Premio Racconti nella Rete 2018 “Lobster dream” di Elisa Della Scala e Gianluca Morozzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Ha deciso di scrivere quello che ha dentro prima d’impazzire, prima che gli strilli di morte che sente tutti i giorni gli spappolino definitivamente il cervello. Ha abbandonato la cucina e attraversato la strada, adesso se ne sta seduto a un tavolino del Nordest. Una birra e la penna in mano, gli manca solo un foglio. E chi se ne frega se l’aiuto cuoco lo sta cercando da più d’un quarto d’ora.
L’auto di Sara è bruciata fino all’osso, tutto carbonizzato. Tutto. Chissà che caldo atroce a stare in quella trappola di lamiere. Chissà se aveva battuto il metallo, in una lotta disperata contro l’orribile morte mentre cercava di uscire. Di fare l’impossibile, di evadere da quella tomba d’acciaio. Di scappare dal fuoco e dall’acqua…
Manuel sta male. Sara non c’è più, da dieci giorni ormai. Si erano conosciuti al Lobster Dream, il ristorante tematico del momento. Un cuoco finisce volentieri a letto con la cameriera più avvenente. Specie se lei è intrigata dal suo essere carino e taciturno, oltre che un po’ fuori dagli schemi. Un vegetariano che ammazza le aragoste per mestiere, per la gioia di palati poco fini e molto paganti. Ma cosa non si fa per soldi, oltre che per fuggire dal proprio passato?
Manuel sta male. Se n’era andata, Sara. Dieci giorni prima. Sparita nel nulla. L’avevano cercata ovunque dopo aver trovato la sua macchina in fondo al pontile, in mare, al porto di Ciriale. Completamente bruciata. C’era rimasto solo il telaio, e quasi nulla di lei. Solo da analisi più approfondite era arrivata la conferma: la ragazza si trovava dentro all’abitacolo nel momento in cui era partito il fuoco. E doveva essere stato un rogo di parecchie ore di agonia per consumare tutto così, prima che il parapetto cedesse e la carcassa dell’auto cascasse ancora bollente dritta giù in mare. Eppure, nessuno aveva visto niente. Nessun testimone. E anche se il caso non era ancora chiuso e a questo “dettaglio” gli inquirenti non avevano fatto cenno, fu dalla dinamica generale dei fatti che al ristorante capirono che dopo dieci giorni di assenza lei non sarebbe più venuta a lavorare. Poi la polizia ufficializzò la notizia, dopo il telegiornale. E dissero che sospettavano il suicidio, cosa che al Lobster Dream avevano già pensato tutti: Sara era una strana, e una come lei con l’auto ridotta in quello stato…
Tutti lo avevano pensato. Tutti meno che Manuel. E lui ora sta male. Perché Sara, anche se è morta, non ha smesso di parlargli. Non smette di chiamarlo per nome in mezzo agli strilli delle aragoste. Così lui sa che sarà costretto a scappare pure da quel posto, com’è già scappato dal suo passato. Lo ha deciso nel momento esatto in cui ne ha avuto la certezza, quando ha sentito di nuovo la voce di quella ragazza. Distintamente. Ecco perché se n’è andato a bere al Nordest, mollando il lavoro nel bel mezzo della serata.
Aiutami, non voglio morire! Era lei che gli parlava, senza alcun dubbio. La sua voce era tornata da chissà dove, ma l’aveva riconosciuta subito in mezzo agli strilli che infestavano la cucina. Ed era pura follia, perché non le aveva mai sentite pronunciare da Sara quelle parole. Non era in macchina con lei mentre moriva. Ma soprattutto, era pura follia il fatto che nel momento in cui aveva sentito di nuovo la sua voce aveva pensato che quella ragazzina gli mancava maledettamente. Il suo corpo giovane, un corpo che aveva esplorato in tutti i dettagli. Fin dentro le pieghe dell’anima. Manuel non sentiva la voce di Sara da quella maledetta notte di dieci giorni prima. Da quando era ancora calda e nuda nelle sue mani, legata da lui, cosciente del punto in cui lo aveva portato. Aveva solo sedici anni, Sara, anche se per quello che faceva a letto ne dimostrava almeno diciotto.
