Premio Racconti nella Rete 2010 “Il tiratore” di Stefano Paolo Giussani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Andrea Valsecchi era un ottimo tiratore e quel mattino si preparava a segnare dei colpi che in molti avrebbero ricordato per parecchio tempo.
La visuale era perfetta dal poggio dove si erano arrampicati prima ancora che nascesse il giorno: il rettilineo sarebbe riuscito a sfilare le prede verso la traiettoria dei suoi proiettili.
Ottima luce sui bersagli, ottima prospettiva di mira, ottima corsia di tiro. La collina alle loro spalle li proteggeva con un cono d’ombra in cui sarebbe stato difficile individuare la loro posizione per la colonna tedesca.
Davanti al tratto di autostrada in quel momento deserta gli tornò in mente il giorno dell’inaugurazione. Era stata un avvenimento indimenticabile per il paese. Era poco più di un bambino ma ricordava di esserci andato con la maestra. Erano tutti vestiti uguali e orgogliosi nell’uniforme da Balilla, una compagnia di piccoli mascalzoni tirati a lucido per l’arrivo del duce e del ministro. Prima di tagliare un nastro sentì raccontare che la loro vita non sarebbe stata più la stessa e che quella grande via era “il” progresso e altre cose ancora che ora non ricordava più. Arrivarono anche tanti uomini in uniforme, molti con le cineprese e le macchine fotografiche. La folla riempiva tutta la carreggiata e i veicoli imbandierati si avviarono tra gli applausi a percorrere l’asfalto in direzione del mare.
Oggi l’autostrada era lì davanti a lui e da quella posizione se ne sentiva un po’ il padrone. Era uno dei tratti più veloci. Un muro in pietra e cemento a sinistra conteneva il pendio, la scarpata sul lato opposto digradava verso il fiume. La riga bianca intermittente nel centro della striscia scura era precisa come un esercizio di geometria che si perdeva in un puntino alla fine della corsia.
Il fiume era un sottile nastro argenteo in un greto di sassi grigi. Sulle colline circostanti la vegetazione non più invernale ma non ancora fiorita lasciava intravedere il sottobosco e le onde sinuose del crinale. Tutte le linee del paesaggio sembravano fluire morbidamente dalla gola dove si perdeva la prospettiva. Anche la ferrovia e la statale si originavano da quel punto buio in fondo alla valle.
Lo sperone sul quale era appollaiato era un buon punto di osservazione anche sul paese. Le case si succedevano lungo la strada assecondandone il movimento e le colline erano punteggiate dalle grosse ville di qualche commerciante che veniva dalla città a far vacanza.
La spianata al margine della chiesa era quella da cui ogni estate si diffondeva la musica della balera. Pensò alle persone che la affollavano, al suono dell’allegria e al profumo del vino nell’aria, ai balli veloci che trovava buffi per come costringevano a muoversi. Ricordava i seni delle ragazze pigiati al suo torace durante le danze lente. Vedeva anche il prato oltre il boschetto dove una di loro lo aveva accompagnato la notte che segnò la fine della sua adolescenza. Gli tornò in mente quando lei si era chinata e lo aveva sciolto in un fluido di piacere. Poi si sdraiarono sotto il cielo tempestato di stelle appoggiato sulle cime degli alberi. Al momento gli piacque ma si rese conto che era solo uno sfogo. Non era quello il genere di rapporto che cercava. Non in quel momento.
Spostando di poco lo sguardo intravide la stazione ferroviaria e il grosso piazzale alla sua destra e ricordò quel lontano sollievo di fronte alla infilata di binari quando lasciò il paese. Anche se lo mandava in guerra, nel carabiniere che chiamava all’appello i coscritti vedeva una specie di liberatore che gli apriva le porte della gabbia per mandarlo a scoprire il mondo.
Solo tornando, allo sbando dopo l’armistizio, nell’avvicinarsi a casa si era reso conto di quel che gli era capitato e di quanto diverso dalla sua immaginazione fosse il mondo che sognava di conoscere.
Aveva ucciso e visto uccidere. Aveva assistito alla morte dei suoi compagni senza poter far nulla, nemmeno per quelli a cui si era più affezionato. Lo avevano abituato a vivere la giornata. A raggiungere la sera come fosse un successo essere lì, vivo. Per ricominciare daccapo il giorno dopo.
Tornato, il profumo dei boschi dell’Appennino, anche se in clandestinità, gli aveva riempito i polmoni di una sensazione familiare. L’incontro con i partigiani che parlavano il suo dialetto gli aveva restituito un obbiettivo, dei compagni e la sensazione che c’era un posto che poteva chiamare casa. Solo ora, in quell’istante, sentiva di meritarselo. Era il suo mondo, plasmato tutto attorno sui rilievi, sugli alberi che stavano germogliando, nei ciuffi d’erba che con decisione bucavano la tavola dei grigi della stagione fredda. Era nel fruscio della brezza che in certi giorni si sentiva arrivare dal mare, nei cinguettii dai nidi.
Era anche nei fischi sottili del richiamo della compagnia partigiana che era schierata attorno a lui, sparpagliata nel bosco.
Il rumore lontanissimo di un cigolio amplificato dalla eco della gola al capo opposta dell’autostrada pungolò i suoi pensieri cancellando come una spugna sulla lavagna tutte le immagini.
