mentre gliela fasciava, rischiarato dalla luce che filtrava dalla tenda. Intanto era spuntata la luna. Inondava con un crepuscolo bluastro i pianori e le rocce intorno.
Non riuscirono a riprendere sonno. Trascorsero la notte ascoltando i respiri l’uno dell’altro.
Il sole sorse quando erano già in cammino. C’erano solo neve e cielo. E là in fondo il Bulleye Pass. Immobile. Li fissava. Prima di mezzogiorno ricominciarono i rumori. Li riconosceva. Quelli mimati dall’indiano, quelli scesi dalle vette. Ora li poteva vedere. Erano valanghe. Le montagne che rovesciavano a valle fiumi in piena di neve. Si staccavano dall’alto, sentivi il fruscio contro i massi, poi il salto nel vuoto del burrone e il boato dello schianto.
UuuBUUUMuuu. Il suono galleggiava nell’aria per un po’. Poi rumore di pietrisco di qualche sasso ritardatario. E un rimbombo che si smorzava gocciolando in fondo alla valle.
Mancava poco al tramonto quando raggiunsero il passo. Ci si affacciò. Era davvero la fine del mondo. Oltre il crinale c’era ancora luce. E montagne. Ovunque. Mentre affondava dietro l’orizzonte, il sole infiammava le creste con lame di chiarore rossastro. Sorgevano da una palude fumosa di valli ormai grigie.
Non c’è una fine, disse il giovane fissando l’ultimo raggio.
Già – rispose il cow boy accennando un sorriso – riuscirai mai a disegnarlo tutto?