Lo sai quanto mi piace sentirmi legata. Ti amerò sempre, ricordalo. Anche se dovessi morire, gli diceva.
Manuel alza la testa, sbuffa fuori tutto il fiato che ha in gola come se fosse l’unico modo per respirare. Ha appena preso il suo Xanax, e ordinato la seconda birra. Scrive, ma il foglietto di carta che sta aspettando non s’è visto. Eppure, la storia c’è tutta. E si ripete continuamente, davanti a lui, nelle cucine del Lobster Dream. Un’aragosta dietro l’altra, prima o poi moriranno ad una ad una com’è morta la sua Sara. In un caldo atroce. La sala è piena, come ogni sera. E allora gli acquari si svuoteranno e loro non strilleranno più. E anche lei la smetterà di parlargli, maledizione. Era sparita quando era finita con l’auto in mare e adesso, a quanto pare, è tornata a fargli pesare la cosa. Ma a fine serata Sara la smetterà di tormentarlo, oh sì! La smetterà di chiamarlo per nome, quella troia. Sempre che non rimanga un’ultima aragosta viva…
Sai che le aragoste sono telepatiche?, gli aveva detto quella sera, a letto.
Cazzate, figuriamoci se lui ci credeva.
Ti giuro che l’ho visto in internet, è la pura verità. Aveva insistito, le lacrime agli occhi, dimostrando tutti i suoi sedici anni. Ma a te che le ammazzi non ti dice nulla la coscienza? Che lavoro di merda che facciamo!
Mm, Manuel aveva grugnito in risposta.
E sai di che ho paura?
Aveva fatto segno di no con la testa mentre frugava il comodino per cercare la scatola di Xanax. Voleva dormire. Avevano appena fatto sesso a lungo, e al solito modo. Eppure, l’adrenalina della cucina non gli era scesa di un millimetro. Doveva per forza spappolarsi il cervello per spegnere tutti i centri nervosi.
Ho paura che prima o poi quegli strilli mi entrino dentro la testa e mi raccontino la loro morte atroce, ecco.
Sara si era rigirata nel letto, fastidiosamente. E poi aveva ricominciato a frignare. Emotiva. Manuel aveva preso un bicchiere d’acqua in bagno. Ci aveva sciolto dentro cinque compresse di Xanax, e glielo aveva allungato.
È amara quest’acqua, ma che ci hai messo?
Bevi, non ci pensare. E poi dormi.
Le aveva risposto spegnendo la luce, seccamente. Incominciava a non sopportarla più. Non c’era bisogno che frignasse ricordandogli quanto detestava fare il cuoco al Lobster Dream. Però, quello che Sara gli aveva insegnato gli piaceva. Cazzo, se gli piaceva. Passare la notte insieme a lei era l’unica cosa bella del suo lavoro, un piacevole modo per non pensare. Talmente piacevole che ormai non poteva farne a meno, Sara lo salvava da se stesso. Le notti in cui tornava a casa da solo dopo il ristorante non riusciva a non sentire quel rumore martellargli l’interno del cranio, ticchettare dietro gli occhi. Quel preciso rumore. Bollite vive, le aragoste andavano bollite vive per essere servite ai clienti e tramutarsi in un piatto gustoso. Gettate nell’acqua bollente, per trasformarsi da creatura vivente a cibo prelibato. E strillavano. Ma la cosa peggiore erano le zampette. Raschiavano impazzite sui bordi della pentola, e facevano rumore. Quel rumore. Chissà che caldo atroce, a stare in una trappola di latta incandescente…
Non ci pensare, aveva detto l’aiuto cuoco.
