Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “La delazione” di Corrado Consolandi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Il sindaco Giannetti guardava con aria preoccupata il documento sulla sua scrivania. Si stava lisciando i baffoni neri alla Stalin e si sentiva come il dittatore durante l’assedio di Stalingrado: una cupa minaccia incombeva sul futuro del suo governo e della sua amministrazione, il tutto a meno di una settimana dalle elezioni. “Porca putana schifusa vaca porca cagna … chi saral che fioel de na putanasa …” continuava a ripetere tra se e se, perché mai avrebbe avuto il coraggio di pronunciare a voce alta la serie di oscenità e bestemmie che in quel momento delicatissimo affollavano il suo cervello. Il sindaco Giannetti era conosciuto da tutti come un uomo estremamente mite e fine: e per la verità lo era davvero, tranquillo, calmo, sempre in grado di affrontare ogni situazione con il sorriso o, se necessario con un’energica scrollata di spalle. Ma qui si attentava alla stabilità del paese, per dio. Il documento che stava sulla sua scrivania era scritto con lettere ritagliate da riviste, come nella migliore tradizione di rapimenti e sequestri, il contenuto era una bomba: “Totò lo stradino, piuttosto che pulire i strade, sta sempre ai bar a bere i campari” così recitava testuale il documento. Per il sindaco era un problema: Totò lo aveva fatto assumere lui, era un suo vecchio amico e pensava di fare un favore a quel meridionale molto ignorante che in passato aveva addirittura avuto problemi con la giustizia. La prima volta quando faceva il benzinaio e lucrava in maniera spudorata e disonesta dando resti sbagliati e fregando a ripetizione gli ignari clienti rifornendo quantità irrisorie di benzina. La seconda quando cercò di introdurre abusivamente una pistola lanciarazzi al Delle Alpi di Torino, durante una partita casalinga dell’amata Juventus. Comunque Totò aveva quasi sessant’anni ed era una versione più grassa e volgare del sindaco: tanto il primo cittadino era magro, esile, pallido dall’aspetto insignificante e ben educato, tanto Totò ero basso, scuro e decisamente grezzo. Li accomunavano i baffi, scuri come la notte e foltissimi. Quella delazione però forse capitava a proposito, ragionava Giannetti: poteva indagare lui stesso prima che la notizia giungesse alle orecchie delle Maledette Opposizioni, che avrebbero senz’altro strumentalizzato la vicenda per fargli le scarpe alle ormai imminenti elezioni. No, non si poteva rimandare, pensava il sindaco, bisognava intervenire, con pugno di ferro e spezzare immediatamente qualsiasi forma di rivolta. D’altronde si stava avvicinando alla pensione: altri cinque anni di governo gli avrebbero permesso di finire la sua esperienza lavorativa con grande tranquillità e serenità; di tornare in ufficio a rompersi le palle ancora per qualche anno non se ne parlava nemmeno. Così si decise: il giorno dopo avrebbe pedinato senza pietà Totò, seguendolo durante il suo giro quotidiano di pulizia delle strade del paese. Doveva solo scegliere il travestimento migliore per passare inosservato.

Ma in un paese di 5mila persone, pensare di passare inosservato è pura utopia, soprattutto se sei il sindaco. Giannetti si presentò in comune alle sette precise: nessuno era ancora arrivato e avrebbe scoperto che nessuno arrivava mai prima delle undici, esattamente cinque minuti prima che lui varcasse le soglie del Municipio. Penserò ai fannulloni un’altra volta, pensò, non considerando minimamente a includersi nel numero dei pelandroni, si chiuse in ufficio e iniziò a prepararsi. Per il bene comune, e soprattutto per il suo, sacrificò i baffoni, che non tagliava da quando aveva vent’anni e che gli avevano deformato il labbro superiore in maniera ormai irrimediabile: sembrava avesse un taglio cesareo a posto della bocca, assomigliava pericolosamente a un coniglio impaurito, con quella faccia magra che aveva. Poi impermeabile, che a fine maggio non è proprio il modo migliore per passare inosservato. Visto il caldo optò per tenersi sotto solo i boxer e i calzini tirati su fino alle ginocchia, considerando che tanto non avrebbe dovuto mostrare a nessuno il suo ridicolo fisico da sollevatore di pratiche e alzatore di bicchierini di caffè. Occhiali da sole clamorosamente da signora, erano quelli di sua moglie, infatti lui mai aveva indossato niente del genere, con stanghette decorate scritte brillantinate molto cafone e cappello alla Humprehy Bogart calcato sulla fronte. Ai piedi le immancabili scarpe marroni che avevano la caratteristica di star malissimo abbinate a qualsiasi cosa. Se non fosse stato per le oscene calzacce blu che spuntavano da sotto l’impermeabile e faticavano a restar su, data la scarsità di polpacci del nostro, per la totale mancanza di carisma e per gli occhialacci da battona, il sindaco sembrava proprio un investigatore privato.

