Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Tutto sta cambiando” di Federica Bertagnolli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Ancora qualche ora, e il sole sarebbe tramontato.

Sara guardò fuori dal finestrino. I suoi occhi furono percorsi da un fremito di fastidio nell’inglobare parte della luce biancastra che le si posò sul volto; misero a fuoco sprazzi di paesaggio verdeggiante, le ditate che cospargevano il vetro.

Il treno avanzava rapido, giusto qualche sussulto di tanto in tanto. Sara si agitò sul posto, sollevò appena le gambe per far sì che la pelle delle cosce si staccasse, almeno per un attimo, un rapido secondo di sollievo, dal rivestimento appiccicaticcio del sedile. Il bracciolo rivolto verso il finestrino, in balìa del sole, era diventato rovente, e il sistema d’aria condizionata rilasciava sbuffi tiepidi destinati a disperdersi nell’afa.

Un’estate così torrida non si vedeva da anni, al telegiornale lo ripetevano dall’inizio di giugno. Sara si era sorbita quella solfa covando un crescendo d’insofferenza, sdraiata sul divano nel salotto dei suoi genitori, mentre il televisore strepitava raccomandazioni di ogni genere per invitare i cittadini a far fronte alla calura.

Non era stato facile, all’inizio. Lasciare Roma per tornare a casa dopo tre anni di assenza, infilarsi nel letto in cui dormiva quando ancora andava al liceo e incideva sulla testata i nomi di ragazzi più grandi e dal sorriso irresistibile. Esisteva uno scarto incolmabile, ormai, tra la ragazzina che era stata e la persona che era diventata dopo quel primo periodo all’università. Era passata attraverso tante, troppe esperienze. L’euforia di un’indipendenza che aveva afferrato al volo, gli esami, le feste, una lunga e stimolante serie di nuovi incontri.

E poi, la caduta. La corsa inebriante della giostra si era arrestata e il contraccolpo aveva investito Sara per sbalzarla via, facendo disegnare al suo corpo una parabola vertiginosa, prima che l’impatto col terreno le mozzasse il fiato in gola.

«Sta per cambiare tutto», sentenziava sua madre dalla cucina mentre mescolava la pasta.

Sara a quel punto tendeva i muscoli, si rannicchiava sul divano portando le gambe al petto e si rendeva conto di odiarla, quella donna, per via del tono perentorio con cui ogni giorno le sbatteva in faccia quella che aveva tutta l’aria di essere una sentenza, o forse soltanto un’accusa neanche troppo velata. Certo che cambierà tutto, avrebbe voluto dire. Ma andrà bene, mamma, lo so. Devo credere che andrà bene.

Abbassò le palpebre e prese un respiro profondo. Un passeggero alle sue spalle scartò qualcosa, l’incarto di un panino al tonno a giudicare dall’odore. Sara espirò bruscamente e riprese a farsi aria con l’impegnativa della visita medica usata a mo’ di ventaglio.

Il treno rallentò a singhiozzo, fino a fermarsi con un lamento metallico. La porta del vagone si aprì per lasciar entrare un ragazzo con al collo un paio di cuffie verdi, seguito da un uomo in giacca e cravatta. L’ultima a salire fu una donna, carica di buste della spesa e con un passeggino al seguito. Depositò le buste a terra e issò il passeggino con uno sbuffo, quindi lo fece avanzare travolgendo uno dei sacchetti. Un pomodoro rotolò sotto il sedile lì accanto, ma la donna non parve farci caso. Borbottava, a voce sempre più alta.

«Ecco qui. Fatto». Si scostò dalla fronte una ciocca dei capelli castani che teneva raccolti in una molletta di plastica. «Che fatica. Vediamo se troviamo un posto, eh? La mamma si deve cercare un posto».

Il bambino agitò le mani grassottelle. Minuto, fin troppo per un passeggino tanto ingombrante, sembrava in procinto di sgusciarne fuori e rovinare sul pavimento. La madre sollevò le braccia, rivelando due chiazze di sudore sulla maglietta oversize, e rilasciò un sospiro, un lunghissimo sospiro carico di stanchezza che riempì il vagone e andò a premere contro i finestrini, incrinandoli sotto la sua spinta. Sara cessò di respirare per un secondo o due, quasi volesse scongiurare la possibilità di essere contagiata da tanta spossatezza.

«Che fatica», ripeté la donna.

Si lasciò cadere sul sedile più vicino, e col dorso della mano si asciugò il sudore dalla fronte. Guarda com’è distrutta, si disse Sara. Guarda com’è impregnata di sfinimento, come da ogni poro della sua pelle trasuda il desiderio di un altro luogo, di un’altra vita. Guarda come il fiato le resta intrappolato in gola sotto il peso di quei chili in più che di sicuro non voleva.

«Da sola non è mica facile», riprese la donna. «Ogni giorno avanti e indietro col passeggino. E la spesa, poi. C’è sempre da fare la spesa».