Com’era riuscito a capire quello che aveva in testa? Manuel non parlava con nessuno. Nemmeno con Sara, figuriamoci con quel coglione.
Non ci devi pensare, aveva ripetuto. Non sono animali intelligenti, le aragoste. Sono come le zanzare, come le mosche. Ti fai problemi a schiacciare una zanzara? Guarda che non getterei mica un gattino nell’acqua bollente per servirlo ai clienti, neanche per tutti i soldi del mondo. Perché il gattino soffre. Ma loro, no! Le aragoste non hanno i centri del dolore, non si accorgono di morire. Vai tranquillo, fratello.
L’aiuto cuoco se la rideva del loro lavoro di merda e allora Manuel ci aveva creduto ai suoi discorsi, le prime volte. Non hanno i recettori del dolore, va bene, quindi non soffrono. Ma poi aveva sentito quel rumore, dall’interno del pentolone chiuso. Il rumore di zampette che battono contro il metallo. Che battono disperatamente contro il metallo. Le aragoste cercavano di uscire, in una lotta disperata contro l’orribile morte. Cercavano di fare l’impossibile, di evadere da quella tomba d’acciaio. Di scappare dal fuoco e dall’acqua riscaldata fino a una precisa, mortale temperatura. L’aiuto cuoco non ne sapeva un cazzo. Le aragoste conoscono il dolore. Conoscono la paura. E lui, sera dopo sera, doveva gettare all’inferno delle creature viventi che conoscono la paura, che conoscono il dolore. Fanculo, non c’è nessuno che non conosca il dolore e la paura…
Anch’io ho avuto avuto paura, sai? Fino all’ultimo secondo in cui sono stata presente a me stessa. Ma poi, superato un certo punto, la paura è sparita. Puff. L’hai fatta sparire tu, amore mio, Manuel. Con il tuo Xanax. Se non lo avessi preso prima dell’incidente sarebbe stato tutto diverso. Invece, così ho sentito solo il dolore. Un dolore puro. Perché il dolore rimane, quello sì. Bisogna proprio che ti spappolino il cervello per non sentirlo. E io lo sentivo, eccome. Non avevo paura, eppure il dolore lo sentivo. Era surreale. Grazie a te, mi ci sono abbandonata fino all’ultimo. Davvero surreale. Ero quasi affascinata dal dolore, totalmente incapace di provare terrore per l’atrocità in mi stavo trovando.
La potenza della mente, questo è il punto. Manuel alza lo sguardo. Poi lo riabbassa, e scrive qualcosa sui suoi foglietti inesistenti in modo che quella maledetta storia passando dalla testa alla punta della penna fino al niente possa uscirgli dalla memoria come un doloroso orgasmo. Possa schizzare via dal suo corpo, perdersi in qualcosa che non è stato, cadere nell’oblio. Ma non funziona così. Ciò che è successo è lì, in un punto preciso nel tempo. E la memoria lui ce l’ha dentro, inesorabilmente. Brucia come l’acqua per le aragoste che deve ammazzare di mestiere.
E allora si alza, e poi è di nuovo nella cucina del Lobster Dream. Butta l’ennesima aragosta nell’acqua bollente, e la guarda contorcersi con le chele legate e le zampe impazzite. E allora fa scivolare una pasticca di Xanax nel pentolone, misericordioso. Sperando che quelle zampe si fermino, e rimanga solo lo stupore. La paura che si trasforma in atroce meraviglia accanto alla sensazione di immenso dolore. Mentre la morte si consuma, non si può fermare. Perché la morte è inarrestabile tanto quanto la vita, perché sono la stessa cosa. Crediamo di controllarle, invece sono loro che guidano le nostre mani. Fino a scivolare dentro al mare, in una macchina bruciata. Qualcosa che succede, anche se inavvertitamente, ma una volta che è partito non si può più fermare. Come un impulso, un moto incontrollabile. E anche i sentimenti estremi sono così, quelli che ti prendono una sera qualunque. Quelli che ha provato con lei, gli stessi che lo stanno tormentando ora in mezzo agli strilli e all’odioso ticchettare nelle pentole che riempie la cucina. Ora che ha notato anche questo rumore oltre alle grida, non riesce più a fare a meno di sentirlo perché lo Xanax non basta. E poi arriva di nuovo la voce di Sara, maledetta.