Così agghindato si piazzò quindi sulle panchine di fronte al Municipio e non passò nemmeno un minuto che venne riconosciuto dal dottor Artoni, che in paese pigliavano tutti per matto perché si vestiva in maniera bislacca ma che in realtà era un cardiologo di fama mondiale e non gli scappava nulla. Il dottor Artoni non aveva la macchina e, si diceva, neppure un nome di battesimo: leggenda in paese vuole che il suo nome comune fosse proprio Dottor. Girava sempre, in tutte le stagioni, con un paio di calzettoni da calcio fino alle ginocchia e ne aveva a centinaia, nessuno l’ha mai visto due giorni di fila con le stesse calze. Poi zoccoli di gomma colorati, bermuda con i tasconi pieni di roba e giubbotto smanicato da pescatore. Sotto il giubbotto, d’estate camice hawaiane e magliette colorate, d’inverno maglioni infeltriti di colori indefinibili e sconosciuti. Aveva una barba lunga e bianca fino al petto, era alto un metro e cinquanta, portava i capelli candidi a mezzo collo, un cappellino con la becca e gli immancabili occhiali da sole. Non aveva la patente e si spostava o su un’Apecar verde o in bicicletta, trascinando un carrettino pieno dei più svariati utensili. E proprio in bici passò davanti alle panchine del municipio, quel giorno soleggiato di fine maggio, credendo di avere le traveggole. Un uomo, che assomigliava tremendamente al sindaco ma senza baffi, con la faccia pallida da coniglio impaurito, un paio di occhiali da sole da battona e un’impermeabile, stava seduto con le gambe accavallate, sudando e in atteggiamento tutt’altro che sereno. Così si fermò a fissarlo.
Il Dottore smontò dalla bici sul marciapiede, continuando a scrutare insistentemente quella strana apparizione primaverile. E poi in paese dicevano che lo strano era lui. Il sindaco lo fissava a sua volta per pochi instanti, poi distoglieva lo sguardo. Sembrava una scena da duello messicano, con il Dottore che cercava di capire chi fosse il personaggio, se un pedofilo o semplicemente qualcuno scappato da una casa di cura e il sindaco, visibilmente a disagio, che passava da una chiappa all’altra, dondolando sulla panchina. Quando il primo cittadino si accorse che il Dottro Artoni l’aveva infine riconosciuto, si arrese e consegnò le armi, abbozzando un timido cenno di saluto con la testa.
“Sindaco?” disse con un tono tra l’interrogativo e il meravigliato il Dottor Artoni.
“Dica” rispose Giannetti sudando come una bestia, particolarmente teso visto che il suo travestimento era saltato dopo tre minuti e si era rivelato un fiasco.
“La strada chè l’è piena de büse” dichiarò solenne il Dottore, che al contrario di molti compaesani non era avvezzo a giudicare nessuno, inforcò la bicicletta e abbandonò il sindaco come se niente fosse ad annegare nel suo sudore, sentendosi rispondere un timido “Provvederemo”, mentre si allontanava pedalando.

La giornata iniziava quindi già malissimo per il sindaco Giannetti. Non si perse comunque d’animo e attese sulle panchine l’arrivo di Totò, che alle nove giunse puntuale (almeno quello) a ritirare la bicicletta a tre ruote, il bidone e la scopa che utilizzava a pulire le strade del paese. Il piano del sindaco era, secondo lui, semplice e sicuro allo stesso tempo: avrebbe seguito Totò con nonchalance, entrando poi subito dopo di lui nei bar che, eventualmente, avrebbe visitato e chiedendo con indifferenza informazioni sulle consumazioni dello stradino. E così alle nove e quattro minuti Totò uscì dal cortile del Municipio con la sua biciclettina, che parcheggiò esattamente venti secondi dopo di fronte al bar Roma, dall’altra parte della strada rispetto alla sede del Comune.
“Può essere che vada a bersi un caffè- penso Giannetti, calcandosi il cappello sulla fronte e alzando il bavero dell’impermeabile per non farsi vedere in faccia- ci starà senz’altro due minuti”.
I due minuti si rivelarono invece cinquanta minuti secchi, così che Totò uscì dal bar Roma molto barcollante, alle nove e cinquantaquattro.
“Ahia casso- imprecò a denti stretti il sindaco- sono fottuto”.