Sembrava parlasse per la pura e semplice necessità di farlo, senza rivolgersi a qualcuno in particolare; o al contrario, rivolgendosi a chiunque fosse disposto ad ascoltarla. Dopo aver abbassato lo sguardo, Sara tornò a sbirciare nella sua direzione, cogliendo il guizzo nervoso di un paio di occhi strabuzzati, il rosso acceso delle guance butterate.

Sussultò quando il bambino attaccò a piangere. Fu una sorpresa prendere atto di quanto fosse penetrante quel lamento, della determinazione con cui risuonava nitido e squillante al di sopra di ogni altro rumore. Sara si irrigidì e strinse l’impegnativa tra le dita, facendo increspare la carta sottile. Un barlume di nausea le pulsò sul fondo dello stomaco.

«Calmati, su». La donna prese il bambino in braccio e occhieggiò in direzione della signora accomodata alla sua sinistra. «Dicono che siano dei piccoli miracoli, eh? A volte lo sono, è proprio vero. Altre volte…» Prese ad agitare le gambe. «Su, avanti, basta. La smettiamo di piangere? La mamma è stanca. Ha tanto mal di testa».

Il bambino seguitò a strepitare, il volto congestionato per lo sforzo. La donna gli carezzò la testa, lo cambiò di posizione, gli diede un bacio frettoloso, quasi di supplica, ma quello continuò. Andò avanti per un minuto, due, dieci, un quarto d’ora, e nel frattempo la nausea di Sara aumentò d’intensità fino a farle accapponare la pelle. Avrebbe voluto afferrare il bambino e zittirlo premendogli una mano sulla bocca; quel pensiero le causò un moto di orrore verso se stessa.

«Devo andare in bagno».

La donna parlò in un tono privo di inflessioni. Si alzò e tese il bambino al ragazzo con le cuffie, rimasto in piedi accanto alla porta. Quest’ultimo accettò il fardello con malcelato sconcerto: lo prese tra le braccia aggrottando la fronte e abbozzò un sorriso tirato.

«Basta che lo tieni così… sì, ecco. Grazie. Torno subito».

La donna sparì oltre la soglia. Sara cronometrò la sua assenza contando i secondi, lanciando occhiate ansiose all’orologio che portava al polso. Chissà se quella madre l’aveva cercato, suo figlio. Se l’aveva voluto. Se davvero si sentiva completa con una creatura attaccata al seno, o se al contrario la sensazione di eventuali dentini attorno al capezzolo la frustrava, o addirittura le risultava disgustosa. Potevano fare male, quando poppavano? Far uscire del sangue, lasciare cicatrici?

Sara deglutì, aveva un groppo alla gola. Le tornò alla mente il fresco di quella notte, la danza di una miriade di lucette colorate sul soffitto, la musica che le rimbombava nel petto e che a fatica si faceva strada verso i timpani passando per uno strato di ovatta. Le coperte umide contro la schiena, la stessa schiena che Sara aveva inarcato lentamente, più volte, mentre le dita dei piedi si arricciavano contro il lenzuolo.

La donna rimase via a lungo. Il ragazzo si guardò intorno con espressione allarmata, le braccia rigide e un rivolo di sudore a colargli lungo la fronte. Il bambino, stremato, aveva smesso di piangere, e si leccava il moccio che gli era uscito dal naso.

È scappata, si disse Sara. L’ha lasciato qui.

Invece la donna tornò. Sistemò il bambino sul passeggino e raccolse i sacchetti della spesa. Rivolgendosi all’uomo in giacca e cravatta, disse: «Alla prossima scendo, non è che può aiutarmi? Io da sola non ci riesco». Strizzò gli occhi. «Non ce la faccio».

L’uomo annuì. «Certo».

«Perfetto, grazie. Sempre se ne ha voglia, eh. Altrimenti, che dice, buttiamo giù tutto e basta?»

La donna proruppe in una risata isterica, mimando l’intento di scaraventare suo figlio e il passeggino fuori dal treno. Sara si premette contro il finestrino. Non la voleva sentire, quella risata, le dava i brividi. Si mescolava ai ricordi di quella notte, al respiro cadenzato dell’ombra che sollevandosi dalle lenzuola si era rimessa in piedi e l’aveva lasciata lì da sola, a fissare il bagliore intermittente dell’insegna luminosa al di là della finestra.

Non appena il treno si fermò, il bambino ricominciò a piangere.

«Ecco, vede? Ha di nuovo fame. Oppure è ora di cambiargli il pannolino. Un’altra volta». La donna incrociò lo sguardo di Sara. «Hanno sempre bisogno di qualcosa, questi piccoletti. E quel qualcosa lo pretendono da te, te lo strappano via a forza se non li accontenti subito».

Sara raggelò. Li guardò scendere, una madre e il suo bambino. Lasciò cadere l’impegnativa tutta accartocciata ed emise un respiro tremante. In preda a un’ondata di terrore puro, viscerale, si posò una mano sul ventre.

Cresceva.

 

 

 

 

 

 

 

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2 commenti »

  1. Brava. Racconto al femminile sulla maternità che ne svela anche i lati difficili, complessi e contraddittori. Complimenti.

  2. Grazie mille, mi fa molto piacere che tu l’abbia apprezzato!

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