Non così, così mi fai male.
Gli dice, all’orecchio. In un sussurro che è fuoco. Ma passione, non disperazione. Pure se sta sentendo dolore, in quel momento. E un po’ di paura. Manuel lo sa, per questo si ferma. Allenta le corde. Giusto quel poco che basta per farla respirare meglio. Non vuole che lei abbia paura. E poi ricomincia, più dolcemente. Solo amore e dolore, la sua donna vuole sentire questo. Gliel’ha insegnato lei il gioco. Semplice gioco erotico o fantasia di dominazione, antica forma artistica di sublimazione del desiderio. Shibari, Sara lo ha “iniziato”. Lei che ha solo sedici anni, e più di vent’anni meno di lui.
Manuel butta un’altra aragosta nel pentolone, l’aiuto cuoco lo guarda con sospetto mentre fissa in modo quasi morboso le chele legate quell’attimo prima di aprire la mano e consegnare l’animale all’acqua bollente. Poi rimane ad ascoltare mentre raschia le pareti del pentolone con le zampette, disperatamente. Nel tempo odioso che non è più vita ma non ancora morte.
L’altro scuote la testa.
In teoria, se fossi nel tuo paese ti sbatterebbero dentro.
Cosa?
Ho letto l’altro giorno che non è legale ammazzarle così dalle tue parti.
Manuel grugnisce. Almeno con lo Xanax la paura non c’è. Ma non glielo dice. Scuote la testa pure lui, e basta.
Sara aveva le mani legate, proprio come le aragoste che sta buttando giù nel pentolone. Ecco perché è difficile che sia riuscita a liberarsi dopo essere finita nel mare, anche se il calore l’aveva risvegliata da quella morte apparente. Anche lei si era sentita così, nella macchina in fiamme. Glielo stava dicendo proprio prima quando gli parlava della paura e del dolore. Ma a differenza loro, grazie a lui non aveva provato paura. Non aveva provato ad uscire, incastrata tra le lamiere, mentre la sua pelle si staccava e i suoi capelli diventavano torce e i suoi bulbi oculari esplodevano per il calore. Non aveva provato a picchiare sul metallo, come le aragoste in pentola.
Ma non ha ammazzato nessuno, lui. Manuel torna con la mente a qualche minuto prima che succedesse quello che era successo. Quando Sara ancora gli parlava davvero, e non attraverso le aragoste.
Sai perché la gente le mangia, nonostante la crudeltà nel prepararle? Te lo sei mai chiesto?, gli aveva detto.
Manuel non le aveva risposto. Lui è vegetariano, non gliene frega un cazzo di mangiare le aragoste. E poi ci sono tante crudeltà raffinate che si fanno solo per godere. Come lo Shibari. E tante cose che si fanno senza motivo. Com’era capitato quello che era successo a lei. Spesso le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare, aveva sentito dire un giorno.
Ho letto che prima andrebbero stordite, bisognerebbe spappolare il cervello prima di metterle a cottura. Così non sentono più niente, garantito, pure se sono ancora vive…
L’aiuto cuoco continua nel suo discorso, imperterrito, anche se Manuel non lo ascolta più. Sente solo gli strilli delle aragoste. Aveva ragione Sara, questi dannati animali sono telepatici. Ma forse è vero quello che gli ha detto prima, che lei non ha sentito dolore. Cinque pasticche di Xanax avrebbero desensibilizzato persino un professionista dello stordimento. E avevano già iniziato a farle effetto quando l’aveva legata di nuovo, per scoparla l’ultima volta sperando di scaricarsi del tutto e poi finalmente dormire. A lei piaceva farlo così perché il dolore delle corde le piaceva da morire, glielo aveva detto mentre gli spiegava il suo Shibari.
