Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Il piccolo Luzi” di Stefano Paolo Giussani (sezione racconti per bambini)

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Lo chiamavano tutti piccolo Luzi. Piccolo perché era uno degli ultimi nati nella frazione sulla collina. Piccolo perchè tra i coetanei sembrava crescere a rilento e gli unici con cui riusciva a sentirsi davvero grande erano le galline e i conigli.

Ogni volta che varcava il portone della cascina si vedeva come una miniatura degli esseri umani, sovrastato da quelle massicce ante in legno sempre aperte. Quando nel tardo pomeriggio il sole illuminava la facciata dell’ingresso, il tramonto irrompeva nel buio della corte disegnando sul selciato la forma perfetta del grande arco. Per quanto tutte le ombre di passaggio si allungassero in quello spazio, la sua rimaneva solo una piccola isola scura con un oceano di luce intorno, come una formica sulla grande aia.

Era piccolo per raggiungere il sedile del trattore, per arrampicarsi sui pioli della scala nel frutteto, per avvicinarsi ai cavalli e rischiare di essere calciato. Piccolissimo per entrare sotto gli archi del fienile, dove però ruzzolava comunque scomparendo ogni volta che voleva nascondersi. Al suo riapparire era talmente tappezzato di pagliuzze che non si faceva fatica a capire quale fosse il suo rifugio, anche se tutti fingevano di non saperlo.

In occasione delle feste, con tutti i commensali stipati attorno alla tavola imbandita, capitava che sulla tovaglia profumata di fresco si notasse un vuoto. Dal grande piano spuntavano i busti degli adulti disegnando il profilo di una grande famiglia, lasciando però uno spazio tra due sedie. In realtà, ad uno sguardo più attento, una coppia di occhioni dalle pupille color noce, incorniciate da una frangetta che non si capiva mai da che parte tirava, segnalavano come due fanali nel buio la presenza in quel nulla del più piccolo della cascina. Finiva allora che uno sgabello appoggiato sulla paglia della sedia riportasse Luzi all’altezza di tutto quel ben di Dio che sarebbe stato un peccato non mangiare.

La sensazione di essere piccolo-piccolissimo si smorzava a scuola. Il pulmino giallo pieno di vocianti pesti in brache corte attraversava la vallata per portarlo in un posto dove finalmente poteva appendere il cappottino rosso senza sforzarsi, appoggiare i libri su un banco alla sua altezza, scrivere sulla lavagna senza allungarsi. Perfino quando faceva pipì trovava l’orinatoio esattamente dove il suo pisello gli suggeriva di rovesciare tutta quell’acqua che gli premeva sulla pancia, senza doversi arrampicare sulla tazza per poi rimanere seduto con le gambe a penzoloni.

Perché, si domandava, la cascina era stata costruita tutta tanto grande? Non erano stati bambini tutti quegli adulti che adesso l’abitavano e ci lavoravano? Si erano dimenticati che fatica costava guardar tutto sempre dal basso?

Oltre a quelli nella scuola, c’erano degli altri momenti in cui si sentiva meno piccolo. Succedeva quando qualcuno degli adulti lo aiutava a vedere le cose dall’alto.

Gli capitava ad esempio quando sulle spalle del padre percorrevano i filari, in particolare quelli a ovest della corte. Erano in una posizione di crinale e dalla statura che raggiungeva lo sguardo si riempiva di vigne e cielo, divisi solo da un orizzonte di colline. Era come volare, accarezzando le grandi foglie e i grappoli che sul finire dell’estate punteggiavano di blu quelle strisce verdi senza fine. sentiva il sole caldo sulla faccia, l’odore rassicurante dei capelli del papà, i cinguettii dei passeri che stavano al suo gioco spolverando con le ali le foglie che lui sfiorava con le mani.