Il fischio sommesso della vedetta in cima al crinale confermava: l’autocolonna nazista era in avvicinamento.
Fissava l’imbocco della stretta forra con uno sguardo ossessivo, pieno di impazienza per dover sentire nell’aria quella minaccia ridondante senza distinguerne l’origine. Avvertiva anche il peso degli occhi dei compagni appoggiati lì, su quella ultima curva.
Essendo il più capace a tirare al bersaglio aveva la posizione migliore.
Al suo fianco distingueva solamente uno dei ragazzi, Mauro Stucchi. Veniva da Alessandria. Non era altrettanto abile col fucile ma sui tiri lunghi aveva quella buona combinazione tra pazienza, precisione e velocità che sono gli ingredienti di un buon tiratore. Poi era uno che gli piaceva. Forse troppo cittadino, ma nelle notti di fronte al fuoco gli aveva passato certi libri e avevano discusso animatamente della vita. Riusciva a parlare di tutto ed era intenerito da quella innocua immagine cittadina che trasmetteva. La corporatura minuta lo faceva sembrare piccolino tra i partigiani delle valli, come un tronco novello nel bosco delle querce centenarie, eppure era salito qui per dare il suo contributo.
Quando leggeva portava gli occhiali, quando tirava al bersaglio no e Andrea trovava divertente il contrasto. Ci pensava ogni volta che davanti a un libro le lenti riflettevano la fiamma nel buio assoluto del capanno. Come un ragazzino, quando gli occhiali scendevano verso la punta del naso li riportava in su con l’indice. E quando si accorgeva che Andrea lo stava fissando, allora si scambiavano un sorriso.
Un rumore più vicino infranse l’aria rarefatta. Lo scricchiolio metallico senza fine si materializzò in un autoblindo, seguito da una macchina, poi i camion. Apparivano lentamente. Uno, due, tre…la curva non smetteva di snocciolare grossi veicoli grigi… sei, sette.
Nove in tutto. Tre di merci, una cisterna e gli altri di soldati. A venti soldati a camion più la macchina e l’autoblindo facevano un centinaio di uomini.
Loro erano in ventuno. Effetto sorpresa e posizione di tiro lo facevano sentire sicuro. Anche la vicinanza di Mauro lo faceva sentire sicuro. Come gli spartani di cui gli aveva fatto leggere. In gruppo erano invincibili.
Le moto erano più veloci e dal fondo del rettilineo si lanciarono distanziando la colonna. Erano affiancate dal sidecar e in avanscoperta superarono le postazioni di tiro scivolando indisturbate sotto le silenziose mire partigiane.
L’ordine era chiaro.
Sarebbe stato di Andrea il primo colpo, sul segnale di un fischio del tenente. Obbiettivo: il primo camion. Avrebbe bloccato la strada e dato inizio alla festa.
L’autocolonna continuava ad avvicinarsi, ormai tutta a vista, precisa come un treno sulle rotaie.
Un fischio. Uno sparo.
Dopo il dito premuto sul grilletto e il colpo sulla carica, Andrea sentì il proiettile abbandonare la canna, sorvolare il bosco, sfrecciare nel vento sopra l’asfalto dell’autostrada, puntare al vetro del suo obbiettivo, penetrarlo con un piccolo foro preciso, sbriciolare l’osso della fronte dell’autista e fermarsi. Lo sbandamento improvviso del mezzo e la grandinata di colpi che partì in quell’istante scompigliò l’incolonnamento portando il caos nella valle. I camion vomitavano soldati come un formicaio impazzito mentre il tiro partigiano iniziava a schiacciarli al suolo. I tedeschi cercavano riparo scavalcando i corpi dei compagni, chi tra i camion, chi lanciandosi nel pendio a lato dell’autostrada.
La torretta del mezzo corazzato iniziò intanto a ruotare e cercare nel bosco un obbiettivo. Gli ricordò un animale sbandato che fiuta l’aria alla ricerca di una preda invisibile. Partì il fuoco di risposta ma contro luce e verso la collina in ombra era uno sparare a caso.
Andrea fece partire il secondo colpo questa volta verso la cisterna. Centrata. Nessun effetto. Forse era gasolio e non benzina. Un secondo colpo, poi un terzo. Poi un boato e una torre di fiamme spumeggianti sormontata da una colonna di fumo nero si alzarono dal centro dell’asfalto. Al ritiro della bolla incandescente i soldati più vicini erano diventati schegge di fuoco che correvano verso ogni direzione. Per un breve istante provò pietà per quei poveracci che non erano più uomini ma torce.
Scambiò un’occhiata con Mauro in cui si dissero tutto. Poi Mauro riprese a sparare, il lavoro andava finito. Si volse anche lui agli obbiettivi quando sentì un colpo più sordo partire dalla testa della colonna. L’autoblindo aveva ricominciato a sparare.
Se ne rese conto appena prima che tutto si trasformasse in un accecante lampo bianco e avvertisse un calore mai provato prima, leggero e avvolgente come sospeso in una vasca di acqua deliziosamente tiepida.
Poi solo una voce, di Mauro.
Il suo nome, chiamato.
Urlato, disperato.
Poi più nulla.