Entrò al Bar Roma non appena Totò ebbe inforcato la bicicletta, con più di una difficoltà. Appena mise piede nel locale fu salutato da Sergio, il barista.
“Uelà Sindech. Come mai così bardato?”.
Cazzo, mezzo secondo e anche Sergio, che non era certo un segugio, aveva già sgamato quello che Giannetti continuava a ritenere un travestimento diabolico e perfetto.
“Se va beh- rispose sconsolato- ciao Sergio. Mi potresti gentilmente dire cosa ha preso Totò, sono nel bel mezzo di un’indagine …”. Ormai era quasi sconfitto. “Solo un caffettino vero?” domandò speranzoso, ma non ci credeva nemmeno lui. D’altronde in cinquanta minuti Totò poteva aver in scioltezza prosciugato le scorte del bar. E in effetti l’elenco fu impressionante: due bianchi lisci, due Campari e un caffè corretto grappa. Più tre bestemmie, contate, una partita a briscola con due pensionati e il Conte, che era ai domiciliari e viveva proprio sopra il bar, e che all’ingresso del primo cittadino si nascose dietro alla Gazzetta dello Sport. Il sindaco finse elegantemente di non vederlo, salutò e uscì distrutto, sulle tracce del suo sciagurato spazzino.

Il resto della mattinata fu tremenda per il nostro sindaco: alle dieci lo stradino si rifugiò alla bocciofila Nitti, per riemergerne sempre più ubriaco tre quarti d’ora più tardi; alle undici si fermò a pisciare proprio accanto al cimitero; alle undici e tre riparò con grande calma al “Pueblo”, locale di interisti in cui andava solo per attaccar briga; a mezzogiorno era completamente sbragato sulla panchine del parco Collodi, dietro le scuole medie. Giannetti non lo aveva mai perso di vista: il caldo era ormai insopportabile sotto l’impermeabile, i calzini erano fradici e adornavano le caviglie dell’ometto, la testa bolliva come una pignatta di polenta incandescente. Al parco Collodi riparò anche lui su di una panchina: si stravaccò e per la prima volta nella giornata, sotto al fresco delle piante, con il piacevole vento primaverile che spirava e lo rinfrescava un poco, si sentì sereno. Massì! Avrebbe allontanato a pedate quel terrone! E lui che gli aveva dato pure fiducia, fedele al suo principio che una seconda possibilità non si nega neppure al Mostro di Rostov. Cacciato Totò e ripristinato l’ordine. E l’avrebbe fatto lui, senza polemiche da parte delle maledette opposizioni, senza rotture di coglioni o prese in giro. Mentre così pensava, buttato sulla panchina del parco, le cinghie dell’impermeabile cominciarono ad allentarsi, aprendo l’indumento in maniera lenta e inesorabile. Come delle tende lasciate libere, i due lati del pastrano iniziarono così a spalancarsi, mostrando il sindaco Giannetti, in tutto il suo splendore decadente, con il suo petto di pollo bianco come il latte e cosparso da qualche peletto nero, con una pancetta ridicola che sembrava una mozzarellina avariata, con i boxer grigi chiazzati di sudore ma che sembravano però tragicamente sporchi d’altro, con due gambette rachitiche e dalle ginocchia gemelle, con i calzini arrotolati alle caviglie con sotto le tremende scarpe marroni. Unite a questo quadro deprimente e senz’altro più che equivoco a una scolaresca di bambini in libera uscita al parco, e potrete certamente comprendere il motivo delle grida belluine che quel giorno scossero il luogo.

Il giorno prima delle elezioni Giannetti uscì prima dal Municipio. Svicolò rapido come un topo, e così infatti molti lo chiamavano in paese, il topo o il ratto (qualcuno optava per la sorga o la pantegana) dirigendosi a passi rapidi verso la sua Multipla. Le elezioni erano sicuramente perse: era stato accusato di essere un pederasta dalle Maledette Opposizioni, beccato in un parco con l’impermeabile aperto come i peggiori maniaci, completamente nudo tranne i calzini e i boxer grigi, tutti imbrattati. Qualcuno diceva che si toccava furiosamente il membro, altri che sudava copiosamente e che il suo respiro affannoso poteva essere sentito a diversi metri di distanza; qualche maestra disse addirittura che provò a rapire un bambino; fatto sta che le Maledette Opposizioni non s’erano lasciate sfuggire l’occasione, conducendo un’imponente campagna diffamatoria a cui il primo cittadino non aveva saputo opporre una resistenza efficace. L’avevano pure denunciato. E così era sicuro: governi erano caduti per molto meno, il suo regno in paese stava per terminare. Sarebbe dovuto tornare al lavoro, in quell’ufficio di contabili che lui tanto disprezzava e che pensava di non dover rivedere mai più. Almeno era però riuscito a cacciare Totò, quel maledetto, se non fosse stato per lui e per la fottuta lettera anonima che l’aveva così tanto agitato, nulla sarebbe successo: lui avrebbe continuato a vivere nell’ignoranza e sarebbe stato rieletto. Ma ormai …

Giunto in prossimità della sua macchina fu scosso da un’apparizione: qualcuno aveva inciso il cofano con una chiave. “Figglieeeputtana” il testo del messaggio. Il sindaco Giannetti se lo immaginò gridato con forte accento meridionale da un uomo basso, grassoccio e con dei baffoni folti.

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