Quando poi chiudeva gli occhi e allargava le braccia, allora avvertiva la brezza appoggiarsi leggera sotto di lui per sollevarlo. Sognava di staccarsi dal suolo e iniziava a galleggiare nell’aria. Riusciva a vedere in basso la sagoma quadrata della corte, i tetti della frazione allungata sulla strada, il santuario sulla collina in fondo e in lontananza il Po con la grande pianura. Allora sì che non si sentiva più una formichina, perché là sotto era diventato piccolissimo quel che normalmente vedeva enorme. Alla fine del volo, si era levato talmente in alto che aveva poi bisogno di riconquistare la terra, respirarla, toccarla. Era il momento in cui chiedeva allora al genitore di scendere dalle spalle per lanciarsi in una corsa che lo faceva sentire il folletto delle vigne. Poteva passare sotto i filari, muoversi come gli altri non riuscivano e sfrecciare indisturbato verso le mura di casa, dove era contento di poter avere un nido, su nel fienile, esattamente come quello degli uccelli con cui aveva condiviso un pezzo di cielo.

Poi gli piaceva anche scendere in cantina, dove il lavoro di tutti riposava nei legni delle botti. Ce n’erano di enormi e altre di dimensioni più contenute.

Era sicuro che le più piccole fossero costruite per lui: botti per bambini fatte apposta per non farli sentire troppo piccoli.

La cosa più straordinaria è che c’era un racconto per ognuna di quelle sagome panciute. Ne aveva ascoltati dal nonno e da chi le aveva riempite negli anni precedenti. Nel silenzio delle volte in mattone e protetti dalle morbide fasce in legno riposavano i vini che erano nati dalle stagioni generose, quelli fatti con le uve scampate alle tempeste, quelli ottenuti dai filari che aveva accarezzato durante i suoi voli e quelli lasciati ad aspettare per tanti anni, perfino da prima che nascesse lui.

Scendere in cantina in compagnia era diventato per lui una specie di rito, come andare al cinema in città. Le botti erano il palcoscenico dove qualcuno saliva per iniziare uno spettacolo speciale. Le apriva e, con un lungo tubo in vetro, ne prelevava il contenuto per versarlo nei calici di chi stava sotto. Siccome anche la cantina non era pensata per i piccoli e rischiava di sparire tra i contenitori tondeggianti, il posto di Luzi era in prima fila, in piedi sul legno. Gli piaceva toccare quelle tavole curvate e levigate al punto da essere lisce ma mai abbastanza per nascondere al tatto la venatura dei boschi dove erano nate.

Anche lui aveva un calice, come quello degli altri ma più piccolo.

Anche lui riceveva dunque un assaggio di quel prezioso nettare. Lo faceva roteare sul vetro come i grandi, l´alzava contro la luce e notava che il colore cambiava, da quello delle rose brillanti a quello delle macchine da corsa, dai caldi tramonti che pennellavano le nubi d’estate alle braci dei fuochi invernali.

Anche lui, proprio come i grandi, si lasciava guidare dall’olfatto. Il naso era da bambino eppure riusciva a trasmettergli tutti quei profumi che lo facevano tornare a volare. Sentiva il bosco con l’aroma della terra bagnata dalla pioggia, i fiori nel campo, l’erba appena colta dall’orto. Respirava la frutta che maturava al sole e quella delle marmellate che spalmava sul pane, il cuoio della sella dei cavalli e il tabacco della pipa fumata dagli uomini la sera.

Il vino, si rendeva conto, era un modo per mettere tutti d’accordo senza dare importanza se eri piccolo o grande, giovane o vecchio. Lì, in quel teatro dei sensi, si sentiva come uno dei grandi e gli adulti erano un po’ come dei bambini.

C’era anche un’idea che ogni tanto rimuginava. Ci pensava quando, in piedi sulla prima botte, era lui a guardare gli altri dall’alto in basso. Tutti erano con il naso per aria a fissare l’uomo che prelevava il vino e la scena gli ricordava il cinema, quando le ombre colossali dallo schermo scivolavano sopra la gente facendola ridere, commuovere o spaventare.

In uno di quei momenti decise che avrebbe fatto di tutto per emozionare chi gli stava attorno e cercare di cancellare le differenze di età. Quando la cascina sarebbe diventata sua, avrebbe spostato tutto il fieno per costruire un cinema sotto gli archi enormi del suo nascondiglio. Sarebbe diventato il rifugio dove ognuno poteva tornare a incantarsi come un bambino. Poi sarebbero scesi in cantina.

Quella sera si addormentò felice come mai prima e il mattino seguente, attraversando l’aia per correre verso il pulmino giallo, si sentì per la prima volta un gigante.

 

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1 commento »

  1. Bello, soprattutto il “taglio cinematografico” di alcuni frangenti.
    Francesca

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