C’è qualcosa che non va in te, conclude l’aiuto cuoco.
Manuel non risponde, e controlla con l’altra mano il blister dello Xanax sul fondo della tasca dei pantaloni. Stavano scopando così bene quella sera, bene come non mai. Sara non frignava più, sotto l’effetto dello Xanax si era praticamente addormentata. Una bambolina di pezza nelle sue mani, tutta legata come gli aveva insegnato lei. Al ricordo ha un principio di erezione, una di quelle potenti. Ma passa subito quando arriva il pensiero successivo: aveva smesso di respirare, la troia, gli aveva fatto un brutto scherzo proprio sul più bello. Se n’era accorto poco prima di venirgli in faccia. Per questo l’aveva caricata in macchina ancora legata, direttamente dal letto, anche se non aveva capito se era ancora viva oppure no. Non respirava, era un “dettaglio” più che sufficiente per cadere nel panico.
E poi era successo l’incidente. Spesso le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare. Lui stava improvvisando. E non era stata colpa sua se la macchina aveva preso fuoco subito dopo il botto. Tanto meno se Sara era caduta nell’acqua chiusa in una trappola di latta incandescente. Manuel era stato sbalzato fuori all’ultimo momento, illeso per miracolo. Non aveva fatto niente, lui, se n’era semplicemente andato. Quando c’era stata la prima esplosione. Ma chissà che caldo dentro quella bara di lamiera incandescente, come un’aragosta nel pentolone.
E ora dovrà andarsene pure da quel maledetto ristorante, prima o poi. E allora sarà la fine. Il tempo libero fa ricordare, e lui non vuole. Non deve. Perché lo Shibari non è che una minima parte dei ricordi che ha con Sara. L’unica eccitante. E il resto è sgradevole come quell’incidente e tutte le sue continue, maledette associazioni mentali dovute agli strilli delle aragoste.
Solo legata a te, gli diceva. Quella ragazzina era la cosa più bella che gli fosse mai capitata. Non aveva mai legato nessuno prima di lei. E forse l’amava, persino. Certamente non avrebbe mai voluto farle conoscere la paura. Per questo le aveva dato a tradimento dello Xanax sciolto nell’acqua quando s’era messa a frignare per quel discorso della telepatia delle aragoste. Voleva proteggerla dalla paura. Il dolore invece era diverso, il dolore le piaceva. Glielo aveva sempre detto: nello Shibari il dolore si sublima. Nello Shibari, o più precisamente nella sua personale interpretazione di quell’antica forma artistica di desiderio, il dolore si tramutava nel suo piacere. E diventava il loro piacere, di entrambi. L’estremo modo di possedersi che Sara aveva insegnato a Manuel. Fino alla fine.
Perché adesso non sarebbe stata più di nessun altro.
Potente, disperato, doloroso e ossessivo. Un bellissimo racconto serrato e incalzante, come i pensieri e le voci quando non si riescono a fermare. Ho cercato le cuciture fra le vostre due scritture ma non le ho trovate, bravissimi.
Grazie mille, Marco. Ci fa molto piacere quello che dici 🙂
MI è piaciuto, ben scritto e con un ritmo notevole, complimenti.
Grazie Ilaria!!
Molto bello, ci si ritrova nel vortice della mente di quest’uomo, tra le immagini che sfumano l’una nell’altra, senza tregua, senza via d’uscita, senza speranza, storditi dallo xanax. Molto bravi, complimenti
grazie Antonella, un’analisi dettagliatissima. Fa piacere sapere che il racconto ti è arrivato in modo così preciso